La ritirata russa da Kherson è una svolta militare a cui non seguirà alcuna svolta politica al Cremlino, per ora. Chi si aspetta clamorose iniziative diplomatiche per un processo di pace o addirittura una crisi del regime di Vladimir Putin si sbaglia di grosso: le élite hanno troppa paura dello zar per imporsi e la popolazione resta in gran parte apatica. Ci vorranno, sul campo di battaglia, nell’economia e nella società, eventi molto più traumatici dello smacco subìto sul Dnipro, per cambiare la situazione. E ci vorrà tempo — concordano analisti e fonti moscovite.
“Non vi fate coinvolgere dall’euforia per Kherson”, dice da Mosca Andrei Kolesnikov, politologo e giornalista rimasto in patria nonostante critichi il governo rischiando la galera. “Questa ritirata non crea alcun pericolo per Putin. Che ha diversi problemi e molti altri presto ne avrà ma per ora resta forte”, spiega a Fanpage.it. Kolesnikov era il responsabile delle analisi di politica interna per la divisione russa del think tank Carnegie prima che fosse chiusa dalle autorità. Recentemente ha scritto un articolo per Foreign Affairs in cui sostiene che Putin è nel pieno della sua “fase Stalin”: isolato, paranoico e quanto mai temuto da chi gli sta intorno.
Avete presente Stalin?
Solo la morte riuscì a fermare Stalin. Per Putin forse non sarà necessario attendere la scadenza naturale. “Qualche altra grave sconfitta in Ucraina, il morso delle sanzioni che tra qualche mese farà davvero male ai cittadini, e le cose potrebbero mettersi male anche per lui”, sostiene il sociologo e filosofo della politica Greg Yudin, docente alla Scuola di scienze economiche e sociali Shaninka di Mosca. Intanto nella sua classe dirigente si sta creando una spaccatura. Che al momento non mette in discussione il capo ma le cui conseguenze nel medio lungo termine sono imprevedibili. Ci sono ormai due fazioni, nota su Telegram Tatiana Stanovaya, direttrice di R.Politik — istituto di ricerca che conta su fonti vicine al potere in Russia. I personaggi più ricchi e influenti, quelli che hanno davvero molto da perdere, per esempio il petroliere Igor Sechin, capo della Rosneft, vorrebbero che tutto tornasse come prima della guerra. Poi ci sono i conservatori aggressivi, i guerrafondai anti-Occidente che hanno meno potere reale ma parlano tanto, e ad alta voce: è il caso di Yevgeny Prigozhin, il businessman fondatore della Wagner, esercito privato che fa il lavoro più sporco nelle sporche guerre di Putin e uccide a colpi di maglio i cosiddetti “traditori”, con la esplicita benedizione dello stesso Prigozhin. Quelli come lui vorrebbero raddoppiare lo sforzo bellico e distruggere l’Ucraina e semmai il mondo intero. Fatto sta che il contrasto tra “moderati” e “estremisti” non pregiudica in alcun modo l’obbedienza a Putin. “Nessuno ha la possibilità né il diritto di contraddirlo”, scrive Stanovaya. “E non esiste alcun partito della pace in Russia”. O almeno non ancora. Neanche i più potenti oligarchi economici possono sperare di cambiare le cose. Il vozhd, ovvero il leader, lo si può magari odiare. Ma gli si dice di sì e basta. Un po’ come fu con Stalin.
Conformisti aggressivi
Le voci secondo cui i “falchi” sarebbero ormai gli unici che Putin ascolta non trovano conferma. “Ridicolo. Anche perché lui è il più falco di tutti”, dice a Fanpage.it una persona vicina al ministero degli Esteri russo. La fonte — che ci chiede di non essere identificata — smentisce come “stupidaggini” (ma la parola usata è più forte) quanto riportato dal canale Telegram General Svr, che ritiene Prigozhin ormai un confidente del presidente e il prossimo capo di un partito politico creato per assecondare le esigenze della guerra in corso. È vero che Prigozhin sta reclutando milizie nelle regioni confinanti con l’Ucraina. Il che fa il paio con quanto spara il blogger militarista russo Starshi Eddy (600mila followers) sulla necessità di prepararsi alla difesa delle città russe di Belgorod e Kursk dall’avanzata ucraina, dopo la ritirata di Kherson. L’umore è cupo anche nei talk show dei cantori del regime. Vladimir Solovyov, noto anche da noi perché più volte incautamente invitato in programmi televisivi italiani, tra un sospiro e l’altro per l’andamento del conflitto, è tornato a parlare dell’opportunità di utilizzare le armi nucleari. Mentre nel centro di Mosca un gruppetto di “patrioti” tappezzati di nastri di San Giorgio, simbolo del coraggio russo poi diventati decorazione per la vittoria contro Hitler, inneggiava alla necessità di un attacco atomico contro Washington. Un tipo di manifestazione ancora consentita dalle autorità, che hanno proibito tutte le altre. In queste espressioni più o meno folcloristiche di amor di Patria è facile leggere una critica per le batoste rimediate in Ucraina. Ma alla critica mai viene associato Putin. Gli sbagli sono dei comandi militari. Nè si deve dar troppo peso all’attacco al presidente da parte del presunto ideologo Alexander Dugin: “Il sovrano che fallisce deve pagare con la vita”, ha scritto su Telegram dopo Kherson. Dugin però, anche dopo l’attentato costato la vita alla figlia Darya, resta poco più di una macchietta senza reale seguito, in Russia.
