Perché Xi Jinping ora possiede la Cina e questo è un grosso problema (soprattutto per la Cina)
Mentre l’Italia assiste alle tensioni tra la vecchia guardia di Berlusconi e la nuova di Meloni, la Cina racconta quelle tra Xi Jinping, primo a essere rieletto per la terza volta come Presidente, e Hu Jintao, suo predecessore e storico membro del Partito, rappresentante di una fazione rivale e allontanato durante il Congresso in cui si elegge la nuova leadership.
Il video, che ha fatto il giro del mondo in pochi minuti, mostra l’ex-Presidente Hu seduto alla sinistra di Xi. Poco prima della votazione viene sollevato di peso da due membri della sicurezza e scortato fuori dall’aula nonostante alcune resistenze.
Hu ha provato a prendere gli appunti di Xi e a conferire con lui e con il Premier ma non c’è stato niente da fare. I motivi non sono ancora chiari, così come la maggior parte delle dinamiche interne al Partito comunista cinese (Pcc), spesso animate da speculazioni esterne.
Sta di fatto che poco dopo la nuova dirigenza è stata eletta con l’unanimità e secondo alcune fonti come Politico, non è da escludere che si fosse preoccupati per il voto di Hu o di altri esponenti. Dall’altra, c’è chi parla di una forma di senilità che da tempo affligge l’ex-numero uno, mentre la versione ufficiale racconta di un malore momentaneo.
XX Congresso: Taizi e Tuanpai
Il fatto è che negli ultimi anni, a differenza del passato, molte speculazioni sulla mire di Xi Jinping si sono rivelate accurate, a tal punto, che si potrebbe affermare che l’ultimo e imprevedibile colpo di scena nella politica di partito cinese risalga al 2012 e riguardi proprio la sua figura allora indecifrabile.
Oggi non ci sono scandali alla Bo Xilai e schianti di Ferrari censurate, ma questo non significa che la complessità di lettura si sia attenuata. Sette anni fa, in un articolo per Formiche.net intitolato “Il maoismo strisciante del nuovo timoniere” citai uno studio cinese del 2013 basato sull’analisi comportamentale di Xi Jinping (appena entrato in carica come nuovo presidente), e Hu Jintao (presidente uscente). Xi, della fazione dei Taizi (i “principi rossi” eredi degli ufficiali maoisti), veniva descritto come più moderato e meno carismatico di Hu, vertice dei Tuanpai (la Lega della gioventù, fazione che richiama Hu Yaobang, leader il cui funerale scatenò le proteste di Piazza Tiananmen nel 1989).
In questi giorni, abbiamo avuto l’ennesima conferma di quanto una simile convinzione, molto diffusa dieci anni fa, fosse errata. Lo erano molte altre, come le certezze sul fatto che la Cina avesse istituzionalizzato la transizione pacifica di potere impostata da Deng o la pluralizzazione dei processi politici avviata da Hu.
Tuttavia, queste speculazioni non si sono rivelate fallaci oggi ma già nel 2015, come mostrato dal sopracitato articolo e da molti altri. Teorie rafforzate nel 2017 in seguito allo scorso Congresso, quando l’idea di separare il Partito e lo Stato, nelle parole di Fewsmith, “è stata uccisa” aprendo al terzo mandato.
Tre Xi per i magnifici sette
Da diverso tempo, dunque, la rotta impostata da Xi fin dalla sua prima elezione prosegue apparentemente senza grossi turbamenti. Si credeva che la Cina post-Hu potesse divenire più aperta e tollerante, invece, da allora è iniziato l’accentramento del potere e la stretta su partito, oppositori, privati, media, università, con un'influenza sempre maggiore sul piano internazionale.
Di sicuro, era da tempo che non si vedeva una dirigenza cinese così omologata e coesa, con ufficiali leali a Xi in ogni posizione di potere per realizzare un’agenda basata sulla sicurezza nazionale e sullo sviluppo tecnologico. Il nuovo organico è infatti ricco di tecnici legati alle sfide del tech e dello spazio che hanno sostituito diversi specialisti macro-economici. Inoltre, nonostante nel suo discorso inaugurale Xi abbia mostrato la volontà di “aderire alle riforme statali di base per l'equità di genere”, è la prima volta in 25 anni che una donna non viene eletta nel più largo comitato del Politburo composto da 24 membri.
Tra le novità dei sette del comitato permanente, l’organo decisionale più importante, troviamo invece Li Qiang, che a Xi deve la sua carriera tra Zhejiang, Jiangsu e Shanghai, e la cui ascesa nel Politburo è stata costruita meticolosamente negli ultimi anni.
Tra i nuovi membri c’è anche Ding Xuexiang, braccio destro di Xi, che lo servì come segretario ed è stato eletto nonostante non abbia mai guidato una provincia. Infine, troviamo Cai Qi, segretario a Pechino e da sempre legato al Presidente. A lasciare è invece il premier Li Keqiang, costretto per il limite di età di 68 anni che in teoria avrebbe potuto eccedere, visto l’esempio dello stesso Xi (69) e di altri membri come il Generale Zhang Youxia (72).
