Qual è la posta in gioco nella trattativa per una tregua tra Israele e Hamas: l’analisi dell’esperto
Una delegazione di alti esponenti di Hamas è attesa oggi al Cairo per incontrare il capo dell'intelligence egiziana Abbas Kamel: oggetto del vertice sarà la discussione dell'accordo di cessate il fuoco proposto da Israele in cambio del rilascio degli ostaggi detenuti nella Striscia di Gaza.
Ismail Haniyeh, leader politico del gruppo palestinese, ha confermato che la bozza redatta a Parigi nello scorso weekend, e mediata da Egitto e Qatar, è in fase di analisi e che il gruppo è "aperto a discutere qualsiasi iniziativa o idea seria e pratica, a condizione che conduca ad una cessazione globale dell'aggressione". Hamas ha anche affermato che il piano deve garantire il "ritiro completo delle forze di occupazione dalla Striscia di Gaza", ipotesi sulla quale però il governo israeliano sarebbe molto netta: nella compagine guidata dal premier Benjamin Netanyahu, infatti, sono forti le pressioni per proseguire occupazione della Striscia e continuare i bombardamenti.
Quanto è davvero vicina, quindi, una nuova intesa tra Israele e Hamas per un cessate il fuoco nella Striscia di Gaza? E quali sono gli ostacoli che frenano ancora il raggiungimento di un accordo? Fanpage.it ha interpellato Lorenzo Trombetta, analista di Limes, corrispondente Ansa e ricercatore con sede a Beirut.
Cosa sappiamo di questa nuova ipotesi di un cessate il fuoco nella Striscia di Gaza?
Dopo la riunione di Parigi, alla quale ovviamente Hamas non ha partecipato, gli israeliani hanno dato un via libera di massima ai mediatori egiziani e qatarini affinché testassero la volontà dell'organizzazione palestinese di arrivare a un accordo. Le indicazioni fornite da Benjamin Netanyahu sono un po' "larghe" per consentire ai suoi alleati di governo di emendare o stralciare del tutto alcune parti dell'intesa. Grosso modo, comunque, si tratterebbe di una tregua con pause dai combattimenti a Gaza di qualche settimana; all'interno di ciascuna pausa andrebbero liberati 30/40 ostaggi israeliani civili in cambio di un numero imprecisato di prigionieri palestinesi attualmente detenuti nelle carceri israeliane. Dal punto di vista di Hamas vi è ovviamente la necessità di non dilapidare in un unico cessate il fuoco il più grande capitale che ha, ovvero gli ostaggi. Per questo i miliziani vogliono dilazionarne il rilascio nel corso del tempo. A questo punto le incognite sono principalmente due: che controproposta farà Hamas rispetto a quella israeliana, e soprattutto quale sarà la reazione del governo Netanyahu.
C'è il rischio che l'esecutivo israeliano vada in crisi proprio sulla questione del cessate il fuoco?
Secondo molti autorevoli osservatori sì: dopo un eventuale accordo con Hamas la coalizione capeggiata da Netanyahu rischia di cadere o comunque di non essere più la stessa. Come sappiamo, infatti, le frange più estremiste spingono per la prosecuzione della guerra ad oltranza.
È possibile, allora, che alla fine non venga raggiunta nessuna intesa? Così Netanyahu salverebbe la poltrona…
Forse solo in questo scenario la coalizione guidata da Netanyahu potrebbe restare in piedi, almeno per un po'. Se così fosse i ministri continuerebbero a dire ciascuno la loro, e il premier continuerebbe a dover trovare un difficile equilibrio tra le varie forze. Insomma, un accordo per il cassate il fuoco con Hamas non è ancora vicinissimo perché sono ancora troppe le variabili sul campo, a partire dalla tenuta del governo guidato da Netanyahu.
I dialoghi per un cessate il fuoco sembrano aver ripreso vigore nello scorso fine settimana; quanto ha inciso la sentenza di venerdì scorso della Internazionale di Giustizia?
