Riccardo, studente a Gaza: “Vi racconto il mio Erasmus nella Striscia, tra la guerra e l’occupazione”
Riccardo Corradini è originario di Rovereto, comune della provincia autonoma di Trento, ha 29 anni ed è specializzando in chirurgia generale. Lo raggiungiamo su Google Meet a Kabul, in Afghanistan, dove al momento si trova per partecipare a un progetto di formazione promosso da Emergency e realizzato in accordo con il Ministero dell'Università.
"La situazione qui è, per fortuna, abbastanza tranquilla, non ci sono grandi stravolgimenti, se non le problematiche collegate al recente terremoto che hanno martoriato un Paese che è già in difficoltà", spiega a Fanpage.it. Quella a Kabul non è però la prima esperienza professionale e umanitaria che Riccardo compie così lontano da casa.
Nel 2019 infatti, a soli 25 anni, è stato il primo studente Erasmus italiano ed europeo a entrare e a trascorrere 4 mesi nella Striscia di Gaza, ospitato dall'Università Islamica. La sua esperienza è stata anche raccontata in un documentario "Erasmus in Gaza", realizzato dalla giornalista Chiara Avesani e dal regista Matteo Delbò, vincitore di numerosi premi, tra cui il "Best reportage long" ai Dig Awards e presentato nel 2022 al Human Rights film Festival di Berlino.
Cosa hai pensato in questi giorni?
È difficile mettere in ordine i pensieri. Quello che penso in questo momento è che siamo di fronte a una catastrofe umanitaria, in cui il numero delle vittime ha superato le migliaia e i bombardamenti stanno impedendo di avere la possibilità delle strutture mediche di accogliere tutti questi feriti. Ciò significa che la gente muore perché non ha la possibilità di essere curata. Le persone non solo non hanno più medicinali, ma anche carburanti per far funzionare gli ospedali.
Non avere elettricità in un ospedale significa non poter usare le sale operatorie. Queste devono essere sigillate per questioni infettivologiche e quindi sono senza finestre, ci sono solo luci elettriche. Ma senza elettricità sei al buio e non operi. Se non lo fai, le persone muoiono. Nella Striscia non ricevono più cibo e acqua, si sta affamando e assetando una popolazione di oltre 2 milioni di abitanti. Questo va contro al diritto internazionale, al momento la WHO conta almeno 650mila persone che non hanno più acqua, il resto della popolazione lo sarà nel giro di una settimana. Di fronte a questo la comunità internazionale sembra non essere sensibile a riguardo.
Sei riuscito a contattare le persone che hai conosciuto durante il tuo Erasmus?
Subito dopo i primi bombardamenti, le ho sentite con difficoltà e nell'ultimo messaggio che ho ricevuto dalla famiglia che mi ha ospitato mentre ero a Gaza in Erasmus mi dicevano che stavano evacuando. Sono giorni che non li sento e potrebbero anche essere morti.
Perché hai scelto Gaza come destinazione del tuo Erasmus?
I motivi sono tendenzialmente due. Dal punto di vista professionale, ho sempre voluto fare il chirurgo generale e d'urgenza, quindi poter andare a vedere la drammatica situazione di Gaza e vedere come si gestisce l'urgenza in un posto dove questa è quotidiana, mi è sembrata un'opportunità irripetibile per crescere. Da un punto di vista umano, invece, è stata un'esperienza utile che si rifà a un'idea di mediazione culturale. L'Erasmus è un programma unico che permette di creare una mediazione culturale fra popoli con culture, usanze, religioni diverse. Pensare di poter entrare a far parte dentro a questo meccanismo, che crea ponti fra popoli, mi è sembrata un'occasione per cercare di dare un contributo in un luogo dove la diplomazia tradizionale non basta.
Come sei riuscito ad arrivare a un'opportunità del genere?
Banalmente, guardando la mail universitaria. Non ho fatto altro che fare un'application per un bando emanato dalla Comunità europea, accolto dall'Università degli Studi di Siena, presso cui studiavo Medicina all'epoca. E dopodiché questo è stato diramato alla comunità studentesca e io ho fatto application come si fa per altre destinazioni.
Cosa hai trovato? Cosa hai visto a Gaza?
Ho potuto vedere con i miei occhi e praticare la medicina su tantissimi pazienti, civili che vivono il dramma della guerra e dell'occupazione. Sono stato anche fortunato, se così si può dire, perché sono andato in un periodo di pace, se così vogliamo definirlo, un periodo in cui ci sono state solo due escalation. Questo va considerata "pace" perché se in quattro mesi si contano solo 4 giorni di bombardamenti bisogna ritenersi fortunati se si vive all'interno della Striscia.
Quando sono stato a Gaza era il periodo in cui venivano fatte le cosiddette "marce del ritorno", in cui grandi gruppi da Gaza si recava verso i confini per protestare contro lo stato d'assedio che vivono da più di 16 anni. Come risposta, tantissime persone venivano ferite. In un anno erano state ferite più di 1800 persone, oltre 300 erano invece state uccise. Avevamo questo tipo di pazienti che arrivavano dal confine con ferite d'arma da fuoco che, in tanti casi, necessitavano dell'amputazione degli arti. Considerato che la maggior parte erano giovani, ciò ha significato creare una generazione di invalidi.
Hamas ha il controllo della Striscia, è il governo locale. Nel momento in cui ho dovuto fare il visto, sono andato in un ufficio gestito dalla loro autorità, non ci sarebbe stato altro modo. Ma tutte le persone che ho curato io erano civili, assolutamente, e non hanno mai avuto legami chiari con Hamas.
Quando c'è un bombardamento, cosa succede?
Il problema è che nella zona non ci posti dove nascondersi. Da anni non si può importare calcestruzzo e quindi non ci sono bunker all'interno della Striscia di Gaza. Così come non esiste un sistema di rilevazione dell'attività aerea per cui non si può sapere quando sta arrivando un cacciabombardiere. Di fatto, quando cominciano le escalation, sai che prima o poi arriva e bisogna sperare che non tocchi a te, quella volta. Si tratta di una difesa basata sulla speranza.
Hanno realizzato anche un documentario sulla tua esperienza, com'è stato raccontare il dramma del popolo palestinese?
È stata un'esperienza collettiva. Il protagonista del documentario non sono io, io sono stato il mezzo con cui si arriva a conoscere tutte le persone con cui mi sono rapportato. È stato un momento in cui ci siamo scoperti come amici e come colleghi, mettendo di fronte al dramma di Gaza, il mio rapporto con loro, come il conoscendosi, capendosi reciprocamente, volendo ascoltare, come tutto questo porti a stare bene e a fare progressi anche professionale e aiutare delle persone.