Ucraina, il giorno dell’invasione raccontato dall’ex consigliere di Putin: “Non era più in contatto con la realtà”

La prima ondata di bombardamenti centrò le “krushchevka” di una strada a Chuhuiv, nella regione di Kharkiv. Edifici residenziali prefabbricati a schiera, divisi da spazi alberati. Fatti costruire da Nikita Krushchev nei primi anni ’60 come alternativa agli appartamenti collettivi — le odiate “kommunalka” —, fanno parte del paesaggio urbano ovunque, nell’ex Unione Sovietica. Ucraina compresa. Nelle immagini che cominciarono ad arrivarci quella mattina del 24 febbraio 2022 sui telefonini, le “krushchevka” di Chuhuiv erano sventrate, annerite dalle esplosioni o in fiamme. Ma per il resto identiche in tutto a quelle che potevamo vedere dalla finestra del nostro ufficio al decimo piano di un palazzone di Mosca. Era come se i russi stessero bombardando se stessi.
La finta diretta di Putin
Da quella finestra, la sera prima avevamo guardato con i colleghi i fuochi d’artificio sopra il Cremlino per il “Giorno dei difensori della Patria”, la festa dell'esercito, della marina e delle forze spaziali. Slogan ufficiale: “Sempre pronti a difendere l’integrità territoriale della Russia”. La notte era stata breve. I ping degli alert sul Mac e sui telefonini avevano suonato quando era ancora buio. Alle cinque e mezzo, Vladimir Putin aveva annunciato “l’operazione militare speciale”. Mentre i “difensori dell’integrità territoriale della patria” iniziavano l’invasione, il presidente ripeteva le sue tirate sul genocidio contro i russofoni, sulla necessaria "smilitarizzazione e denazificazione dell’Ucraina” e sulla “minaccia esistenziale” posta alla Russia dall’Occidente. Addirittura, spiegava che i suoi piani “non prevedevano l’occupazione di territorio ucraino” e che Mosca non avrebbe “imposto niente a nessuno con la forza”. Era vestito esattamente come quattro giorni prima, quando aveva proclamato in tivù che l’Ucraina non era un vero Stato. Il discorso alla nazione in realtà era stato registrato all’inizio della settimana. Ciò che era avvenuto poi era stata una commedia. Era tutto deciso da tempo. Un nostro articolo già pronto finì nel cestino del computer. Conteneva l’intervista ormai inutile a un consigliere diplomatico del Cremlino che prospettava la possibilità di una soluzione politica della crisi.
Shock diplomatico
“L’intervista a questo punto è da buttare. Possiamo rifarla?”. Pyotr Kirillovich (nome preso a prestito da Tolstoy: quello vero non lo ripetiamo, per ragioni di sicurezza e diffidenza verso gli algoritmi) risponde di sì. Ma non per telefono, stavolta. Vuole che andiamo da lui. Metropolitana Park Kultury, che poi è il Gorky Park del romanzo di Martin Cruz Smith. Camminiamo lungo il fiume, nella zona più romantica di Mosca. Gli uffici dell’istituzione guidata da Pyotr però sono in un edificio anonimo, squadrato, architettonicamente brutale. Romantica era semmai la sede di un tempo, un palazzo anni ’40 di fronte a Bolotnaya ploshchad. Siamo attesi. Nemmeno ci chiedono il documento alla portineria. Cosa parecchio strana, a Mosca. Ancor più in quel giorno. Una donna in tailleur ci accompagna su in ascensore. Ci chiede di aspettare al front desk. Indica le poltrone ma restiamo in piedi. Due minuti dopo, Pyotr è con noi. Niente giacca e cravatta come sempre in passato: chinos e girocollo scuro. È dimagrito e ha i capelli arruffati. Ci fa strada nella sala riunioni, chiude la porta. Ci sediamo all’angolo di un grande tavolo dove si è lavorato fino a poco fa, a giudicare dalle bottigliette d’acqua mezze vuote.
Fuori dalla realtà
Il presidente “non è più in contatto con la realtà”, sono le prime parole che ci dice. La decisione di invadere l’Ucraina era “inconcepibile”, aggiunge. “Sono sotto shock, triste e imbarazzato per quel che sta succedendo”. Abituati a sentirlo difendere la politica estera russa e spiegarne la razionalità, restiamo sorpresi. “La decisione del Cremlino non ha fondamento logico: le implicazioni negative per la Russia e i danni collaterali sono molto chiari, e quelle positive non sono chiare per niente. La mia analisi costi/benefici concludeva che una mossa del genere fosse impossibile, inconcepibile. Evidentemente, la mia logica è diversa da quella di chi ha deciso di avviare la ‘operazione militare speciale’”. Neanche Pyotr Kirillovich, che pure di coraggio ne ha da vendere e ce lo sta dimostrando, osa chiamarla invasione o guerra.
Porta aperta
Pyotr per mestiere studiava e stilava raccomandazioni per l’amministrazione presidenziale. Era il capo di un gruppo di esperti diretta espressione del ministero degli Esteri. Prima che lasciasse l’incarico (“una scelta morale”, dovuta al disaccordo con la politica del suo Paese che “ha rifiutato la diplomazia”, spiegò a Fanpage.it) abbiamo parlato spesso con lui. On the record e non. Ci ha rivelato come nelle settimane che precedettero l’invasione avesse preparato con i suoi collaboratori “la documentazione per avviare un processo negoziale”. Perché l’Occidente “aveva lasciato una porta aperta”, e la via diplomatica era “perfettamente percorribile”. Fu il Cremlino a rifiutarla. I decisori “nemmeno considerarono" le raccomandazioni dei loro consiglieri più esperti. Perché la guerra, al Cremlino, l’avevano già decisa.
