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Guerra in Ucraina

“Restituire i territori ucraini annessi sarebbe una disfatta per il popolo russo”: parla il sociologo

L’intervista di Fanpage.it a Alexey Levinson, responsabile ricerche socioculturali dell’Istituto Levada: “La sovranità sulle oblast sottratte all’Ucraina è considerata sacra”. I russi “non hanno paura dei droni su Mosca e dell’attacco nel Kursk”. Solo il 63% è “turbato”, ma niente di più. “Preoccupano maggiormente gli immigrati e la cosiddetta internazionale Lgbt”.
A cura di Riccardo Amati
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Per i russi le quattro regioni dell’Ucraina annesse dal Cremlino alla Federazione sono “un trofeo”. Restituirne anche solo una parte “sarebbe vissuto come una disfatta”, come pure demandarne lo status alle decisioni di una futura conferenza di pace. È quanto emerge dai focus group che uno dei maggiori sociologi del Paese sta conducendo in diverse città. E dà ragioni in più a chi reputa impossibile un negoziato. L’elasticità di Vladimir Putin sui territori contesi potrebbe confermarsi pari a zero.

Alexey Levinson è il direttore della ricerca socioculturale del centro Levada, l’ultimo istituto demoscopico indipendente in Russia, dichiarato “agente straniero” e da tempo nel mirino delle autorità. Anche se ridotto ai minimi termini rispetto a tempi migliori, Levada continua a lavorare. Probabilmente perché anche il Cremlino ha bisogno di sondaggi indipendenti e affidabili.

Levinson condivide con Fanpage.it le ultime indicazioni che ha raccolto su come viene vissuta la guerra in Ucraina da parte dei cittadini dello Stato invasore, alla luce anche del recente attacco di droni su Mosca. E ci anticipa i dati di un’indagine statistica appena conclusa sulla reazione del pubblico russo all’offensiva ucraina nella regione di Kursk: solo tra i più anziani c’è un “marcato turbamento” diffuso. Niente di più. I giovani proprio non ci pensano.

Colpisce come si lascino scivolare addosso problemi enormi sperando che si risolvano da soli. E c’è da chiedersi se questo tipo di atteggiamento non sia proprio anche del regime.

Alexei Levinson, Istituto sondaggi Levada
Alexei Levinson, Istituto sondaggi Levada

Dottor Levinson, come reagisce la gente agli attacchi ucraini sul territorio russo? La guerra è arrivata a Ramenskoye, periferia di Mosca. Dove i droni hanno fatto morti e feriti…

Quel che viene fuori dai focus group negli ultimi due giorni è in linea con quanto emerso dai sondaggi condotti dopo l’offensiva ucraina nella oblast di Kursk: la maggioranza degli intervistati si dice turbata. Non traspare alcuna emozione forte, però. Non c’è panico. E non si notano cambiamenti significativi nel sostegno alla guerra e a Putin.

Può anticipare i dati più rilevanti del sondaggio Levada sulla percezione dell’attacco a Kursk?

Il 51 per cento della popolazione ha seguito gli eventi con attenzione, un 40 per cento li ha seguiti più superficialmente. C’è un notevole gap generazionale: i giovani non sono interessati. Le persone “molto turbate” dall’attacco a Kursk sono il 63 per cento. Tra il 28 e il 30 per cento i “moderatamente turbati”. Al 9 per cento non importa proprio niente. Tra i pensionati, il 90 per cento si dice “molto preoccupato”. Tra i giovani, solo il 25% ha un sentimento simile.

Nell’insieme, i dati riflettono una reazione emozionale e non politica. La reazione è di livello basso e di tipo formale. La gente dice che sì, la cosa ci riguarda in qualche modo. Ma si limita a questo. Routine, insomma.

Non c’è paura?

No. Dal sondaggio di cui vi ho appena detto e dalle interviste nei focus group, anche dopo l’attacco dei droni nella oblast di Mosca non risulta panico. E nemmeno ci sono livelli intensi di paura. Naturalmente, dipende anche dalla zona in cui siamo. Adesso, per esempio, sto lavorando a Ekaterinburg nel distretto degli Urali. Qui le persone si sentono lontanissime da quel che succede nelle oblast di frontiera.

Ma quanto importa davvero ai russi delle regioni ucraine che il Cremlino si è annesso? Se nel corso di un negoziato le parti non occupate fossero riconosciute come ucraine, o se lo Status di quei territori fosse deciso da una futura conferenza di pace, che direbbe la gente?

Non sarebbe per niente contenta. Se fosse interpellata, la maggioranza direbbe di no a un’ipotesi del genere.

Ma dai vostri sondaggi risulta che solo un terzo della popolazione vuole la continuazione della guerra. Il resto non si oppone, ma preferirebbe la pace. E ogni negoziato chiede compromessi…

Però le regioni annesse vengono considerate dalla maggior parte dei russi come un trofeo. Non abbiamo dati statistici su questo, ma posso riferirvi che dai focus group emerge chiaramente: lasciare quelle regioni agli ucraini verrebbe vissuto come una disfatta. “Non possiamo tornare indietro”, dice anche chi magari all’inizio era contrario all’operazione militare speciale.

E questo potrebbe inibire Putin dal fare concessioni, a un ipotetico tavolo negoziale?

