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Elezioni USA 2024

Quali sono i due grandi paradossi della vittoria di Donald Trump e perché sono una svolta epocale per gli Usa

La vittoria di Trump nel 2024 non rappresenta solo un successo elettorale, ma segna un punto di svolta fondamentale nella politica americana. Il Partito Repubblicano, sotto la sua guida, ha dimostrato che è possibile costruire una coalizione vincente che attraversa le tradizionali linee etniche e demografiche, unendo gli elettori attorno a preoccupazioni concrete e immediate.
A cura di Daniele Angrisani
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Le premesse erano tutte nell'aria, ma il 5 novembre 2024 rimarrà comunque nella storia come il giorno in cui Donald Trump ha compiuto una delle più sorprendenti rimonte politiche della storia americana moderna. Nonostante i due impeachment, le molteplici incriminazioni penali e i processi in corso legati al tentativo di ribaltare le elezioni 2020, l’ex presidente è riuscito a vincere e convincere gli elettori in maniera inequivocabile.

La sua vittoria, sia a livello di Collegio Elettorale che di voto popolare, contro la vicepresidente Kamala Harris, subentrata a Biden di fretta e furia dopo il disastroso primo dibattito presidenziale, non rappresenta solo un normale cambio di Amministrazione, ma segna soprattutto una profonda trasformazione nel tessuto sociale e politico degli Stati Uniti, che potrebbero emergere profondamente cambiati dai prossimi quattro anni, con un Trump ora senza più freni che intende mandare avanti la sua agenda politica MAGA a partire già dal Day One.

La sua campagna elettorale ha rappresentato un capolavoro di comunicazione politica, mescolando elementi apparentemente inconciliabili in una sintesi sorprendentemente efficace. Il candidato repubblicano è riuscito a fondere commedia e dramma, ottimismo per il futuro di una nuova grande America e oscurità del presente, creando un messaggio che ha risuonato attraverso diverse fasce demografiche.

Un'efficacia comunicativa che ha raggiunto il suo apice dopo il fallito attentato subito in Butler, Pennsylvania, in luglio, quando la sua reazione – rialzandosi con il pugno in alto e gridando quattro volte "Fight!" – ha trasformato la sua immagine in quella di un combattente pronto a tutto agli occhi di molti elettori.

Nei suoi comizi, dalla Florida al Michigan, Trump ha mostrato una capacità unica di modulare il suo messaggio: rassicurante con le madri dei sobborghi di Washington, autoritario con il personale militare di Detroit, spirituale con gli evangelici della Florida meridionale, e perfino in sintonia con i giovani appassionati di criptovalute a Nashville.

La campagna di Harris, al contrario, nonostante disponesse di maggiori risorse finanziarie e di uno staff più ampio, non è riuscita in alcun modo a contrastare l'one-man show messo in atto da Donald Trump in questi ultimi mesi di campagna elettorale.

Il paradosso dell'economia percepita

Se vogliamo comprendere le radici della vittoria di Trump nel 2024, dobbiamo partire dal più grande paradosso politico-economico degli ultimi anni. L'Amministrazione Biden-Harris uscente poteva vantare un bilancio che, in qualsiasi altra epoca, avrebbe garantito una rielezione trionfale: quattro anni di crescita economica ininterrotta, creazione costante di posti di lavoro, disoccupazione ai minimi storici. Eppure, questi numeri apparentemente brillanti si sono dissolti di fronte alla dura realtà quotidiana vissuta dalle famiglie americane.

Nelle case d'America, la conversazione non verteva infatti sui tassi di crescita del PIL o sulle statistiche occupazionali. Il dibattito quotidiano si concentrava su questioni molto più tangibili: il costo del carrello della spesa, le bollette energetiche, gli affitti.

Come ha efficacemente sintetizzato Mary Chastain, 74 anni, di Waleska, in Georgia: "Elettricità, acqua, alimentari, i costi per vivere… tutto è aumentato". Un sentimento condiviso da elettori di ogni estrazione sociale, come evidenziato da Idelle Halona, 51 anni, di Phoenix, in Arizona: "Ho amici ricchi e amici che vivono aspettando lo stipendio per sapere se riusciranno ad arrivare a fine mese. Stanno soffrendo tutti".

