Sarajevo, a vent’anni dall’assedio
Si dice che Sarajevo non sia più quella di una volta. Che le ferite e gli stupri lasciati da quei quasi 1.500 giorni di assedio ne abbiano per sempre, o comunque ancora adesso, violato la sua naturale inclinazione ad essere la città laica e multietnica, il gioiello di tolleranza nel cuore del vecchio continente, laddove è facile passare da una Moschea ad una Chiesa Cristiana alla Sinagoga per poi ritrovarsi tutti, la mattina o il pomeriggio purché il clima lo consenta, a giocare sulla scacchiera gigante, spostando gli enormi pezzi bianchi e neri sul lastricato di una piazza, tra i suggerimenti e le tifoserie dei partecipanti.
La Gerusalemme d'Europa, si dice, è cambiata, quanto meno nella forma: ha provato in tutti i modi a tessere le trame di una quotidiana normalità, all'epoca, mentre nel corso delle notti più buie e più lunghe c'erano i bombardamenti, i cecchini aumentavano in città, i viveri erano scarsi e razionati e, durante le file per l'acqua o per il pane, si poteva finire massacrati dagli ordigni che uccidevano in massa. La guerra è entrata sfondando la porta principale ed ha travolto tutto quello che è stata in grado di trovare mentre, silenziosa e dolente, Sarajevo cercava di diventare sempre più imprendibile, non solo dalle mani dei soldati ma anche da quelle della sorte, semplicemente pensandoci il meno possibile: come quel ristorante che rimosse dal nome impresso sulla propria insegna, To be or not to be, quell'«or not» che faceva troppo riflettere e troppo male.
E poi c'era un tunnel, che oggi c'è ancora anche se non serve più allo scopo: per arrivarci, si passa attraverso sobborghi che ancora narrano le storie iniziate e mai finite, in quella notte tra il 5 ed il 6 aprile del 1992. Nient'altro che una botola dietro una casetta che oggi, destino comune, trascina su di sé i segni del martirio. È nel quartiere periferico di Butmir, 800 metri di lunghezza, a cinque metri di profondità, un metro di larghezza e poco più di un metro e mezzo di altezza; lo scavarono per la maggior parte volontari bosniaci. Attraverso quel misero budello si lottava e si sopravviveva, si diventava eroi contro la propria volontà, si giungeva fino alle pendici del Monte Igman e all'aeroporto aperto alle Nazioni Unite. Aiuti umanitari ed armi, farmaci ed alimenti, anziani e feriti, famiglie e bambini in fuga: grazie al tunnel, quel che poteva essere salvato di Sarajevo, si salvò.
Il resto, oggi, si distende lungo i dolci pendii che circondano quella che sembra una sorta di anfiteatro creato dalla natura, tra il verde e il docile silenzio che si riserva ai luoghi inviolabili, lì dove le migliaia di bianche lapidi si tengono compagnia, tutte contrassegnate da una sorta di marchio inequivocabile: da un lato le date di nascita, lontane o vicine negli anni, dall'altro sempre il medesimo intervallo di tempo. Forse sì, effettivamente, per quanti l'hanno vissuta e conosciuta prima dell'inferno, per quanti l'hanno vista mutare in questi anni, sempre più strozzata dalla trappola della solidarietà e della tutela mondiale, Sarajevo ha ormai un volto nuovo e, probabilmente, poco riconoscibile. Forse l'immagine di quel territorio cosmopolita, dove i musulmani possono affacciarsi sull'Europa circondati da fratelli di altre confessioni o di alcuna religione, sembra ormai relegata alla cartolina per turisti che sempre più spesso affollano le stradine della città. Ma, ad ogni modo, è troppo difficile comprenderlo adesso, soprattutto con una situazione internazionale in cui quelli che furono i vecchi nemici (come la Serbia e la Croazia) si avvicinano sempre più all'Europa, cancellando d'un colpo quegli anni non troppo lontani; mentre la Bosnia, viceversa, riecheggia sempre il suo passato di dolore, ogni volta in cui viene semplicemente pensata. Vent'anni sono troppo pochi: per sperare che Sarajevo torni esattamente come prima, per augurarsi che le piaghe della guerra vengano curate e rimarginate, per riporre fiducia in nuove immemori generazioni. Abituati a veder fuggire la nostra misera storia troppo velocemente, difficilmente possiamo comprendere quanto tempo ancora servirà a Sarajevo per diventare nuovamente quella che fu, ammesso che voglia tornare ad esserlo. Sui marciapiedi, in qualche punto, ci sono ancora le Rose, buchi lasciati nell'asfalto dalle granate che, al termine del conflitto, vennero dipinte di rosso: tra i suoi bei caffè, i suoi affascinati visitatori e i suoi ospitali abitanti, le vie si aprono e mostrano, candide e pure, la propria anima ancora agonizzante.