Un anno di guerra in Ucraina, cos’è successo e i piani di pace: l’analisi del generale Chiapperini
Esattamente un anno fa, il 24 febbraio del 2022, la Russia di Putin invadeva l’Ucraina di Zelensky. Il presidente russo annunciava a sorpresa un'"operazione militare" in Ucraina per difendere i separatisti nell'est del Paese. Nel giro di pochi minuti cominciava la pioggia di missili su Kiev e altre città ucraine. Non sarà una operazione lampo, dato che a un anno di distanza la guerra è ancora in corso.
Di cosa è successo nel primo anno di guerra e cosa accadrà nei prossimi mesi ne abbiamo parlato con il Generale di Corpo d’armata dei lagunari Luigi Chiapperini, già pianificatore nel comando Kosovo Force della NATO, comandante dei contingenti nazionali NATO in Kosovo nel 2001 e ONU in Libano nel 2006 e del contingente multinazionale NATO su base Brigata Garibaldi in Afghanistan tra il 2012 e il 2013, attualmente membro del Centro Studi dell’Esercito e autore del libro Il Conflitto in Ucraina.
Generale, un anno fa le truppe russe invadevano l’Ucraina. Cosa possiamo dire a un anno esatto dall’inizio della cosiddetta “operazione speciale militare” di Putin?
Davanti alle immagini dei bombardamenti e delle colonne di carri armati che penetravano in territorio ucraino, sono stati in molti a dover ammettere di non aver predetto una cosa del genere in piena Europa orientale.
C’erano state delle avvisaglie, come in tante altre occasioni che peraltro non erano mai sfociate in un confronto armato: dichiarazioni bellicose da parte del presidente russo Vladimir Putin, imponenti esercitazioni militari ai confini con la Russia e la Bielorussia, movimenti di truppe all’interno della regione del Donbass, avvertimenti del presidente statunitense Biden. Pochissimi credevano a un attacco a tutta l’Ucraina e invece Putin non si è limitato alle regioni indipendentistiche.
Quali sarebbero state le ragioni dell’attacco russo?
La situazione, non solo militare, è molto fluida, muta di continuo, e anche per questo diventa difficile motivare l’attacco russo all’Ucraina dalle nostre comode case e basandosi solo sulle dichiarazioni dei leader e sulle scarse e confuse notizie che rimbalzano sui media.
Il presidente Putin un anno fa ha spiegato le ragioni dell’attacco: "smilitarizzare e denazificare" l’Ucraina. Ma c’è da chiedersi se queste sono giustificazioni o vere e proprie motivazioni. Probabilmente le vere motivazioni vanno ricercate nella volontà di far cadere un regime a lui ostile e riprendersi territori oggi appartenenti a una nazione che in passato era parte integrante e importante dell’URSS, e che secondo il suo punto di vista negli ultimi anni si è “proditoriamente avvicinato a Unione Europea, USA e NATO, cosa inaccettabile per la sicurezza della Russia”.
Recentemente questo suo punto di vista lo ha chiaramente esposto ufficialmente.
Quando il 22 febbraio ha iniziato a inviare colonne di mezzi militari nel Donbass per rinforzare il dispositivo delle locali milizie in contrapposizione all’esercito ucraino, molti ritenevano che fosse proprio l’incursione limitata di cui aveva parlato pochi giorni prima il presidente USA Biden e che aveva lasciato interdetti un po’ tutti, compreso il presidente ucraino. Alla fine però l’attacco generalizzato effettivamente c’è stato.
Per la NATO e l’Unione Europea si è trattato di una vera e propria invasione, dell’inizio di un conflitto armato di vasta portata, mentre per il Cremlino continua a essere venduta come un’azione necessaria per difendere i russi del Donbass dalla pulizia etnica da parte dei nazionalisti ucraini tanto che è stata denominata appunto "Operazione militare speciale". Ultimamente il leader russo si è sbilanciato parlando di azioni volte a riprendere il controllo di aree storicamente russe.
Alcuni paragonano l’attacco russo a quello NATO alla Serbia.
Putin avrebbe potuto rinfacciare alla NATO e più in generale alla comunità internazionale quanto avvenuto in Kosovo. Lì era stata posta in atto una pulizia etnica a danno della popolazione kosovara di etnia albanese e in quell’occasione la provincia serba fu occupata dalle forze della NATO con contestuale ritiro di quelle serbe.
La Russia potrebbe essersi mossa sullo stesso schema con due grandi differenze: non è provato il genocidio nel Donbass (il numero di vittime filo-russe è circa equivalente a quello degli ucraini) e non ha ottenuto una risoluzione a lei favorevole da parte del Consiglio di Sicurezza dell’ONU (come invece avvenne per il Kosovo, cioè la n. 1244/99 del 10 giugno 1999).
In effetti, quella del Kosovo è un’altra storia, come dimostra l’adozione della citata risoluzione ONU con quattordici voti favorevoli, compreso quello della stessa Federazione Russa, e un’astensione (quella della Cina). Pertanto nel caso dell’Ucraina, Putin ha arrischiato una mossa molto più violenta e dalle conseguenze molto più tragiche: una invasione generalizzata dagli esiti incerti e senza copertura giuridica.
