È brutto, è cattivo, è crudele dirlo. Ma la commemorazione dell’11 settembre c’è già stata.
L’hanno messa in scena i talebani di Kabul, giusto vent’anni dopo le stragi compiute negli Usa da Osama bin-Laden, l’uomo che proprio loro ospitavano e proteggevano. Non ci dice tutto ciò che c’è da sapere su questi vent’anni della nostra storia, il loro ritorno al potere, il tono beffardo con cui, proprio il giorno 11 di questo settembre, hanno deciso di solennizzare il nuovo Governo di terroristi, dinamitardi, ricercati e amici di Osama?
Non crediate che chi scrive non abbia quel giorno nel cuore, indimenticabile. Ero a Erevan, in Armenia, per scrivere un pezzo sul Paese che si apprestava a ospitare (dal 25 al 27 settembre) papa Giovanni Paolo II. Tornai in albergo con un collega. Arrivai alla porta della camera e il telefono già squillava. Era il collega, che urlava nella cornetta: guarda la Cnn, guarda la Cnn! Perplesso, accesi il televisore e sotto i miei occhi un aereo centrò la seconda Torre, e via via tutto il resto. Vedevo ma non percepivo. Mi ci vollero ore per capire. Il giorno dopo, all’alba, avevo il volo di ritorno. Una mattinata passata aggrappato al sedile perché avevo paura, come se anche la mia destinazione fosse un grattacielo pieno di gente.
Se cadiamo nella trappola della commozione, però, non usciremo mai dall’equivoco che ha funestato questi due decenni. Negli Usa, l’11 settembre del 2001, morirono in poche ore 2996 persone originarie di 90 diversi Paesi. Al-Qaeda aveva già colpito duramente in Africa, in Asia e in Medio Oriente, quindi quella non era la sua prima strage. Era, però, il primo attentato davvero globale: realizzato da una parte all’altra del mondo e con vittime che, in pratica, coinvolgevano l’intera comunità internazionale. Chi dunque voleva o poteva sottrarsi alla chiamata della “war on terror”, la guerra al terrorismo che George W. Bush dichiarò subito dopo gli attentati? Nessuno quindi obiettò alla spedizione contro l’Afghanistan, iniziata il 7 ottobre del 2001, cioè contro un Paese che aveva un regime orribile come quello dei talebani e che era diventato il santuario della più potente e pericolosa organizzazione del terrorismo islamista? Chi avrebbe potuto dire allora, o potrebbe dire oggi, che quell’attacco non era motivato, persino sacrosanto?
Guerra al terrorismo, dunque. Da un lato tutti i Paesi politicamente, economicamente, tecnologicamente, finanziariamente, militarmente più sviluppati. Dall’altro qualche centinaio di terroristi con due armi: una quantità enorme di volontari e un sacco di quattrini forniti da donatori importanti. Ma ecco che l’incredibile si materializza sotto i nostri occhi. Più lo combattiamo, più il terrore cresce. Più ci impegniamo a eliminarli, più quelli ammazzano. La guerra al terrore è un disastro in cui il più forte le prende dal più debole. Per capirlo basta scorrere i dati che importanti centri studi (Global Terrorism Index, Chicago Project on Security and Terrorism, Global Terrorism Database…) hanno raccolto in anni di osservazione. Tra il 2001 e il 2011, per esempio, i numeri di morti per mano del terrorismo jihadista cresce di 9 volte. Nel 2011 muoiono di jihadismo 8 mila persone, nel 2013 già 18.100 e nel 2014 ben 32.600. Nel solo 2015, e solo per mano dell’Isis, muoiono 6 mila persone per atti di terrorismo e altre 20 mila sui campi di battaglia, spesso civili ammassati nelle fosse comuni che scopriremo più tardi. Nel mondo gli attacchi suicidi crescono del 39% nel 2003, dell’88% nel 2004, del 103% nel 2005. Calano di un nulla nel 2006 e poi riprendono a salire: più 55% nel 2007, più 14% nel 2012, più 48% nel 2013, più 18% nel 2014. E sono passati anni e anni dalle Torri Gemelle e dall’inizio della guerra al terrorismo.
Com’è potuto succedere? Due le ragioni, che dovremmo avere stampate in mente mentre il cuore si contrae al pensiero di quelle tremila vite bruciate l’11 settembre, delle famiglie annichilite, dell’eroismo vano dei passeggeri che cercarono di strappare il controllo dell’aereo ai kamikaze e si schiantarono con loro in Pennsylvania, della retorica a buon prezzo che subiamo in queste ore.