L'inflazione, sebbene fosse un fenomeno globale causato principalmente dall'immensa quantità di liquidità immessa nel sistema durante la pandemia e dagli shock energetici successivi, è diventata il simbolo del fallimento dell'Amministrazione agli occhi di moltissimi elettori.

Negli Stati Uniti, più che in altri Paesi, il presidente viene, infatti, considerato il responsabile ultimo di ciò che accade durante il suo mandato, come ben espresso dal motto di Truman "The buck stops here" nello Studio Ovale.

L'errore fatale dell'Amministrazione Biden-Harris è stato sottovalutare inizialmente l'impatto dell'inflazione, definendola ripetutamente come un fenomeno transitorio. Questa minimizzazione del problema ha danneggiato irrimediabilmente la credibilità di un'Amministrazione che si era presentata come il ritorno della competenza al governo dopo gli anni della prima presidenza Trump.

Harry Rakestraw, un operaio in pensione di 84 anni della Contea di Antrim, in Michigan, ha cristallizzato questo sentimento: "Non stavamo mai così bene come quando lui era presidente. Oggi sto peggio di allora". Parole che sono state condivise da milioni di elettori che martedì hanno espresso il proprio voto per Donald Trump.

Mentre Harris ha cercato tardivamente di correggere il tiro con proposte su alloggi, assistenza all'infanzia e inflazione, Trump ha offerto da subito soluzioni concrete e immediatamente comprensibili a molti elettori (sebbene senza alcuna copertura finanziaria): dall'eliminazione delle tasse sulle mance per i camerieri (proposta poi copiata da Harris tra le ironie repubblicane) agli incentivi fiscali per gli straordinari.

La campagna di Trump ha poi inferto il colpo finale quando, con efficacia brutale, ha fatto notare che Harris, in quanto vicepresidente in carica, avrebbe potuto implementare le sue proposte senza attendere le elezioni, chiedendosi ironicamente perché non l'avesse ancora fatto.

La rivoluzione multietnica inaspettata

Ma il vero terremoto politico di queste elezioni è stata la ridefinizione delle tradizionali affiliazioni etniche nel voto americano, un cambiamento che gli analisti definiscono, senza mezzi termini, come "catastrofico" per il Partito Democratico.

Le contee a maggioranza ispanica del Rio Grande in Texas, storicamente democratiche, hanno virato in massa verso Trump con uno spostamento medio del 10% rispetto alle elezioni precedenti. Il simbolo di questa svolta storica è la contea di Starr, passata ai repubblicani per la prima volta in 128 anni in una elezione presidenziale, azzerando in poche ore il lavoro di decenni dei democratici in Texas.

Nella vicina Arizona, la contea di Yuma, una zona fortemente latina lungo il confine meridionale con il Messico, ha visto Trump prevalere con un margine quasi del 30%, un risultato impensabile solo pochi anni fa.

Il fenomeno non si è limitato alla comunità latina. In Georgia, contee a maggioranza afroamericana come Hancock, Talbot e Jefferson hanno mostrato uno spostamento significativo verso il candidato repubblicano. Particolarmente emblematica è stata la vittoria repubblicana in Baldwin County, dove il 42% della popolazione è afroamericana – un risultato che non si vedeva da decenni.

Anche nelle grandi aree urbane tradizionalmente democratiche si sono visti segnali di questo cambiamento. A Detroit, nella Contea di Wayne, i voti per Harris sono diminuiti del 6% rispetto a quelli ottenuti da Biden quattro anni prima. Un calo simile si è registrato a Philadelphia County, la più grande contea della Pennsylvania, dove la partecipazione al voto è diminuita di circa 6 punti percentuali, con un contemporaneo aumento dei voti per Trump.

Questa trasformazione trova le sue radici in una combinazione complessa di fattori economici e culturali. Come ha sottolineato il deputato Ritchie Torres, un democratico afro-latino del Bronx, se non cambierà drasticamente rotta, il Partito Democratico rischia sempre di più di diventare "prigioniero di una élite di sinistra istruita che sta perdendo il contatto con gli elettori della classe lavoratrice".

