Quali sono le cause della crisi tra Serbia e Kosovo e perché ora è vitale raggiungere un compromesso
Resta alta la tensione tra Serbia e Kosovo. Dopo una giornata relativamente tranquilla, infatti, questa mattina alcune migliaia di manifestanti serbi si sono radunati davanti alla sede del municipio a Zvecan, uno dei quattro maggiori Comuni del nord a maggioranza serba, ribadendo le richieste alla dirigenza di Pristina.
Dalle autorità kosovare si pretende il ritiro delle unità di polizia e la rinuncia dei nuovi sindaci di etnia albanese a insediarsi nelle sedi municipali dei Comuni serbi del nord. Tali sindaci vengono infatti ritenuti illegittimi perché sono stati eletti in una consultazione che ha fatto registrare una affluenza di appena il 3%. I manifestanti, che hanno boicottato le elezioni, non accettano che sindaci rappresentanti l'esigua minoranza degli abitanti albanesi governino città la cui popolazione è a larghissima maggioranza costituita da serbi.
È questo il nodo principale degli scontri degli ultimi giorni, e c'è attesa per le decisioni che prenderà Pristina. Gli Stati Uniti, dal canto loro, non hanno fatto mistero del loro fastidio ed hanno espulso il Kosovo da un'esercitazione militare Nato, Defender 23, in corso da aprile a giugno in Europa con la partecipazione di una ventina di Paesi alleati. "Per il Kosovo questa esercitazione è finita", ha dichiarato l'ambasciatore Usa a Pristina, Jeffrey Hovenier, dopo che il premier Albin Kurti ha rifiutato di ritirare i sindaci kosovari-albanesi dal nord del Paese, zona a maggioranza serba. Fanpage.it ha interpellato Giorgio Fruscione, politologo e analista dell'Ispi esperto di Balcani, per fare un punto della situazione.
Perché dopo la "guerra delle targhe" dello scorso anno le tensioni tra serbi e kosovari sono tornate ad esplodere?
Rispetto allo scorso dicembre paradossalmente c'era stata un'evoluzione degli aspetti positivi della vicenda: il 28 febbraio infatti è stato siglato un accordo tra il presidente serbo Aleksandar Vucic e il premier del Kosovo Albin Kurti davanti all'alto rappresentante UE, Josep Borrell. In quell'occasione serbi e kosovari erano andati verso una normalizzazione delle loro relazioni aderendo alla cosiddetta iniziativa franco-tedesca, raggiungendo un'intesa che sostanzialmente ricalca quello del 1972 tra le due "Germanie", in cui non viene esplicitamente menzionato il mutuo riconoscimento sebbene diversi articoli alludano chiaramente a questo. Insomma, nel testo la Serbia non riconosce il Kosovo come Stato indipendente ma le due parti hanno accettato la reciproca legittimità di "documenti e simboli nazionali, inclusi passaporti, diplomi, targhe e timbri doganali". Belgrado, inoltre, "non si opporrà all'adesione del Kosovo ad alcuna organizzazione internazionale". Quell'accordo di fine febbraio, dunque, andava oggettivamente verso una normalizzazione dei rapporti tra Serbia e Kosovo.
Poi cosa è successo?
Le tensioni di oggi sono figlie di episodi dello scorso novembre, quando i serbo-kosovari decisero di fuoriuscire dalle istituzioni centrali. In virtù di ciò tutti i posti sono diventati vacanti, anche quelli di sindaco. Con le nuove elezioni sono arrivati primi cittadini di etnia albanese a causa del boicottaggio dei voti da parte dei serbi.
Come mai i serbi hanno deciso di non partecipare a quelle elezioni?
Si è trattato di un ricatto politico. I serbi in questo modo hanno voluto negare la legittimità dell'autorità di Pristina anche in quei comuni dove sarebbero stati la maggioranza assoluta. Ritirarsi alle istituzione e non presentarsi alle successive elezioni è stato un modo per tutelare l'identità serba e non dare nessuna legittimità politica a Pristina.
I serbi oggi chiedono nuove elezioni o continueranno con il boicottaggio?
Non c'è da parte di Belgrado nessuna richiesta esplicita in questo momento: l'unica è quella nota da tempo, cioè che venga finalmente costituita un’associazione di comuni a maggioranza serba, come previsto dagli accordi di Bruxelles del 2013. Belgrado accusa Pristina di non aver mai rispettato questo patto siglato ormai dieci anni fa. L'associazione non garantirebbe grande autonomia politica ai comuni aderenti, ma un buon margine di azione sotto l'aspetto culturale e amministrativo.
