
No, dietro le "tariffe reciproche", altrimenti detti dazi, annunciate dal presidente degli Stati Uniti la sera dello scorso 2 aprile, alle 22 italiane, non c’è semplicemente una promessa elettorale da mantenere con gli elettori della rust belt americana. E nemmeno la semplice volontà di potenza dell’America che vuole “tornare grande” a discapito del resto del pianeta. E no, non è nemmeno la mossa di un Joker schizofrenico che vuole vedere solo bruciare il mondo. Dietro i dazi di Trump, e dietro molte delle sue prime mosse da presidente, c’è la volontà precisa di seppellire un’epoca. E di iniziarne una nuova.
Per capirlo, è necessario andare alla radice del pensiero trumpiano. In particolare a un documento intitolato “L’imperativo della priorità: una strategia per difendere gli interessi americani in un mondo più pericoloso” redatto dalla Heartland Fundation, il Think tank conservatore autore di quel Project 2025 che è considerata il manuale di istruzioni dell’amministrazione Trump. In questo documento si legge che la questione centrale per difendere gli interessi americani nel mondo è quella di “negare le ambizioni imperialistiche della Cina, in particolare dissuadendo Pechino dall’invadere Taiwan”.
Il motivo di questo interesse americano per Taiwan è piuttosto semplice. Perché grazie all’accordo commerciale firmato lo scorso anno, l’isola che produce per buona parte del pianeta semiconduttori e microchip – il prodotto più importante al mondo per lo sviluppo di nuove tecnologie informatiche – ormai esporta più negli Usa che nella Cina continentale. Perdere questo legame, se davvero le minacce cinesi ai Taiwan si concretizzassero in un'invasione, o dover ritrattare le condizioni con il proprio principale concorrente, sarebbe un enorme problema per gli Usa. Anche perché la stessa Cina è il primo estrattore al mondo di terre rare – la materia prima più importante al mondo per lo sviluppo di nuove tecnologie informatiche.
Non solo: la Cina è ancora il Paese in cui le aziende americane producono buona parte dei loro prodotti. Non solo, parte seconda: la Cina ha in mano buona parte della filiera logistica globale, con le 400 navi portacontainer di Cosco e acquisizioni strategiche di porti come quello di Amburgo, con il controllo di due dei cinque porti del canale di Panama e con progetti ad ampio raggio come la Belt and Road Initiative, quella che noi chiamiamo la nuova via della Seta, che ha di fatto creato una rete infrastrutturale globale governata da Pechino a colpi di accordi e investimenti infrastrutturali.
Ok, quindi: la Cina non è una superpotenza nucleare come Usa e Russia, ma le sue bombe atomiche, le armi con cui può disinnescare la deterrenza americana si chiamano controllo delle filiere delle materie prime, delle produzioni di massa, delle rotte commerciali. In una parola, della globalizzazione. E quel che sta facendo Trump è esattamente distruggere la globalizzazione, per disarmare la Cina.
In questo scenario, ad esempio, gli Usa devono sganciarsi dalla dipendenza dai metalli rari cinesi. E allora ecco le mire sulla Groenlandia, che di terre rare è ricchissima, e la necessità di siglare accordi con l’Ucraina, anch’essa provvista di giacimenti. Non basta, però: gli Usa devono pure recuperare potere sulle rotte commerciali. Quelle esistenti, e qui si spiega la necessità di recuperare il controllo su Panama. E quelle future, come la rotta navale artica – il cosiddetto passaggio a nord-est -, e in questo senso si spiegano le mire su Groenlandia e Canada. Non basta ancora, però: perché per gli Usa è fondamentale allo stesso modo sganciarsi il più possibile dalla manifattura cinese, riportando a casa quante più produzioni possibili. Ed ecco, per l’appunto, i dazi. Che servono, per l’appunto, a convincere tutte le imprese che vogliono vendere i loro prodotti negli Usa ad andare a produrli lì.
Quel che sta costruendo Trump, nei fatti, è un nuovo ordine economico a misura del potere americano sul mondo. Un ordine in cui gli Stati Uniti si liberano le mani da ogni interdipendenza che non considerano funzionale alle loro mire geopolitiche. O meglio ancora: funzionale alle mire cinesi.
Guardiamo il bicchiere mezzo pieno: quelle di Trump possono essere lette come mosse di moral suasion molto muscolare, per evitare un invasione prossima ventura di Taiwan da parte della Cina. Meno Washington sarà dipendente da Pechino, più potrà difendere l’indipendenza dell’isola. E viceversa, più potrà difendere l’indipendenza di Taiwan, meno sarà soggetta alla forza negoziale cinese.
Guardiamo pure il bicchiere mezzo vuoto, però: più si riducono le interdipendenze tra le grandi potenze globali, più le tensioni geopolitiche aumenteranno. Siamo ancora lontani da un mondo a blocchi come quello della guerra fredda tra Usa e Urss, allo stato attuale. Ma quella è la direzione in cui stiamo andando, ci piaccia o meno.
E il fatto che abbiamo evitato una volta la terza guerra mondiale non vuol dire che la eviteremo per sempre.