Daniel Quiñones, un agente immobiliare di Allentown, Pennsylvania, rappresenta perfettamente questo cambiamento: "Ho votato democratico per tutta la vita", ha dichiarato, "ma ora vedo un partito che sorride, bacia i bambini e ti mente in faccia. Ottengono il potere e non fanno letteralmente nulla per te".

La campagna di Trump ha affrontato questo elettorato in modo non convenzionale, sviluppando quello che gli analisti chiamano "nazionalismo inclusivo". Ha abbandonato i tradizionali "centri comunitari" del Partito Repubblicano nelle comunità minoritarie per concentrarsi su una presenza massiccia sui social media, collaborando con podcaster, influencer e artisti hip-hop per diffondere il suo messaggio.

La svolta è stata particolarmente evidente nelle aree urbane di New York City, con incrementi significativi nel supporto a Trump in Queens, Brooklyn e nel Bronx, dove il suo messaggio "non importa se sei nero o marrone o bianco, siamo tutti americani" ha trovato terreno fertile, specialmente quando accompagnato da promesse concrete di mobilità economica.

Come ha osservato il professor Daniel HoSang di Yale, questa evoluzione sfida "le fondamenta del liberalismo etnico che è stato dominante dal movimento per i diritti civili", suggerendo una profonda riconsiderazione delle tradizionali affiliazioni politiche nelle comunità minoritarie. Una trasformazione che ha paradossalmente trovato proprio nella lotta all’immigrazione uno dei suoi catalizzatori principali.

L'immigrazione come punto di svolta

Il tema dell'immigrazione ha giocato un ruolo centrale in questa campagna elettorale, rivelando un profondo cambiamento nell'opinione pubblica americana. Secondo i recenti sondaggi Gallup, il 55% degli americani ha dichiarato di supportare una diminuzione dell'immigrazione, un aumento drammatico rispetto al 28% registrato nel 2020, quando Biden aveva sconfitto Trump.

Questo cambiamento nelle attitudini pubbliche ha attraversato le tradizionali linee di partito. Il sondaggio del New York Times/Siena College di metà ottobre ha rivelato che il 57% degli elettori sosteneva la deportazione degli immigrati illegali, incluso circa il 30% dei democratici e il 58% degli indipendenti.

Ancora più sorprendente, più della metà degli elettori a livello nazionale, compreso il 20% dei democratici, ha dichiarato di sostenere la costruzione di un muro al confine con il Messico, un marcato incremento rispetto al 40% del 2016 e 2020.

Come ha osservato Muzaffar Chishti, senior fellow del Migration Policy Institute, "non esiste più alcuna constituency in questo paese che favorisca l'immigrazione su larga scala". La cosa più significativa è, però, il fatto che questo cambiamento si è manifestato con particolare evidenza nelle comunità di immigrati già stabilite nel Paese da tempo.

Karen Bobis, 25 anni, elettrice indipendente originaria delle Filippine, intervistata a Reno, in Nevada, ha espresso frustrazione per come lei e la sua famiglia abbiano dovuto attendere anni per immigrare legalmente, mentre ora le persone "entrano direttamente nel Paese" senza seguire il processo legale.

Dello stesso avviso Rodrigo Garcia, 26 anni, di una famiglia messicano-americana di Milwaukee, in Wisconsin, che ha votato Trump per la seconda volta: "Deve esserci un certo limite al numero di persone che entrano in America, invece di permettere semplicemente a tutti di entrare".

La crisi è diventata tangibile anche nelle città democratiche. New York, Chicago e Denver hanno sperimentato negli ultimi anni direttamente l'impatto dell'immigrazione incontrollata, con migliaia di migranti, principalmente venezuelani privi di reti di supporto, che hanno rapidamente esaurito le risorse locali affollando hotel e banchi alimentari.

La situazione al confine ha raggiunto il suo apice nel dicembre 2023, con oltre 300mila attraversamenti illegali in un solo mese, il numero più alto mai registrato. In questo contesto, il fallimento del tentativo bipartisan di riforma dell'immigrazione, raggiunto dopo mesi di duri negoziati e velocemente affossato dopo che Trump aveva esortato i repubblicani a non sostenerlo, ha paradossalmente rafforzato la sua posizione.