Altro che “opinione pubblica”
“Le decisioni di Putin non sono soggette a discussione”, si legge in un editoriale della Nezavisimaya Gazeta, quotidiano vicino all’establishment ma che mantiene una cauta indipendenza. “Quindi Putin non può fare errori, perché non esiste un meccanismo per correggerli”. Nessuna ammissione di responsabilità è possibile, nota il giornale. Infatti, i media di Stato hanno fatto di tutto per distanziare il presidente dalla decisione sul “riposizionamento” — così viene definito — di Kherson. L’unico che lo ha associato indirettamente alla volontà del Comandante in capo è stato il Propagandista in capo: Dmitry Kiselyov, direttore del gruppo editoriale governativo Rossiya Segodnya e conduttore del più seguito programma settimanale di news sul Primo canale. “La manovra è stata decisa per salvare vite”, ha detto. “Si tratta di un’operazione tattica, razionale. Ci permette di conservare la nostra forza e di migliorare la logistica. Riprenderemo Kherson”. La narrativa sembra funzionare. “Aderisce bene alla logica del russo medio, perché c’è il richiamo a salvare la vita dei soldati”, commenta Andrei Kolesnikov. “Per i putinisti militanti Kherson è una disfatta, per i normali cittadini ha un’incidenza pari a zero”.
I sondaggi dell’istituto di ricerca sociologico indipendente Levada, ridotto al lumicino ma tenuto ancora in vita perché anche al regime servono sondaggi indipendenti, hanno registrato che il 40% della popolazione era ancora d’accordo con la “operazione speciale” in Ucraina, in ottobre. Le paure legate alla mobilitazione sono in parte rientrate. La metà dei favorevoli alle decisioni del governo auspicava comunque colloqui di pace. Siamo molto lontani da percentuali che possano impensierire un sistema politico che, per la definizione di un canale Telegram pro-Putin, “è uno dei più tenaci organismi terrestri e come gli scarafaggi resisterebbe anche a una catastrofe nucleare”. Qualche esperto vero o presunto ha sostenuto che dopo Kherson Putin ha perso la sua aura di invincibilità e che questo gli costerà il gradimento dell’opinione pubblica mettendone a rischio il potere. Ma l’opinione pubblica in Russia è una bestia ben strana. A parte che sono frastornati da una propaganda per noi inimmaginabile, i russi pensano a sopravvivere e a non immischiarsi. Sono stati abituati così dal regime. Di Kherson gli importa poco o punto. Il direttore scientifico dell’istituto Levada, il sociologo Lev Gudkov, dice che l’Homo Sovieticus, cinico, politicamente apatico e capace di sopravvivere in ambiente totalitario, “è tornato ad essere vivo e vegeto”, sotto Putin. Altro che “opinione pubblica”. I coraggiosi che hanno protestato — e sono comunque tanti, oltre 19mila arresti per aver manifestato contro la guerra — o sono in galera o sono scappati all’estero o hanno smesso di protestare. Yuri, 27 anni, ingegnere informatico di Mitishchy, un sobborgo di Mosca, in marzo si fece 10 giorni di prigione per aver partecipato a una manifestazione. È contento perché guadagna bene ed è miracolosamente sfuggito alla mobilitazione. “Adesso di politica parlo solo a casa, in cucina”, ci dice al telefono. “Da solo”.
Giornalista e broadcaster. Corrispondente da Mosca a mezzo servizio (L'Espresso, Lettera 43 e altri - prima di Fanpage). Quindici anni tra Londra e New York con Bloomberg News e Bloomberg Tv, che mi inviano a una serie infinita di G8, Consigli europei e Opec meeting, e mi fanno dirigere il servizio italiano. Da giovane studio la politica internazionale, poi mi occupo di mostri e della peggio nera per tivù e quotidiani locali toscani, mi auto-invio nella Bosnia in guerra e durante un periodo faccio un po' di tutto per l'Ansa di Firenze. Grande chitarrista jazz incompreso.