I missili che colpiscono le basi internazionali a pochi chilometri dal confine dei Paesi Nato e dell’Unione Europea. Le minacce di ritorsioni atomiche. I giornalisti ammazzati al fronte. I messaggi trasversali ai ministri occidentali come l’italiano Lorenzo Guerini. Che il conflitto in Ucraina scatenato dall’invasione russa non fosse un affare regionale, lo avevamo capito un po’ tutti dal 24 febbraio scorso, forse pure prima. Che l’Occidente, in qualche modo, avrebbe reagito all’invasione di una democrazia nel cuore dell’Europa, pure. Che ci sarebbero state conseguenze economiche importanti nei rapporti tra Russia, Europa e Stati Uniti d’America, anche. Che tuttavia sarebbe stato proprio Putin ad alzare costantemente il livello di tensione e ad alzare continuamente la posta nei confronti dei Paesi Occidentali.
Se, insomma, pensavamo che le sanzioni e la strenua resistenza ucraina – foraggiata dagli armamenti Occidentali – avrebbero in qualche modo concorso a una de-escalation della tensione, qualcosa è andato storto. Anzi, più passa il tempo più l’esercito russo si mette in luce per azioni efferate come il bombardamento al teatro di Mariupol, o pericolosissime provocazioni, come i missili su una base internazionale come quella di Yavoriv, dove sono morti diversi militari europei. Tutte mosse che sembrano voler stanare la Nato, sino a costringerla all’intervento.
Una strategia, questa, che appare controintuitiva, se hai un esercito in difficoltà, un’economia a terra e un bilancio statale prossimo al default, ma che potrebbe avere una sua logica. “When in trouble, go big”, è una massima della politica americana che ben descrive questa strategia: quando sei in difficoltà, alza la posta in gioco. E forse è proprio quel che Putin sta cercando di fare: un eventuale coinvolgimento della Nato nel conflitto ricompatterebbe il fronte interno, darebbe a Putin la possibilità di attuare ulteriori misure straordinarie, leverebbe di mezzo ogni ambiguità con tutti quegli storici alleati dell’Asia centrale che oggi traccheggiano di fronte a un’invasione che li spaventa, tanto quanto le reazioni dell’Occidente se si schierassero apertamente con Putin. E magari, ciliegina sulla torta, costringerebbe pure la Cina a prendere una posizione pro russa, a fronte di un’ingerenza Nato nei territori d’influenza di una delle altre grandi potenze globali.
Finora, va detto, l’Occidente ha retto bene. Ha detto fermamente no quella stessa no fly zone che Volodymyr Zelensky chiede ininterrottamente da tre settimane, incurante del fatto che probabilmente farebbe il gioco dello zar. Ha mantenuto i nervi saldi anche di fronte alla morte di militari e giornalisti occidentali. E di fronte ai massacri di Kharkiv, Irpin, Mariupol ha inasprito le sanzioni economiche e aumentato la fornitura di armi alla resistenza ucraina. Troppo poco? Forse sì. Ma abbastanza per impantanare l’avanzata russa e non far tracimare il conflitto fuori dall’Ucraina.
Se questo scenario è reale, non dobbiamo aspettarci niente di buono dalle prossime settimane. Putin alzerà ancora la posta, di provocazione in provocazione, di massacro in massacro, cercando di colpire l’opinione pubblica occidentale, che già oggi comincia a mostrare i primi segnali di frattura e le prime voci favorevoli a un intervento militare contro Mosca, e di spingere tutto il mondo verso l’abisso cui ha costretto l’Ucraina. Dai nostri nervi saldi, dipende quel che succederà dopo. Non sarà semplice.