Sebbene gli attraversamenti siano diminuiti drasticamente da quando Biden ha imposto nuove restrizioni a giugno, questo intervento tardivo non è bastato a contrastare l'efficace retorica di Trump. Di fronte a questa situazione, l'incapacità di Harris di articolare un messaggio politico concreto sull'immigrazione ha lasciato campo libero al candidato repubblicano per conquistare il voto di tutti gli elettori che esprimevano legittime preoccupazioni su questo aspetto, e si sono sentiti ignorati dai democratici per troppo tempo.

Lo scenario futuro

La vittoria di Trump nel 2024 non rappresenta, come abbiamo detto, solo un successo elettorale, ma segna un punto di svolta fondamentale nella politica americana. Il Partito Repubblicano, sotto la sua guida, ha dimostrato che è possibile costruire una coalizione vincente che attraversa le tradizionali linee etniche e demografiche, unendo gli elettori attorno a preoccupazioni concrete e immediate.

Con il censimento del 2030 all'orizzonte, che promette di aumentare ulteriormente il peso elettorale degli Stati del sud con alta concentrazione di elettori ispanici e afroamericani, questa nuova formula politica potrebbe ridefinire gli equilibri del potere per gli anni a venire.

I democratici, sotto shock per la seconda sconfitta contro Trump, si trovano ora di fronte a una sfida esistenziale. Il risultato deludente non è stato solo il risultato di una campagna inefficace, ma il sintomo di una disconnessione sempre più profonda tra il partito e la sua base storica.

Gli elettori hanno inviato un messaggio chiaro: le preoccupazioni quotidiane – dal costo della vita alla sicurezza dei confini – pesano più delle grandi questioni istituzionali. Anche la retorica sulla "difesa della democrazia", per quanto importante, si è rivelata insufficiente di fronte alle difficoltà concrete delle famiglie americane.

Come dimostrato dagli exit poll, anche molti elettori di Trump condividevano preoccupazioni sulla democrazia, ma da una prospettiva completamente diversa: per loro, il sistema democratico non stava funzionando proprio perché si sentivano sempre più marginali ed ignorati da coloro che sono stati al potere in questi anni.

Particolarmente significativo è stato il modo in cui Trump, nonostante il suo bagaglio di controversie legali e politiche, sia riuscito a essere percepito come più "autentico" dei suoi rivali. Questo paradosso evidenzia una verità scomoda per i democratici: la capacità di connettersi emotivamente con gli elettori può superare anche le più serie preoccupazioni sulla competenza o l'integrità di un candidato.

Se i democratici vorranno realmente difendere la democrazia dalle minacce – reali o percepite – dovranno ora intraprendere un percorso di profondo rinnovamento.

Questo significa anzitutto resistere alla tentazione di rifugiarsi in spiegazioni semplicistiche, liquidando gli elettori come "ignoranti che non capiscono nulla". Il disprezzo verso chi ha fatto scelte diverse non fa che confermare la percezione di un partito elitario e disconnesso dalle preoccupazioni della gente comune.

La strada per il futuro richiede, invece, soprattutto di imparare ad ascoltare veramente gli elettori, in particolare quelli che li hanno abbandonati e sviluppare soluzioni concrete per i problemi quotidiani, non solo visioni ideali.

Ciò significa riprendere a comunicare in modo autentico e diretto e cercare di ricostruire il legame con le comunità delle minoranze e la classe lavoratrice che hanno per così tanto tempo composto il cuore della coalizione obamiana grazie alla quale i democratici hanno vinto negli ultimi decenni le elezioni presidenziali.

Per fare ciò dovranno, iniziando dagli Stati in cui sono al governo, dimostrare che la competenza nel gestire la “res publica” può tradursi in benefici tangibili e concreti per tutti i cittadini, soprattutto per coloro che si sentono più emarginati e delusi.

Il futuro della democrazia americana dipenderà dalla capacità del sistema politico nel suo insieme di trovare un nuovo equilibrio tra la tutela dei principi democratici e la necessità di dare risposte concrete alle preoccupazioni immediate dei cittadini, molto più che dalle azioni, vere o presunte, che potrebbero essere intraprese dalla prossima Amministrazione per tentare di indebolirla.

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Daniele Angrisani, 43 anni. Appassionato da sempre di politica internazionale, soprattutto Stati Uniti e Russia. 
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