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Perché questa volta le proteste di piazza possono davvero cambiare l’Iran

Continuano le proteste in Iran dopo la morte di Mahsa Amini, la giovane di 22 anni arrestata dalla polizia perché non indossava correttamente il velo. Finora sono morte almeno 350 persone, ma questa volta le proteste possono davvero cambiare il Paese.
A cura di Fulvio Scaglione
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Andare a Qom, città santa dell’Iran, è un’esperienza inquietante per un occidentale. Una volta attraversati i suburbi, piuttosto squallidi, si arriva al centro dove l’islam sciita si manifesta in tutta la sua importanza e pervasività. Le moschee, le accademie islamiche e i seminari si susseguono e diventano fitti intorno al mausoleo che ospita le spoglie di colui che ha segnato la storia recente del Paese: l’ayatollah Ruhollah Khomeini, la guida della rivoluzione del 1979, l’uomo imperscrutabile che fino al 1989 ha dominato l’Iran, sfidando l’Occidente e il mondo sunnita, ovvero circa il 90% dei musulmani del mondo.

La sua tomba è in fondo a una specie di gigantesco hangar a cui approdano non solo pellegrini dai più diversi Paesi (l’ultima volta ho incrociato gruppi della Siria e del Bangladesh) ma anche semplici seguaci che portano un omaggio e si fermano a pregare, e famiglie. I bambini, lo ricordo bene, giocavano facendo rotolare sul pavimento delle monetine.

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Ecco, tutto questo non esiste più. E non perché le proteste hanno investito, fino a incendiarla tra le grida di una folla esultante la casa dove si dice che Khomeini abbia vissuto, e che è diventata un museo a lui intitolato nella città a lui intitolata. Ma perché Qom, la città-seminario, la città-mausoleo è stata svillaneggiata dando alle fiamme uno dei suoi seminari. Attaccare Qom vuol dire attaccare l’Iran che si è definito, politicamente e socialmente, dopo la rivoluzione del 1979. Vuol dire disconoscere e vilipendere i suoi simboli e la sua mitologia, imbrattarne il volto pubblico, gridare sui tetti che il re è nudo. È uno schiaffo agli ayatollah, la versione drammatica del gesto, solo in apparenza goliardico, con cui decine di giovani hanno buttato a terra il turbante dei religiosi che passavano per strada.

Preso atto, restano due domande. La prima è: come si è arrivati a tutto questo? La seconda, collegata alla prima: dove porterà tutto questo? La protesta, come tutti sanno, è stata innescata dall’assassinio, il 16 settembre scorso, di Mahsa Amini, una ragazza di 22 anni arrivata a Teheran dal Kurdistan per visitare i parenti, arrestata dalla polizia morale perché non portava correttamente il velo e picchiata a morte. Non tutti sanno, però, che le donne iraniane avevano cominciato a protestare contro l’obbligo di portare il velo già nel 1979, un mese dopo la Rivoluzione islamica di Khomeini. Proteste così efficaci da rinviare fino al 1983 l’istituzione dell’obbligo del velo.

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Chi osserva le immagini di quel tempo, vede cortei giganteschi di donne a capo scoperto. Ma nessun maschio. La differenza è che in queste settimane, a parte i primissimi giorni in cui le donne hanno manifestato quasi da sole, sfilando o tagliandosi i capelli per sfregio, la protesta ha subito un effetto palla di neve. Alle donne si sono aggiunti i ragazzi delle scuole e i giovani delle Università delle grandi città come Teheran o Esfahan. Poi gli uomini in senso ampio, poi la borghesia in quasi tutte le regioni dell’Iran, infine operai e disoccupati. Il movimento si è allargato di giorno in giorno, pur pagando un prezzo altissimo: 350 morti (tra i quali decine di minori e di donne) e circa 12 mila arrestati, molti dei quali ora rischiano la pena di morte. La repressione è per ora fallita: marce, proteste, attacchi alla polizia e a uffici statali sono proseguiti in decine di città. Persino il grande bazar di Teheran, che nel 1979 aveva costruito la base di sostegno economico alla presa di potere di Khomeini, è stato costretto a chiudere.

L’Iran ha vissuto, negli ultimi decenni, diversi cicli di proteste anche violente: nel 2009 per la rielezione del presidente Mahmoud Ahmadinejad, sospettato di brogli; nel 2017-2018 per la disastrosa politica economica del presidente Rouhani; nel 2019 per l’aumento del costo dei carburanti. Nessuno, però, ha coinvolto in modo così trasversale gli strati più diversi della popolazione. Nessuno, prima di questo, ha messo così tanto in discussione la legittimità del potere degli ayatollah.