La prima ragione è che la guerra al terrorismo divenne ben presto tutt’altro. Il 29 gennaio del 2002, ovvero poche settimane dopo le Torri Gemelle, George W. Bush pronunciò un discorso sullo stato dell’Unione in cui parlò della necessità di combattere “l’asse del male” costituito da Corea del Nord, Iran e Iraq (più tardi fu aggiunta la Siria). La guerra al terrorismo, dunque, cedeva il posto a un progetto politico per ridisegnare il mondo, e soprattutto il Medio Oriente, secondo i desideri di un pugno di Paesi capitanati dagli Usa. Si noti il messaggio tra le righe: “asse”, come quello formato da Giappone, Germania e Italia contro gli “alleati” durante la seconda guerra mondiale. E “male” come in “impero del male”, la famosa definizione dell’Urss usata da Ronald Reagan.
Nessuno dei Paesi finiti sulla lista nera aveva a che fare con Al-Qaeda o con i suoi attentati. Mentre invece molto avevano a che fare con essi certi Paesi che invece l’Occidente teneva (e tiene tuttora) ben stretti come preziosi alleati. Per esempio l’Arabia Saudita, che al finanziamento dell’islamismo radicale in giro per il mondo aveva dedicato, anche prima delle Torri, somme enormi. Hillary Clinton, all’epoca segretario di Stato degli Usa, il 30 dicembre 2009 scrisse una famosa mail ai suoi collaboratori, mail poi hackerata e diffusa da Wikileaks. Scriveva: “L’Arabia Saudita resta una base decisiva di supporto finanziario per Al-Qaeda, i talebani e altri gruppi terroristici… i donatori privati dell’Arabia Saudita costituiscono la più significativa fonte di finanziamento per i gruppi del terrorismo sunnita nel mondo…. È una sfida senza fine convincere le autorità saudite ad affrontare il finanziamento ai terroristi che nasce nel loro Paese”. D’altra parte due anni prima Stuart Levey, vice ministro del Tesoro con la delega sull’intelligence e i reati finanziari, aveva dichiarato in Tv: “Se potessi schioccare le dita e tagliare ai terroristi i finanziamenti di uno specifico Paese, sceglierei senz’altro l’Arabia Saudita”. Lista nera? Sanzioni? Macché. Pochi mesi dopo la mail della Clinton, nel marzo 2010, gli Usa di Barack Obama approvano la più grande vendita di armi della storia Usa a un singolo Paese. E questo Paese è… indovinato, proprio l’Arabia Saudita. Ci vorrà Donald Trump per fare di meglio, anzi di peggio.
In queste condizioni la lotta al terrorismo, la giustizia da rendere ai 2996 morti dell’11 settembre, diventava semplicemente impossibile. Venne l’Iraq, invaso dagli anglo-americani dopo la farsa sulle armi di distruzione di massa il 20 marzo 2003. E poi la Libia, la Siria. I conti con il terrorismo abbiamo cominciato a regolarli molto dopo le Torri Gemelle e solo grazie ai terroristi. Finché erano figure nell’ombra finanziate da coloro che trattavamo da amici, risultavano imprendibili e ci infliggevano stragi come quella di Atocha a Madrid, del metro di Londra, delle località turistiche dell’Egitto. Quando scioccamente decisero di metter su uno Stato tra Siria e Iraq, immobilizzandosi come bersagli, segnarono la propria fine. Nella guerra tra Stati non potevamo proprio perdere.
In fondo a questo filo di pensieri, quindi, resta la beffa atroce dei talebani, che hanno scelto proprio l’11 settembre per insediare il loro Governo di dinamitardi, terroristi e vecchi compagni di Osama bin-Laden. E la convinzione, non meno atroce visto quanto è successo in questi anni, che abbiamo buttato via il sacrificio dei morti dell’11 settembre, l’abbiamo sprecato. Avevamo tutto, in quel momento: la ragione era dalla nostra parte, le motivazioni erano forti, c’era un vasto consenso internazionale, i valori erano saldi e comprensibili, le risorse finanziarie e tecnologiche abbondavano. L’Occidente liberal-democratico avrebbe potuto fare cose enormi per tanti altri popoli. Giudicate voi, ora.