È difficile dirlo. Di certo la sentenza della Corte Internazionale di Giustizia, ma anche la campagna politica e mediatica che l'ha preceduta, ha per la prima volta nella storia messo Israele nella posizione di carnefice e non più invece di semplice vittima. Il verdetto della Corte dell'Aia, tra l'altro, è arrivato in concomitanza con la Giornata della Memoria per le vittime dell'Olocausto. Ad ogni modo, la sentenza ha contribuito a mettere grande pressione su Israele e sugli Stati Uniti; sebbene Washington rimanga uno stretto alleato di Tel Aviv e Biden non abbia mai esplicitamente chiesto lo stop ai bombardamenti su Gaza, evidentemente nel corpo elettorale americano e nelle opinioni pubbliche di tutto l'occidente la sentenza della Corte Internazionale di Giustizia ha avuto un impatto, e si è levata più forte la voce di quanti chiedono lo stop ai bombardamenti sui civili palestinesi e lo stop all'assedio di Gaza.
Penso, comunque, che ben altri fattori stiano spingendo Israele a cercare un accordo per un cessate il fuoco, a partire dall'assenza di qualsiasi prospettiva di vittoria, per non parlare delle perdite umane e dei costi economici. Quella che si prospetta per Tel Aviv è una lunga guerra di logoramento, una situazione insostenibile sul lungo periodo. Questi elementi, sommati all'avvicinarsi delle elezioni presidenziali USA, giocano un ruolo maggiore nella possibilità che si giunga all'accordo per una tregua.
E quanto contano le pressioni degli Stati Uniti? Le cronache raccontano ogni giorno delle forti tensioni tra Netanyahu e Biden…
Noi sappiamo benissimo che l'esito delle elezioni negli USA non dipende in maniera prevalente dalla politica estera ma da fattori interni, come l'andamento dell'economia. Tuttavia sappiamo anche che le lobby sioniste, coi loro circa 150 anni di storia, incidono significativamente nel dibattito pubblico statunitense. Tematiche come il diritto di Israele a difendersi e la validità del progetto coloniale sionista sono molto importanti. Non va dimenticato inoltre che dal punto di vista geopolitico Israele è – dalla prospettiva americana – il perno fondamentale per il controllo dei flussi commerciali che dall'Oceano Indiano raggiungono l'Atlantico. Solo poche settimane prima del 7 ottobre gli USA avevano presentato il progetto Imec, ovvero il corridoio che dall'India avrebbe dovuto raggiungere i porti europei, italiani compresi, passando per l'Arabia Saudita, che avrebbe dovuto formalizzare accordi specifici con Israele. Insomma, ricordiamo che Israele nasce, tra le altre ragioni, anche come entità coloniale per coltivare gli interessi in Medio Oriente prima di Londra, poi di Washington. Ecco perché, sebbene il dibattito sulla politica estera non sia determinante alle elezioni presidenziali americane, la questione israeliana ha un grande peso. L'andamento della guerra a Gaza quindi è destinata ad avere ripercussioni anche sulla campagna elettorale in USA. E anche su questa vicenda Biden si gioca il suo secondo mandato. Per questo la Casa Bianca sta cercando di facilitare un accordo tra Israele e Hamas per un cessate il fuoco.
A quasi quattro mesi dagli attacchi del 7 ottobre e dall'inizio della risposta militare a gaza Israele può tracciare un bilancio? Finora pochissimi ostaggi sono stati liberati dall'esercito israeliano, e molti capi di Hamas sono ancora vivi…
Nell'emotività post 7 ottobre Israele ha commesso l'errore di fissare degli obiettivi irrealizzabili come la distruzione di Hamas e il suo totale sradicamento, pensando addirittura di poter trasformare la Striscia di Gaza in un territorio "pacificato" e abitato da palestinesi filo-israeliani addomesticati. Avendo fissato obiettivi così alti evidentemente la campagna militare si sta rivelando un fallimento. Gli ostaggi non sono stati liberati, Hamas è stata di fatto riconosciuta e non solo non è stata distrutta, ma unità di combattenti tornano operative ogni volta che le unità dell'esercito israeliano arretrano. Non c'è per Israele nessuna prospettiva di una vittoria militare. E probabilmente il governo israeliano, qualunque esso sia, dovrà immaginare nuove modalità di operare; ad ogni manca una visione politica e la classe dirigente israeliana non è capace di fornire nessuna prospettiva credibile, a parte quella di una guerra.