Lo stillicidio di attacchi che dal sud del Libano ha coinvolto incessantemente Israele negli ultimi mesi, condotti dai miliziani di Hezbollah e Amal con razzi, missili e armi controcarro, ha prodotto una situazione intollerabile per Tel Aviv già pesantemente impegnato militarmente nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania.
Circa 60 mila cittadini israeliani hanno dovuto abbandonare da alcuni mesi le proprie case e si trovano ancora nella condizione di rifugiati in aree distanti da quello che è diventato il nuovo fronte caldo del già tragico teatro mediorientale. Per diciotto anni, anche grazie alla presenza dei caschi blu della missione Unifil dell’Onu, il sud del Libano aveva vissuto un periodo di pace dopo decenni di continue guerre, l’ultima nel 2006. Poi, in coincidenza con l’attacco di Hamas contro Israele del 7 ottobre 2023, le milizie si sono rese nuovamente attive iniziando a colpire obiettivi civili e militari di Tel Aviv.
Evidentemente Hezbollah e Amal erano riusciti in tutti questi anni ad aggirare le misure messe in atto per demilitarizzare la fascia di terreno nel sud del Libano tra la “Blue Line” e il Fiume Litani che scorre parallelo a questa circa 30 chilometri più a nord. Nell’area si sarebbe dovuta applicare la Risoluzione n. 1701 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu che, tra gli altri impegni, prevede che non ci siano equipaggiamenti militari al di fuori di quelli di Unifil e dell’esercito regolare libanese, le LAF (Lebanese Armed Forces).
I caschi blu hanno operato sinora con grande impegno ottenendo ottimi risultati ma la presenza di depositi occultati di armi che ora sono impiegate contro Israele dimostrano che qualcosa non ha funzionato. Probabilmente le cause vanno ricercate nelle scarse risorse umane di Unifil e nella debolezza intrinseca delle regole di ingaggio imposte dall’Onu.
Sino a qualche settimana fa Israele aveva agito con azioni più che altro di deterrenza rispondendo con raid aerei mirati per neutralizzare le fonti di fuoco che man mano si materializzavano dei miliziani. Ma gli attacchi non si sono fermati, anzi nell’ultimo mese sono aumentati di intensità. Per detto motivo Tel Aviv ha ritenuto opportuno cambiare strategia per tentare di colpire l’intera organizzazione avversaria e renderla inoffensiva come sta facendo a Gaza con Hamas.
Il piano militare si può verosimilmente riassumere in tre fasi. La prima prevede la condotta di azioni preliminari, la seconda le operazioni militari decisive e la terza l’exit strategy, cioè la gestione post conflitto del sud del Libano. Le azioni preliminari sono volte essenzialmente a disarticolare la struttura di comando e controllo dei miliziani e alla distruzione dei depositi di armi e munizioni. In questo senso vanno intese le azioni essenzialmente di natura cibernetica che hanno portato all’eliminazione di più di tremila miliziani, quadri intermedi ed elementi di spicco dell’organizzazione, tutti coinvolti inaspettatamente nell’esplosione di cercapersone e altri dispositivi elettronici.
Anche i continui attacchi aerei e missilistici sui depositi di armi nel sud del Libano sono fondamentali per Israele in quanto degradano sensibilmente la capacità operativa dei miliziani. Sono da considerare attività preliminari anche la distruzione di ponti e delle vie di comunicazione tra Siria e Libano per interrompere il flusso logistico di nuove armi e munizioni tra i due Paesi. Una volta mobilitate forze aggiuntive, Israele è in grado poi di lanciare l’offensiva terrestre che costituisce la seconda fase, quella decisiva del conflitto.
Forte delle lezioni apprese nella guerra del 2006 e più recentemente a Gaza, le IDF (Israel Defence Forces) supererebbero la Blue Line in due o tre aree puntando direttamente verso il Fiume Litani per poi allargare le operazioni in tutti gli altri settori. Se ciò dovesse avvenire, prevedibilmente gli scontri sarebbero molto cruenti in quanto Hezbollah e Amal sono più armati e addestrati di Hamas ed operano in un ambiente naturale caratterizzato da centri abitati circondati da colline e aree coltivate che quindi, al contrario di Gaza, permette l’uso massiccio di armi controcarro e di droni.
Pertanto i carri Merkava e gli altri mezzi da combattimento israeliani, seppur aggiornati rispetto a quelli che operarono nella stessa area nel 2006, potrebbero subire maggiori perdite. Gli scontri sarebbero inoltre condizionati anche qui dalla presenza di molti centri abitati sotto i quali presumibilmente i miliziani hanno costruito tunnel a similitudine di quelli realizzati da Hamas a Gaza.
Anche la maggiore estensione dell’area, circa 1000 kmq rispetto ai 360 kmq di Gaza, rende l’attacco di terra più problematico. Inoltre in Libano i miliziani possono contare sulle vie di rifornimento alternative dal centro del Paese, linee di approvvigionamento di cui invece Hamas non dispone essendo stata la Striscia di Gaza completamente isolata dall’IDF.
In sintesi si tratta di uno scenario molto complesso che però Israele ritiene di poter e dover affrontare per far rientrare i rifugiati nelle proprie case nel nord del Paese e spingere Hezbollah e Amal a nord del Fiume Litani realizzando quella zona cuscinetto che Unifil non sembra essere stata in grado di assicurare.
Sullo sfondo gli sforzi diplomatici di questi giorni che però sembrano partire dalle posizioni molto distanti delle singole parti in causa. La parola d’ordine al momento è pessimismo a meno che i miliziani non rispettino finalmente la risoluzione Onu 1701.