Strage nel Sahara, l’incubo di Patrick: “Ho seppellito bambini e bevuto la mia urina”
“Stavo andando in Libia con un gruppo di 82 persone stipate in tre veicoli. Ad un certo punto il nostro autista si è fermato in mezzo al deserto e si è allontanato. Doveva cambiare il pick up – ci ha assicurato – e poi sarebbe tornato. Da lontano abbiamo visto i militari che catturavano i conducenti e ci siamo nascosti per paura che prendessero anche noi. Il giorno dopo, c’è stato il primo decesso. Le persone svenivano e poi morivano. Ho visto due bimbi di 7 e 5 anni spirare davanti ai miei occhi. Poco dopo li ha seguiti la madre”. Patrick ha ancora impresse dentro di sé le drammatiche immagini del suo viaggio attraverso il deserto del Sahara. Era partito dalla Nigeria e, come decine di migliaia di migranti e profughi africani, anche lui è stato costretto a mettersi nelle mani dei trafficanti di uomini. Il suo obiettivo? Arrivare in Italia. Non ci è riuscito e per poco non ci ha rimesso la vita. “Alcuni hanno bevuto la loro urina, sperando di alleviare la sete – continua – ma questo li ha fatti ammalare. Hanno cominciato a tossire e a contorcersi dai dolori. Abbiamo seppellito nella sabbia 24 persone, tra cui un mio amico. Attorno alle loro tombe abbiamo lasciato delle pietre”.
Il Sahara, il cimitero invisibile dei migranti
La rotta che porta in Libia è molto pericolosa, e mortale. Quasi quanto la traversata del Mediterraneo. L'Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) ha diffuso i dati di quanti hanno perso la vita nel tentativo di raggiungere le coste libiche e da lì imbarcarsi verso l’Italia o Malta. Dal 2014 – fa sapere l’organizzazione delle Nazioni Unite – oltre 7.400 uomini, donne e bambini sono morti attraversando l'Africa. Il numero, tuttavia, potrebbe essere molto più alto. “Circa 25 migranti africani – sottolinea l’Oim – muoiono ogni settimana, anche prima di intraprendere la pericolosa via del mare verso l'Europa o la penisola arabica. Queste cifre non riescono a cogliere la vera dimensione della tragedia, in quanto rappresentano solo le vittime che sono state riportate”. Nel corso del 2019, sono già 268 le persone decedute nel nord Africa: oltre 600 se si considera l’interno continente. Per capirne la portata, basti considerare che, nei primi nove di quest’anno, nel Mediterraneo i morti sono stati 932. Ma dietro i freddi numeri di chi non ce l’ha fatta, ci sono le testimonianze dei sopravvissuti. E i loro racconti sono carichi di orrore. Come quello di Princess. “Io e mio marito abbiamo venduto tutto ciò che avevamo. Siamo partiti con 600 dollari in tasca. Volevamo dare un futuro e una vita migliore ai nostri quattro bambini. Durante il viaggio per la Libia, mio figlio di tre anni è morto. Il pick-up in cui ci hanno ammucchiato era molto piccolo e strapieno. C'erano circa 50 persone senza cibo o acqua. La gente moriva attorno a noi”.
Derubati, violentati e uccisi dai trafficanti
Di queste migliaia di morti quasi nessuno se ne occupa. Ma c’è chi cerca almeno di evitarle, informando migranti e profughi dei rischi che si nascondono dietro il loro viaggio. E’ il caso di Alarme Phone Sahara (Aps), un progetto di cooperazione tra associazioni, gruppi e individui nella regione del Sahel e in Europa. “A causa della difficoltà per ottenere i visti necessari a raggiungere l'Europa – afferma Aps – e nonostante i pericoli che minacciano la loro vita, molte persone decidono di attraversare le frontiere terrestri in modo irregolare”. Distanze che richiederebbero dai 2 ai 4 giorni (ad esempio da Agadez, principale snodo dei flussi migratori in Niger, al confine libico) finiscono per durare almeno una settimana. Tempo in cui i migranti sono nelle mani di trafficanti che, alla prima difficoltà, non esitano ad abbandonarli nel deserto. “C’è il rischio di imbattersi in una vera e propria mafia – avverte Alarme Phone Sahara – che si tratti intermediari, autisti o contrabbandieri il pericolo di essere violentati, derubati, uccisi o lasciati in mezzo al deserto è reale”.
“Dopo una settimana nel deserto [del Niger] – prosegue il racconto di Patrick – non riuscivo più a camminare, così ho detto al resto del gruppo di lasciarmi lì. Per altri tre giorni sono rimasto completamente solo. Svenivo continuamente e durante la notte, quando faceva meno caldo, mi trascinavo sulle ginocchia nella speranza di trovare dei soccorsi o, perlomeno, una strada”. “Quando i militari mi hanno incontrato ero tra un mucchio di cadaveri e hanno pensato che fossi morto anch'io. Un soldato ha visto la mia mano muoversi e mi ha versato un po’ d’acqua addosso. Ho aperto gli occhi per un secondo e poi ho perso conoscenza. Quando mi sono svegliato ero in un ospedale”.
L’Algeria deporta e abbandona i migranti nel deserto
Oltre al pericolo di essere derubati dei loro pochi averi, violentati o addirittura uccisi dagli stessi trafficanti, i migranti africani devono affrontare anche la possibilità di essere deportati e abbandonati nel deserto dalle forze di sicurezza nigeriane. Nel 2018, infatti, l’Algeria ha rimandato nel Sahara più di 13.000 persone entrate illegalmente nel Paese, tra cui donne incinte e bambini. “I migranti – ha scritto Giuseppe Loprete, capo missione della Iom in Niger – una volta buttati giù dai camion a 20-30 chilometri dal confine iniziano a camminare, di solito senza acqua, con temperature che arrivano fino a 45° centigradi. Lo fanno con i loro bambini o con i pochi oggetti che riescono a portare. Attorno c'è solo sabbia e deserto, dune tra cui i migranti perdono la vita, senza che nemmeno rimanga traccia della loro morte. Tutti, indipendentemente dalla loro nazionalità o condizione, ci raccontano storie di abusi, minacce e violenza”.
“La mia vita può essere bella anche senza l’Italia”
Prima di arrivare in Libia, dove li aspettano abusi e violenze di ogni tipo, donne, uomini e bambini devono quindi fare i conti con un viaggio pieno di insidie. Ai sopravvissuti, come Patrick o Princess, le cicatrici invisibili delle loro sofferenze li hanno portati ad abbandonare per sempre il sogno di un futuro in Europa. “Quando sono stato nel centro della Iom a Dirkou – conclude Patrick – ho avuto abbastanza tempo per riflettere. Quando strisciavo nel deserto, continuavo a pensare al mio bambino e a mia moglie, sono tutto ciò che ho in questo mondo. Ho capito allora che posso vivere bene anche senza l'Italia”. Patrick è uno degli oltre 22mila migranti che dal 2016 sono stati salvati nel deserto del Niger. Altre migliaia, però, rimangono sepolti nelle tombe sotto la sabbia, il cui unico ricordo sono un mucchio di pietre.