Chi ha deciso in quale maniera attaccare l’Ucraina: i generali o il vertice politico?
Una forza militare attaccante dovrebbe essere circa tre volte quella in difesa, pertanto verrebbe da dire che i russi abbiano attaccato con forze non sufficienti o che comunque ritenevano adeguate a una breve campagna militare, sufficiente al raggiungimento dei propri scopi.
Ma non è così semplice, e va fatta un’ulteriore considerazione: la Russia aveva moltiplicatori di forza decisivi, come le forze aeree e quelle missilistiche superiori, oltre ad aver scelto di attaccare l’Ucraina da più direzioni quando pochi ci credevano davvero. Insomma, superiorità qualitativa ed effetto sorpresa hanno giocato a favore dei russi, ma solo nelle fasi iniziali.
Dopo i successi iniziali, la progressione russa è apparsa ai più alquanto deludente. Anche qui possono essere fatte alcune considerazioni. La prima è relativa alla dottrina su cui si basa l’esercito russo che, come ribadito, è essenzialmente quella dell’ex Patto di Varsavia ancorché aggiornata sulla base dei nuovi sistemi d’arma disponibili.
Detta dottrina prevedeva, tra l’altro, una penetrazione di alcuni km al giorno nel caso di nemico fortemente organizzato in difesa e di circa 30-70 km al giorno in caso di nemico scarsamente organizzato. In alcuni casi, come nello sforzo offensivo dalla Crimea verso nord o nel raggiungere la periferia della capitale Kiev, questi obiettivi sono stati raggiunti con circa 200 km coperti in sei giorni, mentre in altre aree le distanze sono state minori, tra i 10 e i 100 km, con obiettivi raggiunti nei tempi previsti ma di fronte ai quali poi, di fatto, l’avanzata si è bloccata.
A quel punto si rendeva necessario l’avvicendamento dei reparti in primo scaglione, di certo provati dai duri combattimenti, con le unità inizialmente in seconda schiera. Ma la fronte di attacco era troppo ampia e le unità non sono sembrate sufficienti e reiterare lo sforzo offensivo in profondità.
Le forze a contatto con gli ucraini non potevano essere sostituite per il semplice fatto che non c’erano altre forze dietro di loro. I secondi scaglioni e le seconde schiere erano in pratica molto scarsi, quindi non c’erano forze sufficienti a muovere il fronte ulteriormente in avanti.
Un errore di pianificazione dei generali?
Poco probabile. Molto più verosimile il fatto che la decisione sia stata presa dal vertice politico il cui obiettivo primario era il “regime change”. Ma governo e forze armate ucraini non sono andati in panico reagendo con efficacia e rimanendo al loro posto. Da qui la decisione russa, dopo circa un mese, di ritirare le forze da nord per concentrare gli sforzi nel Donbass dove in effetti qualche risultato è stato ottenuto, in primis la conquista di Mariupol e il consolidamento delle posizioni acquisite che consentivano così di disporre di un corridoio terrestre che dalla Russia, via Donbass, raggiungeva la Crimea già annessa nel 2014.
Poi, inaspettatamente, gli ucraini sono passati alla controffensiva riconquistando parte dei territori occupati dai russi nella prima fase delle operazioni. Ciò anche grazie agli aiuti occidentali tra i quali un efficace supporto informativo (che probabilmente continua) oltre a mezzi da combattimento, artiglieria terrestre e missilistica, come i micidiali Himars, e armi controcarro e contraeree di ultima generazione.
Detta controffensiva però non poteva continuare con successo senza due componenti fondamentali: i carri armati e gli aerei. È per questo che il presidente ucraino Zelensky continua imperterrito a richiederli ai paesi occidentali che recentemente hanno concesso qualche apertura al riguardo.
Nel contempo Putin ha schierato sul terreno i circa trecentomila riservisti mobilitati a settembre 2022 per esercitare una nuova spallata contro le forze armate ucraine esauste ma ancora efficienti. Cosa accadrà nei prossimi mesi dipenderà molto da quali ulteriori aiuti riceverà l’Ucraina. Il 20 febbraio ultimo scorso il presidente statunitense Biden ha incontrato a Kiev Zelensky, marcando con la sua inaspettata presenza nella capitale ucraina la volontà occidentale e in particolare degli USA di voler andare fino in fondo nell’aiutare l’Ucraina.
Molti leader mondiali, tra i quali la nostra Meloni che è stata a Kiev il 21 febbraio, hanno promesso a Zelensky ulteriori aiuti paventando la possibilità di fornire anche carri armati e aerei. Tempi di consegna e quantità dei sistemi d’arma, oltre alla necessaria familiarizzazione con gli stessi e alla definizione della necessaria complessa organizzazione logistica, detteranno l’esito degli scontri dei prossimi mesi che rimane molto incerto e dalla durata imprevedibile.
