Sottomarino disperso, l’esperto: “Individuarlo quasi impossibile, come cercare un ago in un pagliaio”
Con il passare delle ore si riduce sempre di più la speranza di ritrovare il sommergibile della OceanGate con 5 persone a bordo, scomparso dai radar dalla mattina di domenica 18 giugno nell’Atlantico settentrionale, disperso durante un’esplorazione del relitto del Titanic. Secondo le stime, le riserve dell’ossigeno sarebbero finite nel corso della mattinata, ma questo non basta a scoraggiare le attività di ricerca, che al contrario sono state intensificate.
Alberto Marinò, Professore ordinario di “Costruzioni navali e impianti marini” e “Navi militari e sommergibili” presso il corso di laurea in Ingegneria Navale dell’Università di Trieste, a Fanpage.it ha spiegato quali sono le principali difficoltà che si incontrano in un’operazione di ricerca e soccorso come questa: “Il primo vero ostacolo è quello della localizzazione, è come cercare un ago in un pagliaio”.
Cosa potrebbe essere accaduto al sommergibile della OceanGate?
Ovviamente non è possibile stabilire con certezza le cause della sparizione dai radar del sommergibile: non si può escludere un incidente, come uno scontro con il relitto che si accingeva a raggiungere o l’essere rimasto in qualche modo incastrato nello stesso.
Più probabilmente, però, potrebbe trattarsi di un guasto al sistema di propulsione o alle eliche: in questo caso il Titan risulterebbe ingovernabile, restando così in balia delle correnti.
Un’altra ipotesi da considerare è quella del collasso strutturale, ossia la possibilità che sia stato lo scafo resistente (la parte esterna che circonda lo spazio abitato e che fa fronte alla pressione idrostatica) a cedere, provocando l’ingresso dell’acqua nel sommergibile.
Non conoscendo con esattezza com’è fatta la struttura, comunque, queste sono solo tutte ipotesi. L’unica certezza è che il Titan da domenica è sparito dai radar e si trova isolato in balia delle correnti, che potrebbero aver spinto quell’involucro di titanio e fibra di carbonio chissà dove, o potrebbero anche averlo direttamente adagiato sul fondo dell’oceano, a oltre 4.000 metri di profondità.
Come si strutturano le operazioni di ricerca di questi giorni e quali sono le principali difficoltà che si trovano ad affrontare?
Le operazioni di salvataggio appaiono quasi impossibili. Ma il primo vero ostacolo insormontabile, prima ancora delle successive difficoltà che un’eventuale operazione di recupero comporterebbe, è quello della localizzazione.
Individuare il Titan è come cercare un ago in un pagliaio. Sono troppe le complicazioni: in primo luogo, l’area da perlustrare è sterminata. Non si può sottovalutare l’azione delle correnti: sicuramente l’interesse si è inizialmente concentrato nella zona intorno al Titanic, originaria destinazione della lussuosa escursione, ma ormai il piccolo sottomarino potrebbe trovarsi ovunque. Una volta perso il controllo del mezzo non più funzionante, infatti, le correnti potrebbero averlo trascinato lontano.
Ecco un esempio per comprendere meglio. Prendiamo come riferimento l’estensione della Pianura Padana: il nostro obiettivo è cercare un oggetto delle dimensioni di una macchina. Ma questa macchina non solo potrebbe essere ovunque (dall’Emilia Romagna al Veneto, dalla Lombardia al Friuli), ma l’unico modo per individuarla è da un aereo ad alta quota, nel buio più completo.
Anche la piccola dimensione del mezzo di certo non facilita le operazioni di ricerca: i sonar (da immaginare come una “cortina di microfoni che viene calata in mare e poi trainata”) fanno maggiore fatica a individuare il sottomarino, lungo meno di 7 metri e con un diametro di 2,5. Per poterlo percepire, servirebbero sonar ad alta frequenza: il problema sorge dal fatto che più aumenta la frequenza dello strumento, più cresce anche l’attenuazione del segnale in acqua, ed è quindi necessaria una maggiore vicinanza all’obiettivo, che però probabilmente potrebbe trovarsi a migliaia di metri dalla superficie.
Il sommergibile potrebbe giacere a oltre 3.000 metri di profondità, questo riduce ulteriormente le possibilità di riuscita dell’operazione di localizzazione.
Se – come pare abbastanza probabile – il Titan si trova sul fondo dell’oceano, sappiamo che giace ad almeno 3.800 metri di profondità (pari a quella del relitto del Titanic). Ma non si può escludere che la distanza dalla superficie sia in realtà ancora maggiore: ormai conosciamo bene la superficie della Luna e persino quella di Marte, ma non sappiamo quasi nulla delle profondità dei mari, soprattutto a certe quote. Approssimativamente si sa come sono fatti i fondali marini (ad esempio, la presenza delle principali fosse e faglie), ma manca ancora una mappa dettagliata e che comprenda anche le correnti presenti.
La profondità rende la missione impossibile: se davvero il piccolo sottomarino giace tra i 4.000 e i 5.000 metri di profondità, servirebbe un cavo almeno altrettanto lungo per utilizzare in maniera efficace i sonar. Ma un cavo del genere, oltre a non essere disponibile, avrebbe un peso spropositato che non ne permetterebbe l’uso.
Diciamo che non è facile essere ottimisti: le migliori squadre e attrezzature accorse dalle più svariati parti del mondo si trovano davanti ostacoli apparentemente insormontabili.
Il Titan è caduto in un fondale dove c’è il buio perenne; la luce non arriva e quella degli appositi fari (Rov) si propaga molto poco in acqua (circa 50-100 metri), quindi l’unico modo per “vedere” resta attraverso i sonar, ma a quella profondità è difficile che ci siano le attrezzature necessarie per farli funzionare.
Nella notte di ieri gli aerei canadesi P-3 hanno captato dei rumori, come fossero dei colpi. È possibile che provenissero dal Titan?
Sono stati registrati tre colpi a intervalli più o meno regolari, i primi due a distanza di 30 minuti, il terzo dopo quattro ore. Non si esclude che potessero provenire direttamente dal sottomarino ancora attualmente disperso: a tali profondità non si ha una fauna particolarmente ricca alla quale ricondurre senza alcun dubbio questi rumori.
Anche ipotizzando che venissero dal Titan, però, i lunghi intervalli tra i colpi potrebbero essere il segnale che le persone all’interno erano già ieri allo stremo delle forze. Le riserve dell’ossigeno, secondo i calcoli riportati, sarebbero dovute finire questa mattina. Quelli di ieri potrebbero pure essere dei disperati tentativi di attirare l’attenzione con le ultime energie rimaste.
Graduale diminuzione dell’ossigeno – con effetti come mal di testa e perdita dei sensi – fame, sconforto psicologico e panico: dopo quattro giorni in queste condizioni trovare le forze per battere anche solo un colpo diventa sempre più difficile. A ciò si deve aggiungere anche il sempre più concreto rischio dell’ipotermia: difficilmente dovrebbero aver toccato temperature sotto lo zero, ma in tali condizioni di spossatezza anche restare fermi con 4-5°C potrebbe risultare fatale.