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Lo stato comatoso dell’economia iraniana fa da propellente alle proteste. L’inflazione ha raggiunto il 50%, il costo dei generi alimentari è del 75% più alto di un anno fa. Lo stesso ministero iraniano del Lavoro e dei Servizi Sociali già l’anno scorso avvertiva che un iraniano su tre, ovvero circa 30 milioni di persone, vive in povertà. La “fuga dei cervelli” è continua, come ha spiegato Elisa Pinna, giornalista che l’Iran lo conosce bene: 2 milioni di emigrati nel 2020, il 25% degli studenti ammessi alle Università d’eccellenza che si trasferiscono all’estero. E non tornano più.

Ma non è solo questo a portare in strada, fianco a fianco, i ricchi rampolli che vivono sulle colline sopra Teheran, i mercanti del bazar, gli operai e i disoccupati metropolitani, i contadini del Sud-Est. Li unisce soprattutto la sensazione che non ci si possa aspettare nulla dall’alto, che il cambiamento possa arrivare solo con una spinta dal basso. Presidenti più moderati e progressisti si sono avvicendati a quelli conservatori, ma la sostanza non è cambiata. I religiosi controllano il 60% dell’economia iraniana attraverso le bonyad, fondazioni che in teoria hanno fini di assistenza sociale, e per questo non pagano tasse, ma che in realtà dirottano la ricchezza al sostegno alle milizie islamiche e nell’impiego spesso improduttivo di oltre 6 milioni di iraniani, strumenti che sono stati a lungo decisivi per la conquista del consenso e la conservazione del potere.

Proteggere lo status quo è il fine ultimo della Guida Suprema, l’ayatollah Alì Khamenei, arrivato al vertice del sistema nel 1989 ma che prima, per otto anni, era stato il Presidente della Repubblica “di” Khomeini.

Le proteste a Teheran
Le proteste a Teheran

Non aiutano, ovviamente, le sanzioni occidentali, cui l’Iran è da sempre sottoposto, fatto salvo il breve intervallo tra il 2015 e il 2018, cioè da quando Barack Obama firmò il Trattato per lo sviluppo del nucleare iraniano civile e lo stop a quello bellico, a quando Donald Trump lo disdettò in modo unilaterale. Ma questa attitudine allo scontro è un altro dei motivi della protesta: l’uranio arricchito che potrebbe servire a costruire la bomba è uno scudo che il regime chiede per se stesso e a cui gli iraniani, fieri nazionalisti come pochi altri, ormai rinuncerebbero pur di avere in cambio di una vita normale.

Ce la faranno? È difficile a dirsi. Gli ayatollah hanno un motto: non concedere nulla, perché anche la più piccola delle concessioni stimolerebbe la richiesta di concessioni più grandi. In più, sanno di avere dalla loro parte il favore delle milizie e delle forze armate, a cui hanno riservato negli anni grandi favori e molti soldi. Chi protesta, invece, ha dalla sua il coinvolgimento crescente delle classi produttive e lo scontento ormai evidente delle classi popolari. Lo si vede anche dal modo in cui la contestazione viene animata: gli studenti e gli intellettuali creano piccoli comitati di coordinamento che, attraverso la Rete, organizzano le manifestazioni, coinvolgendo un numero crescente di “proletari”. Quando la saldatura sarà completa, la sfida potrà fare un salto di qualità forse decisivo. Verso dove? Far finire il dominio degli ayatollah è il primo scopo. Poi, dopo aver demolito, bisognerà costruire. Al momento non si vedono protagonisti laici capaci di animare una nuova stagione. Magari ci sono ma non si espongono. È probabile, però, che il vero riferimento siano esponenti islamici moderati, quelli che la guida Suprema in tutti questi anni ha bloccato o emarginato.

La crisi del regime iraniano viene ovviamente seguita con grande attenzione da Paesi molto interessati come gli Stati Uniti e Israele. Il crollo degli ayatollah sarebbe per loro una grande festa, e l’Europa non tarderebbe a riallacciare i rapporti con un Iran meno intransigente e bloccato. Non tutte le attenzioni, però, sono disinteressate o dettate solo dai buoni sentimenti. Negli ultimi due mesi sono state uccise più di 40 persone in attentati che sembrano per nulla legati alle manifestazioni di piazza. C’è chi trama nel buio e spera di approfittare del caos attuale. Un pericolo in più per chi si è dato come simbolo una ragazza di 22 anni che si chiamava Mahsa Amini.

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