La manifestazione del 20 aprile – Nonostante Tahrir abbia un’identità ben precisa, costruita in oltre un anno di lotte contro il regime di Mubarak e i suoi eredi, la piazza costituisce allo stesso tempo un luogo sempre riscrivibile. È forse questa una delle sue caratteristiche più straordinarie: ogni manifestazione può caricarsi di significati diversi e servire molteplici scopi, alcuni più evidenti e altri più nascosti. Dal di fuori può apparire come una matassa omogenea di fili, che tuttavia se sbrogliati rimandano a interessi particolari e a strategie concorrenti. Sembra quasi avere un potere taumaturgico, politicamente parlando. Quando non si sa bene cosa fare, quando un attore politico è in crisi, scendere a Tahrir appare una scelta naturale. Il suo fascino deriva anche dal fatto che il significato di qualunque cosa vi avviene è sempre soggetto a una rinegoziazione, prima, durante e dopo la manifestazione. Del resto, Tahrir appartiene a tutto il nuovo Egitto ed è normale che qualunque raduno venga reinterpretato collettivamente da un numero ancora maggiore di persone.
Un esempio lampante è stata la manifestazione tenuta venerdì 20 aprile, quando Tahrir si è di nuovo riempita con l’obiettivo di raggiungere la “miliuniyya”: quel milione di persone grazie al quale straordinari cambiamenti politici possono accadere. E anche se il milione stavolta non è stato raggiunto, la piazza è apparsa comunque gremita, così come le vie e altri spazi nei dintorni. Soprattutto, per la prima volta da molto tempo, quasi tutto lo spettro dell’opposizione anti-regime vi era rappresentato: dagli onnipresenti giovani rivoluzionari ai Fratelli Musulmani, dagli ultras ai Salafiti, dal movimento 6 Aprile ai seguaci dei vari candidati presidenziali. Perfino vecchie sigle come quella di Kifaya, l’organizzazione ombrello protagonista delle lotte contro Mubarak nel lontano
2005, sono riapparse.
Il ritorno dei Fratelli Musulmani in Piazza – L’elemento più importante, è stato fatto notare, è che anche quelle forze che nelle elezioni parlamentari di novembre e dicembre hanno vinto a stragrande maggioranza sono tornate in strada. Gli Islamisti, Fratelli Musulmani e Salafiti, fino a qualche settimana fa si erano generalmente astenuti dalla piazza, preferendole strategie più legate
alle istituzioni tradizionali. A fine gennaio i Fratelli Musulmani si erano perfino scontrati con i manifestanti davanti al Parlamento, frapponendosi tra loro e i militari posti a guardia del Palazzo. In piazza ben sei palchi diversi si sono divisi le folle, anche troppi secondo alcuni. Gli islamisti erano i più visibili, mentre “quelli di sinistra” erano sparsi un po’ ovunque, e perciò meno riconoscibili. I salafiti hanno messo le tende davanti agli uffici del Mogamma, dove prima si accampavano i giovani rivoluzionari. Ovunque galleggiavano striscioni, cartelli, bandiere con un’unica richiesta: il ritiro dello SCAF, il Supremo Consiglio delle Forze Armate, dalla vita politica del paese.
Le reazioni alla manifestazione – I giorni seguenti, è cominciato l’inevitabile dibattito sul significato della ritrovata unità, o almeno presunta tale, e sulla possibilità di riformulare strategie comuni contro lo SCAF. Non solo stavolta la composizione della manifestazione appariva diversa, ma anche il contesto politico in cui è avvenuta si presenta con significative novità: i possibili candidati alle presidenziali continuano a cambiare, tra esclusioni e rimescolamenti di alleanze, e stanno cambiando anche le strategie generali degli attori coinvolti. Questi due elementi, composizione diversa della manifestazione e nuovo contesto politico, hanno reso le reazioni all’evento e le sue interpretazioni ancora più discordanti del solito. Da una parte chi ha sottolineato come il ritorno degli Islamisti in piazza sia da salutare solo come un elemento positivo. Finalmente, tutte le forze post – rivoluzionarie avrebbero superato le proprie divisioni per tornare a coalizzarsi contro i resti del vecchio regime. Lo scrittore Alaa al-Aswani ha scritto un articolo in cui, pur sottolineando tutti gli errori commessi fin qui dai Fratelli Musulmani, invita le altre forze rivoluzionarie a fare fronte comune con loro contro i militari.