La prova di forza su Shanghai
La prova di forza più grande del Presidente durante questo congresso è l’elezione di Li Qiang, probabile futuro premier il prossimo marzo. La scelta non consiste solo nell’averlo preferito al vice-premier Hu Chunhua, rinunciando all’equilibro con i Tuanpai come è stato per gli ultimi 10 anni.
No, l’affondo consiste nell’aver messo nella seconda posizione del partito l’uomo di Shanghai, città che si è distinta per le accese proteste alla politica zero-Covid, la quale per poche decine di casi ha portato più di 20 milioni di persone al razionamento del cibo, alla separazione dalle famiglie, alla prigionia in strutture pubbliche, alla recinzione delle abitazioni.
Se l’abbattimento di ogni opposizione è stata una vittoria, la nomina di Li Qiang è molto di più. È un messaggio forte e chiaro al Partito e alla nazione: solo Xi rappresenta la Cina ed essere devoti a Xi è l’unico modo di essere leali al Partito.
A maggio, Alex Payette, Ceo di Cercius Group, affermava sul Financial Times: "sempre più voci si stanno alzando a Shanghai e all'interno del partito, chiedendo a Xi di costringere Li Qiang a dimettersi". Le proteste sono arrivate persino a Pechino, con striscioni che recitavano: “Vogliamo cibo, non test. Vogliamo libertà, non lockdown. Vogliamo rispetto, non bugie. Vogliamo una riforma, non una rivoluzione culturale. Vogliamo un voto, non un leader. Vogliamo essere cittadini, non schiavi.”
Un dissenso poi dilagato su social come Weibo, dove l’hashtag “io ho visto” è stato visualizzato più di 180 mila volte prima di essere cancellato con la sospensione di diversi account. Un’azione che mostra quanto al sicuro siano gli uomini vicini al Presidente, ma anche quanto siano sempre più distanti dalla popolazione.
Più potere per Xi, meno resilienza per il Partito
Un conto è sentire i media occidentali paragonare il maoismo all’attualità. Un altro è vederlo scritto in uno striscione di protesta a Pechino che parla di "rivoluzione culturale” all’alba del congresso più importante degli ultimi decenni.
In qualsiasi caso, i paragoni con il maoismo sono quasi sempre esagerati. Possiamo solo dire che l’azione di Xi è talmente forte e in opposizione con la “leadership collettiva” -teorizzata da Deng al fine di evitare il ritorno al culto della personalità e all’accentramento del potere- da renderlo il Presidente più autorevole e longevo dal maoismo. Anzi, per alcuni studiosi come Andrew Nathan, Xi ha consolidato più potere di Mao, in quanto l’azione del fondatore della Rpc nelle riforme era “episodica” mentre quella dell’attuale Presidente è “costante”.
Nonostante infatti l’azione di Xi rappresenti un segnale di forte stabilità, allo stesso tempo può rivelarsi un'arma a doppio taglio. Per lungo tempo ci si è interrogati sul perché dopo il 1989 il Pcc non sia imploso come la gran parte dei sistemi neo-leninisti.
Per decenni ogni crisi era buona per speculare sulla sua caduta. Nel 2003, Nathan ha provato a spiegare l’unicità del fenomeno cinese con la teoria della "resilienza autoritaria". In breve, non solo apertura economica, la capacità del Partito di resistere agli shock è dovuta anche ad un processo di istituzionalizzazione dei processi decisionali e ricambio della leadership, fenomeno raro nelle più comuni dittature.
Echi e rime dal passato
Secondo Nathan e diversi altri studiosi, i rischi che comporta per il Pcc l’azione di Xi erano già stati previsti da Deng nel 1980. “Il mandato troppo lungo induce i leader a considerarsi indispensabili” scrive Nathan “ Indebolisce la capacità di altre forze politiche di limitare il suo potere. Soffoca le carriere di giovani politici di talento… Quando il leader alla fine si dimette o muore, la mancanza di un processo di successione regolato può portare a una lotta per il potere. In questi modi la centralizzazione del potere è potenzialmente destabilizzante”.
Questo non significa che il pericolo sia immediato, né sul piano interno per il Presidente né su quello esterno per Taiwan. Gli sforzi per interpretare le priorità della nuova dirigenza si sono focalizzati su tre aspetti: politica estera (Russia e Taiwan), partito ed economia ma, nonostante i tentativi, non ci saranno risposte semplici. Ciò che è certo è che la legittimità del Pcc si è sempre basata su alcuni elementi politici e socio-economici che ora stanno venendo a mancare, a partire dalla crescita prevista intorno al 3%, ovvero la metà rispetto al pre-Covid.
L’articolo del 2015 citato a inizio articolo terminava affermando: “D’ora in poi, più che il partito, sarà il presidente a essere acclamato o biasimato per i successi e i fallimenti del Dragone”. L’altra sera, Dali Yang, professore all’Università di Chicago affermava: “Xi ora possiede veramente il sistema”, è l’unica cosa su cui non ci sono dubbi è che ora “qualsiasi errore sarà suo, inequivocabilmente”.