Nel caos di queste ore, nel marasma di notizie, aggiornamenti e biografie posticcie che sta invadendo i media, nella selva di messaggi di solidarietà, commenti e futili distinguo, la certezza, la realtà brutale ed incontrovertibile è una sola: Vittorio Arrigoni è morto. E' stato ucciso in un "rifugio" all'interno della striscia di Gaza, territorio che aveva "scelto" e di cui si sentiva figlio. E' stato giustiziato da un commando di integralisti salafiti, forse vittima sacrificale della "lotta contro le distorsioni della modernità, della deviata interpretazione dei seguaci di Hamas", molto più probabilmente della più terrena lotta per il potere e di interessi "avvolti da nubi oscure e grondanti sangue e disperazione".
Solo qualche mese fa Vittorio era stato fotografato, ripreso, intervistato, mentre prendeva parte ad una delle "normali" azioni di protesta contro l'operato del Governo Israeliano a Khan Yunis, nella parte meridionale della striscia di Gaza. Qualche mese prima, Vittorio era di nuovo "salito agli onori della cronaca" (davvero beffarda come definizione per chi ha vissuto gli ultimi anni della propria vita in un quella che è una vera e propria zona di guerra") per aver partecipato ad un tentativo di rompere l'embargo dei Territori con alcuni pescatori palestinesi. Successivamente (stiamo parlando della fine del 2008), era stato uno dei pochi a raccontare al mondo, attraverso il suo blog guerrillaradio.iobloggo.com la repressione dell'esercito israeliano ed i nuovi bombardamenti a Gaza, diventando di colpo un personaggio noto agli utenti della Rete, ma allo stesso tempo il bersaglio di gruppi dell'estrema destra filo – israeliana che lo dipingevano come "primo nemico da uccidere in quanto terrorista e sostenitore di Hamas".
Una storia che ha da subito fatto gridare al "complotto israeliano", alla rappresaglia dei servizi segreti sionisti e che lascia aperti tantissimi interrogativi, ai quali probabilmente neanche il tempo darà risposta. Già, perchè quello che resterà di questa tragedia non sono le tante parole al vento, i tanti commenti, gli appelli, la solidarietà a comando, l'indignazione a scadenza. Quella di Vittorio è un'altra vita spezzata, l'ennesima esistenza distrutta in una terra che ha visto troppa violenza, troppo sangue, troppa speranza vanamente inseguita. Accanto alle responsabilità politiche, che è giusto e doveroso accertare (anche se ci sia concessa una buona dose di scetticismo), accanto alle responsabilità materiali, che devono essere individuate e punite, resta forte il senso di una enorme responsabilità morale che investe anche ognuno di noi. Tragedie del genere sembrano colpirci come "fulmini a ciel sereno", sembrano svegliare la nostra sensibilità dall'assopimento, la nostra umanità dal letargo e allo stesso tempo riportano alla luce anche istinti profondi, rabbia, sete di giustizia, finanche di vendetta.
Ma tutto questo, con ogni probabilità, non c'entra nulla con Vittorio e con la sua tragedia. E' e resterà sempre enorme la distanza fra questo mondo chiassoso e urlante, fra la polemica politica ed ideologica e la vita di un uomo che aveva scelto di essere con i deboli, dalla parte degli oppressi, nel cuore stesso delle "ossessioni e distorsioni del Sistema" (tanto per usare parole nobili), vivendo quotidianamente il dramma di una terra, di un intero popolo. E fra i messaggi di cordoglio, per la dipartita di questo “pomposo modernista, additato anche come auto-referenziale, che spiattellava il suo umanitarismo sul web, mostrandosi con i bambini, con la pipa e recentemente si era fatto crescere anche una barbetta che faceva tanto tardo-comunista", come scritto sul web dal suo amico Tommaso Ederoclite, ci sia concessa anche una riflessione. La nostra assenza è quella di una politica incapace di risolvere i conflitti, quella di una società incapace persino di ammettere e riconoscere le ingiustizie, le brutture, gli errori, è quella di una coscienza che non accetta che questo davvero non è "il migliore dei mondi possibili". La nostra ingiustificabile assenza è la mano che arma i fabbricanti di odio, la luce che ignora il dramma degli ultimi, il "pensiero" che ha rinunciato ai cambiamenti radicali, alle svolte e che ha solo un lontano ricordo di parole come "sogno" e, appunto, "Utopia". Di questo siamo tutti colpevoli, nessuno scluso: Che la terra ti sia lieve, Utopia.