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Trump attacca Harris “gattara senza figli” e dimostra che non ha altri argomenti se non il sessismo

La candidatura di Kamala Harris alle elezioni presidenziali americane ha spinto Trump a utilizzare contro l’avversaria i più beceri insulti sessisti, rispolverando lo stereotipo della “gattara senza figli”. Ma queste aggressioni verbali da parte del tycoon denunciano la mancanza di altre armi da giocare in questa campagna verso il 5 novembre.
A cura di Jennifer Guerra
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La candidatura di Kamala Harris alle presidenziali degli Stati Uniti non è ancora stata ufficializzata, ma la macchina del fango di Trump e della destra americana è già stata oliata a sufficienza. In queste ore è tornata alla luce un’intervista che J. D. Vance, da poco nominato da Trump come suo vice, fece nel 2021, in cui sosteneva che il problema dell’America è di essere “governata da un gruppo di gattare senza figli che sono tristi per la loro vita e le scelte che hanno fatto e che per questo vogliono rendere triste anche il resto del Paese”. Tra le gattare, Vance nominava Kamala Harris.

Harris non ha mai avuto figli biologici, ma ha cresciuto i figli che il marito Doug Emhoff aveva avuto da una precedente relazione. Ma a parte questo, lo stereotipo sessista della “gattara senza figli” è forse uno dei più gettonati per insultare una donna in una posizione di potere o comunque indipendente (e, non a caso, viene usato anche contro Taylor Swift). Si tratta di uno stereotipo antichissimo, che ha origine durante la caccia alle streghe nel Seicento, nei cui resoconti compare spesso il gatto, animale che per lungo tempo è stato associato al diavolo. Il parallelo tra il comportamento libero ed erratico dei felini e quello delle donne libere, cioè “isteriche”, è sopravvissuta nel tempo e a metà Ottocento le suffragiste inglesi e americane, che lottarono per il diritto di voto, venivano spesso ritratte in compagnia di un gatto nelle vignette satiriche. La cultura popolare ci ha messo del suo: da Angela di The Office e la sua ossessione per i gatti, alla celeberrima gattara de I Simpson.

Il ricorso a un’immagine così banalmente denigratoria dimostra il livello della campagna sessista e razzista lanciata contro Harris subito dopo la notizia della sua sostituzione a Biden. Diversi deputati Repubblicani hanno definito Harris una “DEI hire”, ovvero una scelta fatta esclusivamente per mostrare “diversità e inclusione” e non per meriti effettivi. Un’influencer conservatore ha poi rilanciato la questione del luogo di nascita di Harris, come era già successo con Obama nel 2008: secondo la Costituzione americana, infatti, solo chi è nato sul suolo statunitense può diventare presidente. Peccato che Harris sia nata a Oakland, in California.

Ma l’accusa più oltraggiosa resta ancora quella di non aver avuto figli. Alla clip dell’intervista di Vance di tre anni fa si sono aggiunte uscite più recenti di repubblicani e conservatori che sostengono che chi non ha figli non può mettersi nei panni dell’americano medio e non può guidare il Paese. Quindi nemmeno George Washington, che non ebbe figli adottivi ma adottò quelli della moglie vedova, era in grado di governare?

I Repubblicani hanno tutto l’interesse di presentare se stessi come un partito “pro-family” e i Democratici come un partito con idee radicali e interessato solo alla presunta ideologia “woke”. Una candidata che non ha assolto la funzione di madre, l’unica concepibile per una donna secondo lo stesso J. D. Vance, sembra un’occasione imperdibile. Ma il gioco dei Repubblicani è pericoloso: proprio pochi giorni fa il Pew Research Center ha pubblicato una ricerca secondo gli americani sono sempre meno interessati a fare figli, al di là delle convinzioni politiche. Trump dal canto suo, nonostante la retorica familista e la certosina ma poco credibile costruzione di un’immagine da buon padre di famiglia, per le famiglie americane ha fatto ben poco. I Repubblicani si sono opposti fermamente all’introduzione da parte dell’amministrazione Biden di congedi parentali pagati. Harris, al contrario, si è assunta personalmente le battaglie di Biden a favore di famiglie e bambini, come l’aumento delle detrazioni fiscali per i figli.

Ma le azioni concrete contano poco quando c’è l’opportunità di attaccare una donna, scavando persino nelle sue relazioni passate. Harris è stata anche accusata di essere stata avvantaggiata nella sua carriera grazie a una storia con un uomo sposato, l’ex sindaco di San Francisco Willie Brown. Brown in realtà si stava separando dalla moglie quando ha cominciato a frequentare Harris, oltre venti anni fa. Anche questo è un altro grande classico della misoginia politica: attribuire a un uomo i successi lavorativi di una donna, alludendo non troppo implicitamente a presunti favori sessuali.

Harris aveva già dovuto affrontare tutto questo nel 2020, quando era stata nominata da Biden come vice. Fu subito soprannominata da Trump “Phony Camala” (Kamla la falsa), con tanto di errore voluto di pronuncia del nome, un nomignolo suggeritogli da Stacy Washington, attivista dei sostenitori neri trumpiani Black Voices for Trump e riemerso in queste ore. Anche la sua risata è stata oggetto di recriminazioni: durante un comizio la scorsa settimana, Trump si è concentrato su questo dettaglio: “L’avete vista ridere? È pazza. Si può dire molto da una risata. È fuori di testa”. Harris ha risposto lanciando l’hashtag #MALA, Make American Laugh Again, un chiaro rimando al #MAGA trumpiano.

Ma c’è poco da ridere. Una donna che appare sulla scena pubblica deve affrontare uno scrutinio maggiore rispetto a un uomo, ma soprattutto diverso. Ogni sua azione, pensiero, successo o fallimento verrà ricondotto al suo genere. Anche la campagna elettorale di Hillary Clinton nel 2016 fu costellata di attacchi sessisti e insulti, ma nel caso di Harris sembra che i repubblicani non abbiano nient’altro da dire se non ricorrere ai peggiori stereotipi razzisti e sessisti e a diffondere fake news su di lei.

Trump, intanto, si è sottratto a un dibattito pubblico con Harris che era già stato concordato. A quanto pare, la gattara senza figli “phony Kamala” comincia a far paura.

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Jennifer Guerra è nata nel 1995 in provincia di Brescia e oggi vive in provincia di Treviso. Giornalista professionista, i suoi scritti sono apparsi su L’Espresso, Sette, La Stampa e The Vision, dove ha lavorato come redattrice. Per questa testata ha curato anche il podcast a tema femminista AntiCorpi. Si interessa di tematiche di genere, femminismi e diritti LGBTQ+. Per Edizioni Tlon ha scritto Il corpo elettrico. Il desiderio nel femminismo che verrà (2020) e per Bompiani Il capitale amoroso. Manifesto per un Eros politico e rivoluzionario (2021). È una grande appassionata di Ernest Hemingway.
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