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Siria, l’auspicata sporca guerra

Inizia il count-down statunitense per l’intervento in Siria, ennesima operazione immagine di un Occidente timoroso di perdere rendite di posizione geostrategiche ed economiche. Le alleanze e l’egemonia regionali ricadono sulla pelle di milioni di cittadini spesso traditi e illusi da governance matrigne.
A cura di Enrico Campofreda
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In terra di Siria arrivano i Tomahawk lanciati da statunitensi, britannici e francesi per punire, non per cacciare Assad. Un’azione dichiarata lampo che durerà tre giorni al massimo, dicono gli strateghi americani fautori dell’incursione bellica per salvare la faccia al loro presidente premio Nobel per la pace. Ma la contraddizione non dovrebbe trasformarsi in una guerra “umanitaria”, questa già la combattono le milizie pro Qaeda contro le truppe lealiste ai danni d’un popolo massacrato e fuggitivo, con o senza la crudeltà dei gas letali. Mesi e mesi di osservazione passiva da parte d’una cinica comunità internazionale per uno dei nodi più intricati della politica mediorientale che l’intervento previsto non risolve anzi esaspera seguendo, pur nelle differenze, copioni già noti. Però al Pentagono pensano di non ripetere i casi iracheno e libico, non fosse altro perché insoddisfacenti ad appagare i propri scopi geostrategici e politici. Quest’ultimi restano in sospeso nella crisi siriana, poiché la grande incognita da affrontare e il vero obiettivo dell’intervento nel nuovo magma mediorientale sono frutto del ridisegno del quadro regionale e la risistemazione delle alleanze sottoposte alla pressione degli eventi. Che comprendono anche nuove velleità d’Impero russe e cinesi per ora legate a energia e mercati.

Le Primavere arabe sono state un’esplosione di rabbia e bisogni, economici e morali. Hanno scalzato tigri che sembravano di carta (le dittature populiste dei Ben Ali e Mubarak) che però conservano, come nel caso del vecchio raìs egiziano, una salda presa su una parte della società. Nelle due nazioni dove l’Islam politico saliva a furor di voto al potere, in uno spazio temporale pur breve i governi di Ennadha e della Fratellanza non solo non risolvevano neppure uno dei cento problemi che assillano paesi avvizziti dai precedenti malgoverni filo coloniali, ma creavano profonde spaccature su cui infilano gli artigli nostalgici e lobby potenti come quella militare egiziana. Altrove (Barhein, Yemen) era solo repressione, in Siria illusione di scalzare un regime egualmente autoritario che non disdegnava di mitragliare i cortei popolari prima d’ingaggiare un conflitto civile più che coi ribelli propriamente detti, contro milizie foraggiate dall’Occidente e l’internazionale jihadista sostenuta da regimi reazionari e miliardari (Arabia Saudita, Eau, Qatar) mai sfiorati dal vento delle stesse Primavere.

La partita dell’egemonia regionale, combattuta da anni dagli stati iraniano e saudita prim’ancora che dal rispettivo sciismo e sunnismo, sostenuta dalla politica delle alleanze, le prediche degli imam, le scuole coraniche e i pellegrinaggi nei luoghi sacri, i mercati petroliferi aperti e chiusi, gli embarghi subìti e i ricatti del costo del petrolio lanciati, i finanziamenti ai paesi satelliti o presunti tali nei simulacri di banche, hotel a sei e sette stelle, ma anche ospedali, università, scuole e moschee (per comprenderlo basta viaggiare, finché è possibile, dal Libano all’Afghanistan). Combattuta tramite gli alleati che vanno dal “cuscinetto giordano” alla milizia tetragona di Hezbollah, disputata nei mesi e nelle settimane che incrudiscono l’instabilità dell’area col ritorno al passato delle autobomba ricomparse in Libano, addirittura in Turchia e in un  riflagellato Iraq. Proprio il Paese martire a causa dell’invasione inventata da Bush jr e dei comportamenti satrapi di Saddam rischia più di altri l’allargamento di una deflagrazione bellica a catena. Il compromesso della coesistenza fra confessioni ed etnie, esperimento diverso ma non lontanissimo da quello libanese, è nel mirino del sunnismo fondamentalista rinfocolato nelle matrasse wahabbite.

C’è pure la Turchia che dopo le illusioni europeiste era tornata a riguardare a Oriente, ed è costretta a riaggiornare il consolidato modello erdoğaniano, scalfito dalle contestazioni casalinghe e claudicante nel Medio Oriente dove i problemi coi vicini si sono moltiplicati anziché azzerarsi. Il flirt con la Fratellanza, ora in forte difficoltà in Egitto, è diventato un boomerang e vive tutti gli inconvenienti del dramma siriano con le centinaia di migliaia di profughi che premono ai confini e il ruolo turco di belligerante servile, non tanto della Nato cui il proprio esercito appartiene, ma dei capricci della Casa Bianca. Insomma Erdoğan perde terreno in quei circuiti anti imperialisti verso cui aveva diretto uno sguardo molto autoreferenziale. Nella fibrillazione introdotta dall’ipotesi d’un allargamento del conflitto è contro “l’anomalia” iraniana e il suo caparbio antiamericanismo che Washington punta il dito assieme al piccolo-grande alleato israeliano. E’ contro quella realtà autoctona che osa proseguire il programma nucleare concesso a India e Pakistan ma proibito agli ayatollah per la mai rinnegata rivoluzione khomeinista. Obiettivo che sa di antiche revanche e torna attuale; un fine che potrebbe trascinarsi destabilizzazioni della produzione petrolifera capace d’infiammare i mercati del mondo alla stregua di una distruttiva guerra locale.

Restano i popoli: dimenticati, massacrati e traditi anche da chi dice difenderli per spirito di patria, etnìa, confessione, umanità. Gli ideali non li cita più nessuno. Non fanno presa, non cementano e sono fuori mercato.

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