La creazione di questa associazione di comuni è sempre stata rinviata. È il momento che il Kosovo affronti sul serio questo nodo?
Assolutamente sì. I rimproveri statunitensi vanno intesi in questo senso: si chiede a Kurti di fare un passo indietro e istituire l'associazione di comuni a maggioranza serba per ottenere un obiettivo superiore, quella stabilità regionale che oggi è sicuramente nell'interesse del Kosovo. A dimostrare quanto gli Stati Uniti siano infastiditi da questa situazione è il fatto che il Kosovo non è stato invitato alle ultime esercitazioni della NATO. Kurti ora è di fronte a un dilemma: assecondare l'opinione pubblica interna e mantenere la linea adottata finora oppure assecondare la volontà degli alleati, in primis gli USA.
Gli scontri dei giorni scorsi arrivano alcune settimane dopo le sparatorie di massa in stile americano di inizio maggio, seguite da grandi manifestazioni di piazza delle opposizioni. Per presidente Aleksandar Vucic la crisi in Kosovo è anche un'occasione per ricompattare il fronte interno?
Sì assolutamente, ma con una dinamica indiretta. Le sparatorie di inizio mese in Serbia vanno intese come la conseguenza di un modello che dopo la fine della Jugoslavia ha dedicato omaggi pubblici a veri e propri criminali di guerra abbassando notevolmente l'offerta culturale nel Paese, anche portando in televisione delinquenti e personaggi dalla discutibile levatura morale, legittimando tutto il male che gli anni '90 avevano portato. Quelle sparatorie sono il risultato di una società viziata da questa "devianza". Quello che collega quegli episodi a quanto accaduto pochi giorni fa in Kosovo sono due elementi: il primo è che queste sparatorie hanno suscitato una reazione mai vista portando in piazza fino a 200mila persone sotto lo slogan "La Serbia è contro la violenza". Il secondo è che Vucic a quel punto ha a sua volta organizzato – venerdì scorso – delle manifestazioni a suo sostegno, proprio in concomitanza con le proteste dei serbo kosovari e con l'insediamento dei sindaci nel nord del Kosovo. Insomma, a voler giocare un pochino con la teoria del complotto verrebbe da pensare che ci sia stato un tacito accordo tra Albin Kurti, che ha deciso di far insediare i sindaci proprio quel giorno, e Vucic che ha portato i suoi in piazza in Kosovo, proprio mentre decine di migliaia di manifestanti erano a Belgrado per sostenerlo. Vucic ha chiaramente voluto ricompattare l'opinione pubblica danneggiata dalle vicende interne e sicuramente la difesa dell'interesse nazionale in Kosovo costituisce un ottimo collante.
La NATO ha deciso di rafforzare il suo contingente in Kosovo. Si rischia dunque un’escalation?
Sarebbe un suicidio militare e diplomatico, inoltre entrambe le parti perderebbero il supporto dei rispettivi partner: neppure la Russia sosterrebbe attivamente un'iniziativa dell'esercito serbo contro il Kosovo. C'è maggior convenienza nel mantenere viva la minaccia del conflitto piuttosto che nell'aprirlo concretamente. La mia opinione è che non si arriverà a una guerra vera e propria con due eserciti impegnati a fronteggiarsi ma probabilmente ci saranno nuove tensioni locali che potranno degenerare in incidenti anche molto gravi. Per questo la situazione non va minimizzata.
E cosa dovrebbe fare la comunità internazionale per provare a spegnere la crisi?
Accelerare l'integrazione europea dando un orizzonte tangibile e concreto. Nel nostro continente conosciamo diversi scenari che con il tempo si sono calmati proprio grazie all'Unione Europea. Pensiamo all'Istria, dove ci sono stati eccidi brutali che hanno separato famiglia e comunità che vivevano nella stessa terra da secoli. Oggi possiamo andare in quel territorio senza una dogana, senza neppure dover cambiare moneta, vedendo persino le bandiere italiane nelle istituzioni pubbliche. Tutto ciò non era scontato. Nella crisi tra Serbia e Kosovo l'Europa deve assumere un ruolo più assertivo, in grado di fare una proposta concreta e accettabile per entrambe le parti in causa.