C’è una particolarità, in questa guerra in Ucraina, che la rende diversa da tutte le altre guerre di cui abbiamo memoria: che, per la prima volta, la vediamo tutta praticamente in diretta, come fosse un reality show, più che un film. Non c’è regia che la edulcora, non ci sono montaggi che elidano l’orrore. C’è un Paese pieno zeppo di telecamere, non assoggettato a nessun controllo anti democratico, che registra ogni razzo che arriva, ogni bomba che esplode, ogni cadavere sull’asfalto, ogni orrore immaginabile e lo diffonde via social alla velocità della luce, in tutto il mondo.+
Questo orrore, su questa scala, non l’avevamo mai visto. Certo, avevamo visto gli aerei di linea schiantarsi contro le Torri Gemelle a New York, assassini a sangue freddo all’esterno della redazione di Charlie Hebdo o nei bistrot di Parigi, camion che falciano la gente sul Promenade des Anglais a Nizza, esecuzioni sommarie dei terroristi dell’Isis a Raqqa. Ma mai l’orrore della guerra ci aveva raggiunto così tanto, così a lungo, così tutto assieme.
Per questo molti di noi – persino chi con quelle immagini deve farci i conti per lavoro, fidatevi – sono tentati di spegnere la televisione, di chiudere il computer, di mettere da parte il telefono, assuefatti e traumatizzati, frame dopo frame, dall’abisso che hanno di fronte agli occhi. Gli unici che ne sono esenti – non certo per la loro volontà e non per caso: fidatevi, di nuovo – sono i cittadini russi, cui le televisioni provano quanto più possibile a nascondere ciò che sta succedendo a persone che hanno la sola sfortuna di essere nate dalla parte sbagliata di una linea immaginaria.
Eppure non dovremmo girare lo sguardo. Anzi, dovremmo provare a stamparci quell’orrore nella mente. Per non dimenticarcelo mai. Per fare in modo che sia l’antidoto al veleno, l’anticorpo che ci liberi dalla malattia della guerra, una volta per tutte o almeno per un po’. Perché sì, sappiamo che la guerra fa schifo, ma noi che non l’abbiamo mai vissuta lo sappiamo per sentito dire, o perché ce l’hanno insegnato da piccoli. Per noi la guerra sono puntini verdi che illuminano a giorno il cielo di Baghdad, ripreso da telecamere a infrarossi. È un ponte bombardato a Mostar o qualche chiazza di sangue in una fredda mattina di sole in un mercato a Sarajevo. È una bambina che corre nuda su una strada tra le risaie dei Vietnam. È qualche filmato d’archivio della seconda guerra mondiale. Fine.
Non abbiamo idea, né dimensione dell’orrore che è stata la pulizia etnica di Srebrenica, o il genocidio in Ruanda, o i massacri in Cecenia, o anche solo quanto sta accadendo ora, mentre lo ignoriamo, nel Tigray o nel Sahel, in Africa. Sono guerre che non esistono, e che in fondo non sono mai esistite, edulcorate dalla loro invisibilità, e dal nostro ipocrita pudore.
Questa guerra in Ucraina riverbera davanti ai nostri occhi tutto l’orrore di tutte le guerre. Quelle che minimizziamo, perché non vogliamo accogliere a casa nostra le vittime. Quelle che neghiamo esistano perché siamo noi ad averle provocato, armando le fazioni l’una contro l’altra. Quelle che chiamiamo giuste, o umanitarie, o preventive. O addirittura, quelle che chiamiamo peacekeeping, mantenimento della pace, come nemmeno il miglior Orwell avrebbe potuto prevedere.
Se i macelli avessero le pareti di vetro saremmo tutti vegetariani, diceva Linda McCartney. Se le guerre avessero le pareti di vetro, saremmo tutti pacifisti, potremmo parafrasarla. Ecco: questa guerra ha le pareti di vetro. Facciamone tesoro, almeno noi che abbiamo la fortuna di guardarla, per ora, da fuori.