Un nuovo Steve Jobs che innovi le manifestazioni di piazza
Teste contuse, gambe rotte, occhi gonfi per i lacrimogeni. Decine di ore di tg e servizi giornalistici dedicate alla violenza della manifestazione degli indignati.
“Peccato” ha detto Mario Draghi – Direttore della Banca Centrale Europea e per anni Vice President della banca d’affari Goldman Sachs – commentando il mancato successo della manifestazione.
“I soliti” avranno pensato quanti distrattamente snobbano le manifestazioni di piazza ritenendole inutili.
“Ho perso anche stavolta” avranno detto tra sé le migliaia di persone accorse a Roma per raccontare il proprio disagio; l’occasione di Roma poteva essere un modo per condividere la propria storia di sofferenza quotidiana di disagio lavorativo, di precariato di grida soffocate con altre decine di migliaia di persone. Poteva essere un momento per mettere in comune esperienze e solitudini. Invece, in migliaia sono tornati a casa senza poter dire una parola.
Personalmente diffido delle manifestazioni di Piazza. L’ho sempre fatto. Non mi piacciono quelle dei ragazzi che con bongo, trucchi e carri colorati raccontano l’indignazione di un giorno, nella certezza che domani faranno altro.
Non mi piacciono i cortei colorati dalle bandiere politiche che si concludono davanti a palchi da cui i leader raccolgono applausi certi.
Non mi piacciono quelli degli operai che per difendere il lavoro sono convinti di poter difendere i propri diritti sfilando per città indifferenti, basandosi sul fatto che hanno diritti in quanto persone.
“Scendere in piazza” è un cliché, un modo di dire che trasversalmente taglia la destra e la sinistra. Riempire le piazze di gente, intasare di persone viali e strade e città intere è un esercizio che trovo – come molti altri – anacronistico. Nell’800 e nella prima parte del ‘900 scendere in piazza significava mostrare i muscoli e far vedere ai governanti di turno la propria capacità di mobilitare le masse e, potenzialmente, di influenzare il corso della storia. In quegli anni i militari sparavano sulla folla con i cannoni e l’occupazione della piazza non era accettata da parte dei governi. Scendere in piazza in quegli anni significava “esisto e sono pronto a battermi per le mie idee”.
Oggi basta un fax in Prefettura per poter sfilare per le strade. Ma a cosa serve? È possibile che oggi, la manifestazione di un dissenso collettivo debba passare sempre e solo per un corteo che attraversa le strade? Non è forse per cercare maggiore efficacia nella propria protesta che nascono violenze come quelle di sabato scorso, quasi per dimostrare che la Piazza ha ancora un pericolo in sé?
Non mi convince. Non può essere. La misura di un disagio urlato non può passar per il numero di teste che partecipa ad una manifestazione o il numero di sportelli bancomat divelti.
A Madrid gli indignados bivaccano da mesi a Porta del Sol, a New York Occupancy Wall Street riempie i giardinetti di Zuccotti Park. Da noi si fanno cortei in stile 800 con comizio di chissàchì nella piazza di chiusura e slogan urlati con più attenzione al tono della voce che al contenuto. Mi convince poco Porta del Sol, mi convince poco Zuccotti Park, ma meno che mai mi convince Piazza S. Giovanni a Roma.
Come manifestare democraticamente, in modo efficace il proprio dissenso, allora? La soluzione non verrà dall’alto. Non saranno i partiti che eleggono a porte chiuse i propri rappresentanti a spingere per far emergere il dissenso, né saranno i sindacati che firmano con la Confindustria patti utili a garantirsi nel proprio ruolo a trovare alternative alle manifestazioni di piazza. Ancora una volta, forse, potrà essere la rete a trovare la soluzione: Wikipedia Italia la scorsa settimana ha iniziato la sua protesta.
È urgente per la nostra democrazia individuare un nuovo modo di protestare. Nell'era in cui ciascuno può condividere in rete la propria opinione con sconosciuti mediante social network e blog, la manifestazione di piazza è totalmente anacronistica. Abbiamo bisogno di un nuovo Steve Jobs che con genialità ed innovazione affermi un modello tecnologico e democratico capace di assicurarci la manifestazione del dissenso o del consenso collettivo. Fatevi avanti, la strada è aperta!
Sul tema dell'anacronismo delle grandi manifestazioni nazionali vi segnalo l'articolo di Giovanni Boccia Artieri docente di nuovi media alla facoltà di Sociologia di Urbino e quello del collettivo Wu Ming sulla manifestazione del 15 ottobre.