Di sicuro ogni concessione sarebbe impopolare. Ci sono stati momenti quando se Putin avesse detto basta alla guerra rinunciando alle quattro regioni annesse avrebbe avuto grande sostegno tra i russi. Ma quei momenti sono passati. Oggi il possesso delle stesse è un punto d’onore, di prestigio. Costituisce la differenza tra l’opportunità o meno di essere russi. Intorno a tutto questo si è formato un velo di sacralità. Dovete tener presente che il presidente la sovranità sui territori annessi l’ha fatta inserire nella Costituzione. Questo preclude ogni possibilità di negoziato. Solo per menzionare un tale eventualità si può finire in galera, in Russia.

Sappiamo quanto il vostro presidente tenga alla sua popolarità. Come sta Putin a popolarità?

Sui livelli visti quasi sempre dall’inizio della guerra. Oggi siamo al gradimento da parte dell’85 per cento della popolazione. Due mesi fa era l’87 per cento. Poi sceso all’83. Cambia poco.

E il sostegno della popolazione alla guerra va di pari passo?

Grosso modo sì, considerando che molti che sostengono la guerra — come dicevamo — preferirebbero comunque la pace. Siamo sui tre quarti della popolazione. A volte al 75 per cento, a volte anche all’80 per cento e oltre.

Non ci sono stati alti e bassi, in questi due anni e mezzo di guerra?

C’è stato uno shock iniziale. Poi, nessuna dinamica. Qualsiasi cosa succedesse sui campi di battaglia o nel Paese. È una cosa molto strana, per me come ricercatore, constatare questa assenza di cambiamenti nella reazione agli eventi. Non si può nemmeno parlare di adattamento, perché non c’è stata alcuna gradualità. Il sentimento è rimasto invariato. L’unico periodo di cambiamento drastico è stato nel settembre del 2023, quando il presidente annunciò la mobilitazione parziale: la società allora reagì. Registrammo una preoccupazione severa, mentre i giovani fuggivano dal Paese per non rischiare di esser mandati al fronte. Poi, il fenomeno è rientrato.

Se non sono preoccupati per la guerra, di che si preoccupano i russi?

Anche su questo punto, come sociologo, sono rimasto sbalordito: secondo i nostri sondaggi ciò che preoccupa maggiormente i russi è l’aumento dei prezzi (il tasso d’inflazione superava il 9 per cento in agosto, ndr).

Il che può esser comprensibile…

Forse. Meno comprensibile e più sorprendente è che, a seguire, ci si preoccupa dei migranti e della minaccia Lgbt proveniente dall’Europa. La guerra arriva solo al quarto posto.

Ma la Russia non ha problemi di migranti. Sì certo, arriva gente dalle ex repubbliche dell’Urss dell’Asia centrale. È sempre arrivata. E i russi gli hanno sempre dato volentieri i lavori più umili da fare. Con atteggiamenti di superiorità spesso inquietanti. Ora è diventato un problema?

Un problema inventato. Perché non c’è alcuna emergenza immigrazione, in Russia. Per non parlare poi della presunta invasione gay e queer da ovest.

Il richiamo ai “valori tradizionali” nell’ideologia messa insieme dal regime contribuisce ad alimentare questi timori?

Probabilmente sì. La narrativa su una futura sostituzione etnica e sul rischio corso dalle famiglie tradizionali ha una forte presa. Che non mi aspettavo.

Quel che dice ci ricorda qualcosa. Sui russi agisce quindi la stessa narrativa della destra alternativa — ovvero dell’estrema destra — americana ed europea?

Proprio così. Parafrasando Marx, potremmo dire che il motto oggi è “fondamentalisti di tutto il mondo, unitevi”!

Non è poi così sorprendente, dato il verificato ruolo del Cremlino nell’alimentare la propaganda anti-immigrati e anti-Lgbt nel mondo. Mosca, un tempo faro dell’internazionalismo socialista, è oggi il faro di movimenti conservatori estremisti che spesso si richiamano direttamente a fascismo e nazismo.

Paradossale, no? La narrativa russa è la stessa che ritroviamo nell’estrema destra e tra i fondamentalisti di Stati Uniti ed Europa. E mi fermerei qui perché il discorso si allargherebbe, diventando parecchio complesso.

Mi pare che lei in questa intervista abbia descritto una società intorpidita. Che si lascia scivolare addosso i problemi veri e ne crea di falsi per sfogarsi. Non avviene solo in Russia. Ma voi avete una situazione politica e una storia peculiari. Cosa c’è nei russi, sotto l’apatia che riscontra Levada nei sondaggi? Bolle qualcosa? Può esplodere?

I mezzi che abbiamo come ricercatori sociali ci consentono di rilevare e analizzare solo gli strati superficiali di ciò che pensa la gente. La mia sensazione è che sotto si agitino tante emozioni. Quel che dicevamo riguardo alla “paura” dei migranti certamente riflette un nervosismo che agisce nel profondo. E certo la storia del mio Paese ha visto più volte situazioni in cui le tensioni sotterranee si sono accumulate fino a esplodere. Poi, tutto è successo molto rapidamente. Tutto è possibile. Il fatto che l’acqua oggi sia ferma non significa che la calma piatta continuerà domani. Nemmeno che si prepari la tempesta.

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