In queste ore si parla di colloqui a Ginevra per una soluzione della guerra "nella più alta discrezione”. Il ministro degli Esteri svizzero Ignazio Cassis ha detto che “costruire la pace è un affare complicato che necessita molta diplomazia”. Cosa ne pensa?
I colloqui tra Russia e Ucraina che si stanno svolgendo a Ginevra sono un’ottima notizia. In questi giorni circolano informazioni su una bozza di risoluzione che sarà discussa all’ONU che prevede, in sintesi, il ritiro completo delle forze russe e il ripristino dei confini internazionali risalenti a prima delle vicende del 2014 e, più recentemente, dell’invasione armata da parte della Federazione Russa.
Quasi contestualmente, la Cina si è attivata per avanzare una propria proposta la cui bozza, da indiscrezioni, sembrerebbe andare incontro agli obiettivi strategici della Russia e cioè il riconoscimento dell’annessione alla stessa, avvenuta unilateralmente a settembre 2022, delle quattro Regioni del sud dell’Ucraina (Donetsk, Lugansk, Kherson, Zaporizhzhya), più naturalmente la Crimea.
Molto verosimilmente il Dragone non mancherà anche di richiamare la necessità di una piena neutralità dell’Ucraina. Le due proposte sono in antitesi tra loro ed entrambe, almeno nella situazione attuale, con possibilità nulle o molto scarse di essere accolte favorevolmente dai due contendenti.
Per uscire da questa impasse, si dovranno percorrere strade alternative e tortuose partendo da un cessate il fuoco e con le unità militari presenti nei territori contestati che dovrebbero ritirarsi dietro una delle seguenti tre linee possibili: i confini internazionalmente riconosciuti, dietro la linea di contatto del momento o, come terza e ultima ipotesi, dietro la linea del 23 febbraio 2022, cioè quella esistente prima dello scoppio del conflitto.
Negli ultimi due casi, i due schieramenti si dovrebbero ritirare ognuno di circa 35 chilometri allo scopo di realizzare una zona cuscinetto sufficiente a porre i contendenti fuori dalla gittata della maggior parte delle artiglierie tradizionali e più comuni dell’avversario. In quell’area dovrebbe essere schierata inizialmente una forza di interposizione di caschi blu pesantemente armati, per intenderci ancor più delle forze di UNIFIL impiegate dal 2006 nel sud del Libano.
Il comando della missione ONU e la composizione della forza di interposizione dovrebbero far capo a nazioni il meno possibile geopoliticamente “schierate” con l’una o l’altra parte. Si potrebbe al riguardo pensare a quei 35 Paesi che il 2 marzo 2022 si sono astenuti in occasione del voto di condanna dell’aggressione russa all’Ucraina dimostrando una certa equidistanza dai due contendenti.
Tra queste, ci sono nazioni in grado di schierare peacekeepers con adeguata capacità di deterrenza come l’India, il Pakistan, il Sudafrica ed altre minori che non intrattengono relazioni strette con nessuno dei due avversari.
Tra un anno secondo lei parleremo ancora di una guerra in Ucraina?
Non è dato prevedere quando terminerà il conflitto, che sta assumendo sempre più connotazioni ibride, dove tutto è permesso senza esclusione di colpi: impiego massiccio di reparti corazzati e droni suicidi, minacce di uso di armi nucleari, disinformazione e destabilizzazione, fake news e azioni offensive nel campo cyber, iniziative diplomatiche e sanzioni economiche, tutte mosse attuate dall’una e dall’altra parte e che non sono circoscritte al territorio ucraino.
I prodromi di una guerra terrestre di logoramento si sono visti già a marzo 2022, quando i russi non sono riusciti a sfondare verso Kiev, e ancora oggi, con le difficoltà incontrate anche nel sud dell’Ucraina. L’Ucraina ha dimostrato di essere un grande Paese, con Forze Armate motivate che si suppone continueranno a difendersi caparbiamente, finché ne avranno la possibilità.
I russi, seppur con difficoltà che molti non prevedevano, hanno ottenuto conquiste territoriali che li ha posti, almeno fino ad ora, in una situazione di relativo vantaggio per futuri tavoli delle trattative.
Dopo un anno dall’inizio della guerra, continuano ad occupare quasi un quarto di quella che era l’Ucraina prima del 2014, compresi Crimea e parte di quattro regioni del sud. Si tratta di territori pari a circa la metà della penisola italiana.
Insomma, la Russia non sta stravincendo come sperava e molti temevano ma può ancora raggiungere alcuni degli obiettivi prefissati. L’altro lato della medaglia è che ha dimostrato di non essere proprio una invincibile potenza militare e si è inimicate quasi tutte le altre nazioni del mondo.
Mettere mano a un piano che porti alla cessazione delle ostilità risulta quanto mai opportuno. La soluzione politica, secondo il mio parere, ha come centro di gravità la Crimea. Teniamo però conto del fatto che sarà difficile che i due contendenti cedano: uno combatte per il prestigio e il potere, l’altro per la sopravvivenza.