Roman combatte con il figlio in Ucraina: “Non c’è tempo di avere paura, vinceremo questa guerra”
Roman O’Leg fino a due mesi fa poteva dirsi un ucraino naturalizzato italiano. O un italiano di origini ucraine. Viveva a Brescia da vent’anni, dove, grazie alla sua laurea in architettura, aveva un’attività ormai avviata nel mondo del design. Oltre, naturalmente, alla famiglia e gli amici. Poi è arrivata la guerra e Roman ha deciso di tornare dove è nato per combattere. Fanpage.it ha parlato con lui in videochiamata.
Perché l’hai fatto?
“Inizialmente pensavo, come tutti, che Putin stesse bluffando, che minacciasse per ottenere qualcosa dall’Occidente, invece faceva sul serio. I primi giorni di guerra non riuscivo a dormire, di notte mi svegliavo ogni due ore per guardare le notizie sul web e anche lavorare era impossibile. Così ho capito che non aveva senso restare, dovevo andare dove c’era bisogno di me. In Ucraina”.
Cos’hai lasciato in Italia?
“Innanzitutto mia madre e i miei amici, ma anche il lavoro. Avendo una laurea in architettura, facevo progetti di design in uno studio. Ho sistemato gli affari e detto ai miei soci che mi spiaceva, ma dovevo andare. Loro hanno capito”.
Come e quando sei arrivato in Ucraina?
“Sono arrivato all’inizio di marzo, con l’autobus. Alcuni volontari mi hanno procurato il materiale di prima necessità: abbigliamento militare, giubbotti antiproiettile… Vicino al confine occidentale sono dovuto scendere e percorrere a piedi alcune centinaia di metri, perché la coda di auto era ingestibile: tantissime persone in fuga, ma anche altrettanti mezzi pieni di aiuti. Era diverso da come lo si vedeva in tv, mi ha fatto specie osservare famiglie che fino al giorno prima avevano una vita normale e in una notte avevano dovuto infilarla in una valigia e partire, magari anche sotto i bombardamenti. Comunque, solo una volta varcato il confine mi sono reso conto che non avevo un posto dove andare”.
E come hai fatto?
“Mi ha ospitato un mio amico a Leopoli e subito mi sono arruolato in un battaglione di volontari a fianco dell’esercito ufficiale. Lavoro con tecnologie avanzate, ma non posso dire esattamente quali, mentre da un punto di vista militare sono ancora in fase di addestramento: ho già superato il corso base, ora sto seguendo quello avanzato. Impariamo l’uso delle armi, lo spostamento tattico, la medicina sul campo di battaglia e la psicologia nelle situazioni estreme”.
Psicologia?
“Sì, in pratica ci spiegano come non suicidarci e non uccidere nessuno senza motivo, come contenere il panico e la rabbia. Una delle tattiche è respirare dentro un sacchetto di cellophane: riducendo la quantità di ossigeno e aumentando quella di anidride carbonica, il sistema nervoso si calma”.
Non hai paura?
“Non ho più paura di uno che guida l’auto. Ho studiato le statistiche: se contassimo i morti negli incidenti stradali, altro che terza guerra mondiale. Anche mio figlio è qui in Ucraina a combattere, siamo in due regioni diverse e non ho ancora avuto modo di vederlo, ma non ho paura nemmeno per lui: non c’è tempo per averla, ognuno deve concentrarsi sul suo ruolo. Quando posso accendo il cellulare e scrivo a mia mamma ‘Sono vivo e con cappello’, è un detto ucraino, come quando in Italia si dice ‘Ho mangiato e mi sono mi sono coperto bene’”.
Che cosa ti manca di più del “prima”?
“La leggerezza. Prima della guerra con i miei amici su Facebook mi scambiavo video buffi, ora controllo solo i loro aggiornamenti, se sono vivi o morti. Lo stesso con la gente che incontro qui in Ucraina: un tempo ci si chiedeva ‘cosa c’è di bello nella tua città?’, oggi la domanda è ‘quanto è stata distrutta la tua città?’.
Pensi di tornare in Italia o rimanere lì una volta terminato il conflitto?
“Non faccio progetti così a lungo termine. Mi piacerebbe tornare in Italia, se ci sono restato per 20 anni significa che mi trovavo bene. Ma le condizioni cambiano, e anche le possibilità. Tutte le città distrutte, qui in Ucraina, avranno bisogno di architetti…”
Come pensi finirà questa guerra?
“Vinceremo. Si tratta solo di capire se prima o dopo”.