I 12 giurati chiamati dal tribunale penale di Manhattan a esprimersi sul procedimento statale a carico dell’ex presidente Donald Trump hanno condannato il tycoon all’unanimità, considerandolo colpevole di tutti i 34 capi d’accusa presentati dal procuratore capo del distretto di Manhattan, Alvin Bragg.
Il caso ruota attorno alla falsificazione dei registri aziendali relativi alla rendicontazione delle spese per la campagna presidenziale del 2016 contro Hillary Clinton. Trump, secondo l’accusa, avrebbe ordinato al suo allora avvocato e faccendiere Michael Cohen di versare alla pornoattrice Stephanie Clifford (in arte Stormy Daniels) una somma di denaro affinché mantenesse la bocca chiusa circa la breve relazione intercorsa fra i due nel 2006.
“Hush money” (silenzio in cambio di soldi) è il gergo giornalistico americano usato in questi giorni dai quotidiani per descrivere un affaire che avrebbe ulteriormente danneggiato la reputazione di The Donald in piena campagna elettorale, in un momento in cui già stava subendo molteplici accuse di comportamento sessuale scorretto.
I 130 mila dollari a favore della Daniels sarebbero stati versati da Trump a Cohen e registrati come rimborso per spese legali, un falso in bilancio che costituisce reato per la legge dello Stato di New York. Chiave sarebbe stata la testimonianza sui dettagli del rapporto sessuale fra la pornostar e Trump avvenuto nel 2006 mentre la moglie Melania Trump era incinta di Barron (e che quest’ultimo nega) nonché quella dell’ex confidente personale di Trump, Cohen, secondo cui il tycoon avrebbe approvato un piano di rimborso attraverso pagamenti mensili.
Ma al di là del primato storico raggiunto dal punto di vista politico, ovvero quello di essere divenuto così il primo ex presidente con una condanna penale, al momento poco cambia per Trump dal punto di vista legale. Il verdetto della giuria di New York non rende di per sé Trump un “criminale condannato” (convicted felon).
Il caso passa ora alla fase della sentenza, un iter in gran parte controllato dal giudice Juan Merchan il quale ha già fissato la data della sentenza per l’11 luglio, a pochi giorni dalla convention repubblicana che dovrebbe nominarlo formalmente candidato del Grand Old Party (GOP) alle elezioni del 5 novembre. Sentenza che potrebbe comportare una multa di 5000 dollari, la libertà vigilata, lo svolgimento di servizi sociali, gli arresti domiciliari o, eventualmente, il carcere.
Trump è stato condannato per 34 reati di classe E, il livello più basso di New York, ognuno dei quali comporta una pena potenziale fino a 4 anni di carcere. Ma il giudice Merchan ha chiarito di essere consapevole dello status politico eccezionale di Trump (“Lei è l'ex presidente degli Stati Uniti e forse anche il prossimo presidente” gli ha detto), del territorio giuridico inesplorato del caso e ha già espresso la sua riluttanza a mettere l'ex presidente dietro le sbarre.
Merchant dovrà poi tener conto di una serie di circostanze che, secondo molti esperti, dovrebbero farlo propendere verso la scelta di una pena minore, di sicuro non quella detentiva: l’età di Trump (77 anni), l’assenza di condanne precedenti, il carattere non violento del reato. D’altro canto, anche la condotta di un imputato che ha ripetutamente attaccato pubblicamente il giudice accusandolo di parzialità e corruzione, potrebbe influire.
Mentre il sito web della campagna elettorale di Trump lo definisce “prigioniero politico” esortando i suoi sostenitori a donare, il suo avvocato, Will Scharf, ha già dichiarato a Fox News che il team legale dell’ex presidente presenterà appello, un passaggio che quindi potrebbe ulteriormente ritardare di mesi la fine del procedimento. A New York, un imputato ha 30 giorni di tempo dal momento in cui viene pronunciata la sentenza per presentare una notifica di appello. In questo caso, la palla passerebbe al primo dipartimento giudiziario della Divisione d’Appello di New York, poi, se questa corte confermerà il verdetto, Trump potrà appellarsi alla Corte d’Appello, la più alta Corte dell’Empire State.
Ma soprattutto, la condanna non lo rende incandidabile alla presidenza. In altri termini, il magnate newyorkese può continuare a correre per la Casa Bianca. La Costituzione degli Stati Uniti d’America stabilisce relativamente pochi requisiti di eleggibilità: i candidati alla presidenza devono essere cittadini statunitensi nati sul territorio statunitense, devono aver vissuto in USA per almeno 14 anni, devono avere almeno 35 anni. Non esiste insomma alcuna regola che impedisce la corsa presidenziale ai candidati con precedenti penali. E benché molti osservatori avessero considerato questo come il procedimento penale dei quattro che interessano Trump con le basi giuridiche più fragili per un’eventuale condanna, il caso si profila ora come l’unico con un verdetto raggiunto prima delle elezioni.
Il verdetto, inoltre, non sembrerebbe influire sugli altri tre procedimenti penali che Trump sta affrontando: due federali – uno sulla gestione impropria di documenti riservati relativi alla sicurezza nazionali e ritrovati nella sua tenuta privata a Mar A Lago, in Florida, e uno sui suoi tentativi di ribaltare le elezioni del 2020 con l’assalto a Capitol Hill – e un caso statale in Georgia che riguarda l'interferenza elettorale nella Contea di Fulton.
La vera domanda piuttosto è se da questa odissea giudiziaria, Trump uscirà indebolito per via della percezione di impresentabilità da parte dell’opinione pubblica americana. Ma secondo la stampa americana, la risposta non è ancora chiara. Il paese è già spaccato da una polarizzazione fra chi considera Trump un perseguitato dalla giustizia di sinistra e chi lo ritiene un pericolo per la democrazia americana e secondo gli ultimi sondaggi l’esito del processo non sembra influenzare la grande maggioranza degli elettori.
La maggior parte delle persone che intendono andare a votare, da una parte e dall’altra dello spettro politico, si sono già fatte un’idea su Trump. Il dubbio permane sull’elettorato indipendente, ancora oscillante nelle sue intenzioni e di fatti con percentuali variabili nei sondaggi.
Secondo una rilevazione di NPR/PBS NewsHour/Marist pubblicata ieri mattina, solo l’11% degli indipendenti ha dichiarato che un verdetto di colpevolezza li renderebbe meno propensi a votare per Trump.
Secondo un altro sondaggio della Quinnipac University del mese di maggio, si trattava del 23% degli elettori indipendenti, mentre secondo un sondaggio di Politico Magazine/Ipsos di marzo scorso era il 36% degli indipendenti meno propenso a votare per un Trump condannato. Un calo apparente dell’incisività del verdetto sul caso Stormy Daniels sull’elettorale chiave che, stante la competizione molto vicina fra i due candidati, sarà quello che verosimilmente deciderà il prossimo inquilino della Casa Bianca.