Una base per trattare
“Le risposte di Nato e Stati Uniti alle richieste russe del dicembre 2021 non furono un semplice ‘no’ e lasciavano aperti margini di trattativa”, secondo l’alto funzionario moscovita. L’ultimatum lanciato da Mosca in dicembre pretendeva un viaggio a ritroso nel tempo fino al 1991, con il ritiro della Nato dietro quella che fu la cortina di ferro: impossibile da accettare e tecnicamente impraticabile. Ma Putin voleva anche un accordo sulla sicurezza e l’esclusione perpetua dell’Ucraina dall’alleanza atlantica. E su questi due punti “le controproposte arrivate dall’Occidente contenevano idee che potevano costituire la base per trattare”, riteneva il nostro interlocutore. Tra queste, “una moratoria sui missili a gittata intermedia in Europa e un nuovo sistema di controllo sugli armamenti convenzionali nel continente, con un trattato Cfe 2 che rinnovasse quello decaduto in seguito al ritiro unilaterale della Russia nel 2015”.
Neutralità possibile
Inoltre, “nei documenti inviatici da Usa e Nato si parlava di misure volte a rafforzare la fiducia, sulle quali lavorammo e consigliammo il nostro governo di dialogare”. Soprattutto, “sembrava a portata di mano una moratoria implicita o esplicita all’espansione a Est della Nato”. Su questo punto, pur non escludendo la futura integrazione di Ucraina e Georgia nell’alleanza, si delegava ogni eventuale sviluppo al Consiglio Nato-Russia (Nrc). Creato al summit di Roma nel 2002 su basi paritarie, utilizzato sempre meno dopo l’annessione della Crimea e l’intervento russo nel Donbass, l’Nrc era comunque ancora attivo. Si riunì anche nel gennaio 2022. Poteva esser rilanciato. “Abbiamo provato a convincere il Cremlino. Non ci hanno voluto ascoltare. Delle nostre analisi e raccomandazioni non ne hanno neanche discusso”. L‘alto funzionario non era solo sconsolato. Era proprio depresso. Al contrario dell’ultimatum di dicembre del Cremlino, le controproposte di Nato e Usa non erano state rese pubbliche. Il quotidiano spagnolo El Pais però ne aveva pubblicato ampi stralci. Difficile capire perché se ne sia sempre parlato così poco.
Canali aperti
Per tutto il primo anno di guerra, Pyotr ha tenuto aperti canali che potessero facilitare soluzioni diplomatiche. Lavorando, in un pericoloso tandem a distanza, con l’ex ministro degli Esteri ucraino Oleksandr Chali, “sulle modalità di un cessate il fuoco, sullo status dell’Ucraina e sulle relative garanzie di sicurezza”. Chali il 29 marzo 2022, a margine dell’incontro negoziale di Istanbul, affermò che le garanzie di sicurezza erano un format possibile per porre fine alla guerra. In pratica, Kiev avrebbe potuto garantire una neutralità permanente e denuclearizzata, al di fuori della Nato, in cambio di un meccanismo che avrebbe consentito di chiedere assistenza militare a un garante in caso di aggressione. “È quello che proponevamo anche noi come assistenti e consulenti del Cremlino in quel negoziato. Il tavolo di Istanbul fu l’ultima vera occasione per arrivare a una soluzione politica. Ma le nostre idee non trovarono mercato”. Troppa rigidità, da entrambi i lati. In particolare, la Russia non ha mai voluto rinunciare alle clausole che le avrebbero permesso di interferire nella politica ucraina nel dopo-guerra, e che Kiev considerava inaccettabili.
Come i cosacchi di Repin
Chuhuiv, le cui “krushchevka” furono colpite, come molti altri obiettivi civili, nel primo giorno dell’invasione, è la città natale del maggior pittore russo della seconda metà del XIX secolo: Ilya Repin. Un motivo per dar credito alle teorie di Putin sulla “unità storica di russi e ucraini”? Non proprio. Repin credette sempre negli ideali di libertà, eguaglianza e fratellanza tipici del repubblicanesimo cosacco alla radice dell’identità ucraina. Uno dei suo quadri più celebri, “La risposta dei cosacchi zaporozhiani” è un compiaciuto inno all’entità statale costituita tra il 1649 e il 1764 sulle rive del fiume Dnepr, incentrata sul “baluardo di Zaporizhzia” contro le incursioni turche, e sui guerrieri che lo difendevano. Per gli appassionati del genere, qualcosa di simile alla Barriera presidiata dai Guardiani della Notte nel fantasy “Il trono di spade”. L’Atamato di Zaporizhzhia però fu reale. Ebbe vari gradi di indipendenza e periodi di sottomissione a Mosca. La sua ultima rivolta finì male. Ma la sua storia testimonia che l’unità russo-ucraina con origini nella Rus’ di Kiev è solo un mito. Inventato e messo su carta nel 1670 dal monaco tedesco Innokenty Gizel in funzione anti-polacca, per la cronaca. Il mito ha sempre fatto così comodo al Cremlino da rimanere oggi la versione ufficiale. Ma in questi tre anni gli ucraini hanno dimostrato di essere fatti della stoffa dei cosacchi nel quadro di Repin, che a un ordine di sottomissione rispondono con una lettera facendo a gara tra di loro per chi scrive le peggiori e più divertite volgarità. Comunque vada a finire, gli ucraini non saranno mai russi.