La decisione di Donald Trump, presidente eletto statunitense, di nominare quale prossimo Segretario al Tesoro, Steven Mnuchin, ex responsabile del dipartimento tecnologico di Goldman Sachs (banca d’affari per la quale aveva già lavorato suo padre, cosa che fa Mnuchin un “figlio d’arte”) e Wilbur Ross, investitore miliardario e a sua volta ex banchiere d’affari americano specializzato in acquisizioni a leva (leveraged buyout), investimenti in debiti “distressed” e ristrutturazioni di aziende di settori come l’acciaio, il carbone e il tessile, come nuovo Segretario al Commercio ha stupito molti osservatori, apparendo in decisa contraddizione con l’immagine di “vendicatore della classe media” che “the Donald” aveva saputo ritagliarsi in campagna elettorale, non esistando a scagliarsi, a parole, contro le grandi corporation e gli uomini di Wall Street.
Ma a parte che, come già alcuni analisti come Alessandro Fugnoli (Kairos Partner) avevano indicato, Trump è un imprenditore “sceso in campo” senza precedenti esperienze e legami politici, è una sorta di “padre primordiale”, cresciuto dai lupi, privo di limiti e regole che hanno sempre contraddistinto l’operato dei suoi predecessori, quella di nominare ai vertici dell’amministrazione federale esponenti del mondo industriale e finanziario è, negli Usa, una vera e propria tradizione “bipartisan”, con Goldman Sachs che è stata tra i “serbatoi” più utilizzati (ma non certo l’unico) per riempire la casella più delicata, quella di Segretario al Tesoro.
Tra i predecessori di Mnuchin vi sono stati, solo per limitarci agli ultimi decenni, Robert Rubin (nominato ad Bill Clinton) a Henry Paulson (con George W. Bush). Legati alla grande finanza furono poi anche Mark Patterson, che prima di diventare capo staff di Timothy Geithner (nominato da Barack Obama), ex presidente della Fed di New York e successore di Paulson, era stato dal 2005 al 2008 lobbista registrato per Goldman Sachs. In compenso il predecessore di Paulson, John Snow, venne nominato presidente del colosso mondiale del private equity, Cerberus Capital Management, pochi mesi dopo aver lasciato il suo incarico per il governo.
Una dimostrazione che le “porte girevoli” come le chiamano gli americani funzionano in entrambi i sensi, anche se non sempre con successo: Rubin, che di Goldman Sachs era stato co-presidente dal 1990 al 1992 prima di andare a dirigere il Tesoro, terminata la sua esperienza pubblica tornò nel settore bancario, stavolta come alto dirigente di Citigroup, ma l’esperienza non fu felice: dopo essere stato anche, tra il novembre e il dicembre 2007, presidente dell’istituto fu esonerato nel 2009 per le deludenti performance ottenute.
Legatissimo a Wall Street era pure Nicholas Brady (nominato a capo del Tesoro da Reagan e confermato inizialmente da George Bush senior), inventore dei bond che portarono il suo nome e contribuirono a risolvere la crisi del debito emergente di fine anni Ottanta del secolo scorso, chiamato al governo dopo 34 anni di esperienza come banchiere d’affari e gestore, tra l’altro per il colosso Franklin Templeton Investment Funds.
Così come Donald Regan, che dopo una carriera durata dal 1946 al 1980 in Merryll Lynch (di cui fu anche president e amministratore delegato agli inizi degli anni Settanta) venne chiamato da Ronald Reagan dal 1981 al 1985 al Tesoro per poi rimanere a capo dello staff della Casa Bianca altri due anni. Il tempo necessario per modellare la “reaganomics” a cui “the Donald” sembra volersi ispirare neppure troppo lontanamente.
Per questo motivo, tutto si può essere meno che sorpresi delle nomine del presidente eletto. Quello che ancora sorprende, semmai, è il successo da lui ottenuto proprio dagli americani di classe media e medio-bassa, quelli che nonostante le promesse avranno forse meno da guadagnare dalla sua nomina.