I Fratelli musulmani durante la rivoluzione – Una riconciliazione delle opposizioni tuttavia non è semplice. I Fratelli Musulmani dopo la caduta di Mubarak avevano scelto una via “morbida” nei confronti dei vertici delle Forze Armate, con l’intenzione di attuare una transizione “controllata” e una delineata spartizione di poteri. Una scelta che aveva emarginato la piazza e che offriva principalmente due vantaggi per la Fratellanza: quello di evitare uno scontro aperto con l’esercito con conseguenze difficilmente prevedibili, e quello di rassicurare l’Occidente, sempre preoccupato dalla possibile creazione di uno Stato islamista e anti-israeliano. La piazza è stata boicottata fin dalla caduta di Mubarak, e i manifestanti, accusati di fare parte di un piano straniero
di destabilizzazione del paese, lasciati in balia della violenza delle forze di sicurezza. Se poteva apparire la scelta migliore sul breve periodo, questa strategia a lungo andare ha avuto per i Fratelli Musulmani un costo altissimo. Padroni di un Parlamento bloccato e privo di poteri, non sono riusciti a ottenere nulla. Non sono riusciti a far passare alcuna legge che arginasse i poteri dello SCAF, ma
soprattutto non sono stati capaci di affrontare nessuno dei problemi urgenti per i quali pure erano stati eletti: disoccupazione, redistribuzione della ricchezza, lotta alla corruzione, insicurezza sociale. Rinchiusi in Parlamento, lontani dalla piazza, era difficile continuare a parlare di “rinascita islamica” e giustizia sociale: troppi sono stati i compromessi per cercare di assicurarsi la propria fetta di potere. La caduta di popolarità è stata vertiginosa. Un sondaggio recente tenuto dal Al-Ahram Center for Political and Strategic Studies ha mostrato che il 45% di coloro che hanno votato per i fratelli musulmani al Parlamento non sarebbero intenzionati a rivotarli nelle Presidenziali di fine maggio.
Un divorzio non consensuale – È quindi il bilancio di un anno pieno di errori che ha riportato i Fratelli Musulmani in piazza. Accusati di essere stati usati dai generali come marionette, hanno finalmente voltato le spalle allo SCAF e cambiato strategia. Il primo segno è stato la decisione di appoggiare un candidato proveniente direttamente dalle fila dell’organizzazione. Tradendo non solo quanto dichiarato diverse volte, ovvero di non voler governare anche la Presidenza, ma anche il patto non ufficiale con i militari di appoggiare un uomo più gradito, come Amr Moussa per esempio. E ora la decisione di tornare a Tahrir, che non è solo un cambio di strategia ma anche un modo per ritrovare il feeling con la base, rimettendo a lucido i simboli e il linguaggio islamisti che erano sbiaditi nei corridoi istituzionali. In altre parole, se i Fratelli Musulmani hanno deciso di scendere in piazza, l’hanno fatto tardi e per i propri interessi, dicono coloro che le manifestazioni le hanno sempre appoggiate. E una riconciliazione con loro appare difficile salvo che, come propone Al-Aswani nel suo articolo, chiedano ufficialmente scusa per gli errori commessi e l’abbandono dei rivoluzionari.
Per i Salafiti vale un discorso analogo. Sono tornati in piazza contro lo SCAF. Almeno con questi numeri, solo dopo che al loro rappresentante, Hazem Abu Isma’il, è stata rifiutata la candidatura alle presidenziali in quanto sua madre sarebbe cittadina americana. E secondo la costituzione un candidato deve avere entrambi i genitori egiziani per correre alle presidenziali. Una sola piazza per ragioni differenti, che spesso non hanno a che fare con la rivoluzione. Gli unici che non possono essere accusati di incoerenza sono tutti quei gruppi che hanno basato sulle manifestazioni la loro strategia fin dall’inizio. Ma anche in questo caso le letture sono discordanti. Il problema resta capire
quale strada seguire adesso e come sfruttare questa nuova convergenza per elaborare una strategia comune. E non tutti sono convinti che scendere a Tahrir sia sempre la soluzione giusta. Il quotidiano di opposizione Al-Shourouq ha aperto il giorno dopo la manifestazione con un editoriale molto critico verso la piazza, sostenendo che le opposizioni, scegliendo la via dura, rischiano di comportarsi come “chi sceglie di fare a pezzi un vestito che si è appena finito di tessere”. In altre parole, prendere lo SCAF di petto potrebbe avere l’effetto indesiderato di consentirgli di rimandare ancora le elezioni presidenziali e il passaggio di poteri a un governo civile. Eppure, affidarsi unicamente ai processi istituzionali su cui lo SCAF ha ancora tanto potere è una scelta piena di insidie. In fondo, fino a ora, quando i generali hanno ceduto su qualcosa, l’hanno fatto sempre e soltanto su pressione della folla a Tahrir.