Quando gli italiani in 3 giorni massacrarono 30mila uomini, donne e bambini innocenti in Etiopia
Oltre trentamila civili etiopi uccisi, quasi tutti civili, molte donne, bambini, moltissimi mendicanti. In gran parte bruciati vivi, impiccati, ammazzati di botte, fucilati davanti alle loro case o in strada in virtù di una presunta superiorità razziale italiana e della cieca volontà di dominio di Benito Mussolini. Anche l'Etiopia ha le sue "giornate della memoria", a ricordo del cosiddetto massacro di Addis Abeba del 19, 20 e 21 febbraio del 1937, una strage commessa durante il periodo dell’occupazione da parte dell’Italia fascista (1935-1941).
Esattamente ottantatré anni fa, tra il 19 e il 21 febbraio del '37, centinaia di civili italiani, militari del Regio Esercito e squadre fasciste diedero vita a una spietata rappresaglia dopo un attentato commesso dai partigiani etiopi contro il viceré Rodolfo Graziani ed altri ufficiali del suo seguito, gerarchi fascisti negli anni precedenti non aveva esitato a fare della popolazione etiope "carne da macello", anche riversando – su ordine proprio di Graziani – tonnellate e tonnellate di agenti chimici, come le bombe all'iprite vietate dalle convenzioni internazionali. Contro quel massacro combattevano i patrioti etiopi. Due eritrei della resistenza etiope la mattina del 19 febbraio lanciarono delle bombe a mano nel palazzo Guennet Leul di Addis Abeba causando la morte di sette persone e il ferimento di una cinquanta di presenti, tra cui Graziani, i generali Aurelio Liotta e Italo Gariboldi, il vice-governatore Armando Petretti e il governatore della capitale Alfredo Siniscalchi.
La risposta del regime fascista fu brutale. In meno di tre giorni le strade di Addis Abeba vennero prese d'assalto da squadracce fasciste: militari italiani armati di tutto punto e moltissimi civili scesero in strada dando vita a quella che Antonio Dordoni, un testimone, definì "una forsennata caccia al moro". "In genere – si legge nel libro dello storico Angelo Del Boca – davano fuoco ai tucul con la benzina e finivano a colpi di bombe a mano quelli che tentavano di sfuggire ai roghi". Alla rappresaglia presero parte non solo i soldati italiani ma, in un clima di assoluta impunità, anche commercianti, autisti, funzionari e persone comuni che si macchiarono di violenze di ogni tipo. Gli etiopi che malauguratamente portavano addosso anche solo un coltello, venivano uccisi sul posto; in migliaia furono arrestati e torturati senza alcuna ragione, senza nessuna prova a loro carico. La ritorsione fu particolarmente feroce negli agglomerati di tucul lungo i torrenti Ghenfilè e Ghilifalign, che attraversano Addis Abeba da nord a sud. "Per ogni abissino in vista – scriveva Del Boca – non ci fu scampo in quei terribili tre giorni ad Addis Abeba, città di africani dove per un pezzo non si vide più un africano". I corpi di migliaia di civili etiopi vennero gettati in fosse comuni: alla fine si contarono oltre 30mila vittime, tutte innocenti, tutte etiopi.
Partigiani D'Oltremare: in un libro il contributo degli africani alla liberazione dell'Italia
Parte proprio dall'invasione italiana dell'Etiopia il saggio scritto dallo storico Matteo Petracci intitolato "Partigiani D'Oltremare. Dal Corno D'Africa alla Resistenza Italiana" (Pacini Editore). Già, perché le violenze e i massacri in Etiopia ebbero, anni dopo, un riverbero anche sull'Italia: alla guerra di Liberazione, infatti, non presero parte solo partigiani italiani e truppe alleate. Nelle fila degli "Internazionali" oltre a russi, inglesi e slavi si arruolarono anche alcuni africani. Uno di loro era Carlo Abbamagal, un ragazzo che nel 1940 era stato prelevato dall'Etiopia (come detto invasa dall'Italia) e condotto insieme ad altri a Napoli per partecipare alla Mostra d'Oltremare, un'esposizione delle conquiste del fascismo. Il ruolo di Abbamagal era quello di figurante: mostrarsi ai visitatori vestito con abiti tradizionali come un animale in gabbia allo zoo.
La Mostra d'Oltremare, però, ebbe vita breve. All’entrata in guerra dell’Italia, infatti, l'esposizione chiuse i battenti e, dopo alcuni spostamenti, tutti gli africani portati in Italia furono trasferiti nel 1943 come prigionieri a Villa Spada di Treia, in provincia di Macerata. Dopo l'armistizio riuscirono a fuggire e alcuni di loro – compresa una donna – si unirono alla banda partigiana "Mario", operativa sul Monte San Vicino. Erano Mohamed Raghè, Thur Nur, Macamud Abbasimbo, Bulgiù Abbabuscen, Cassa Albite, tale “Gemma fu Elmi”, e Abbamagal Carlo.
La Banda Mario – definita da un ufficiale inglese "very mixed bunch" – prese parte a numerose azioni di guerriglia. Il contributo degli africani fu esemplare e il coraggio di Carlo Abbamagal gli valse la piena fiducia del comandante Mario Depangher, che lo scelse come suo più fidato collaboratore. Abbamagal venne ucciso il 24 novembre 1943 nel corso di una missione a Frontale di Apiro: viaggiava su un’auto insieme al comandante Mario e altri due patrioti. Il gruppo incappò in una pattuglia di altoatesini della Wermacht; Carlo saltò giù dal mezzo, sparò qualche colpo ma venne ucciso. I suoi compagni tuttavia ebbero la meglio: catturarono due nemici e seppellirono il corpo dell'etiope sulle montagne. Carlo Abbamagal morì per liberare l'Italia. Ma il suo sacrificio valse – almeno in parte – anche a riscattare la vita delle centinaia di migliaia di etiopi morti durante l'occupazione fascista.