Sono quasi due mesi che il subcontinente indiano è nella morsa di un caldo senza precedenti: negli ultimi 60 giorni in diverse città dell’India e del Pakistan il termometro ha superato a più riprese la soglia dei 45 gradi, finché lo scorso aprile a Jacobabad si sono registrati 49 gradi, una temperatura record per la stagione primaverile. In questi giorni nella città pakistana si toccano picchi di 51 gradi: questo, unito alla scarsità di piogge e al fatto che molti degli alberi urbani negli ultimi anni sono stati tagliati, fa di Jacobabad una delle più invivibili del pianeta.
A temperature simili è difficile fare qualsiasi cosa, compreso dormire. Chi ha la disponibilità economica per farlo (pochi) nel periodo più caldo si sposta in luoghi più freschi, la maggioranza delle persone però è costretta a restare in città, e spesso a lavorare all’aria aperta senza alcun tipo di tutela. Intendiamoci, le ondate di caldo nel subcontinente indiano non sono una novità, mai però era successo che si presentassero temperature simili a inizio marzo.
Il risultato è che da due mesi a questa parte il caldo ha trasformato le città di questa zona in un inferno invivibile. E quando dico “invivibile” non sto utilizzando un’iperbole: le cinque ondate che hanno travolto l’India e il Pakistan hanno messo in crisi ogni aspetto della vita umana: perdita di raccolti, foreste in fiamme, continui cedimenti nella rete energetica e idrica, per non parlare delle conseguenze sulla salute delle persone. Si calcola che da marzo a oggi in India e in Pakistan siano già morte più di 90 persone per colpa del caldo; solo nell’ospedale civile di Jacobabad ne vengono ricoverate in media 50 ogni giorno per colpo di calore. Per capirci: fa così caldo che in alcune città gli uccelli sono così disidratati che muoiono d’infarto mentre volano, per poi schiantarsi sulle strade e sui tetti delle case.
La situazione è drammatica e, purtroppo, destinata a diventare sempre meno insolita. Quanto sta avvenendo nel subcontinente indiano oggi non è infatti un evento eccezionale, è anch’esso uno dei prodotti della crisi climatica in cui ci troviamo.
Cosa sta succedendo e perché ci riguarda tutti
Si parla di ondata di caldo quando un sistema di alta pressione atmosferica si sposta su un’area e ci resta per più di due giorni. In un sistema simile l’aria degli strati superiori della nostra atmosfera viene spinta verso il basso dove finisce per comprimersi e aumentare di temperatura. La concentrazione di pressione rende difficile ad altri sistemi muoversi nella stessa area, inoltre inibisce i venti e lo spostamento di nuvole: per colpa di questa combinazione di fattori il sistema ad alta pressione può quindi rimanere svariati giorni nella stessa area, riscaldandola fino a raggiungere temperature molto più alte della norma.
Fenomeni di questo tipo si sono sempre verificati, ma la crisi climatica li sta rendendo più frequenti. Settimana scorsa, il gruppo di ricerca World Weather Attribution ha pubblicato i risultati di uno studio che dimostra che già oggi, a causa del riscaldamento globale di 1,2 gradi rispetto ai livelli pre-industriali, le ondate di caldo nel subcontinente indiano sono 30 volte più frequenti. “Con il proseguire del riscaldamento globale” scrivono gli autori dello studio “le ondate di caldo intenso saranno sempre più comuni. Se davvero il pianeta arriverà a toccare i 2 gradi centigradi sopra i livelli pre-industriali, questi fenomeni saranno addirittura 20 volte più probabili di ora, con temperature anche di 1,5 gradi superiori a quelle attuali”.
Ma in che modo il riscaldamento globale influisce su questi sistemi ad alta pressione? Per capirlo dobbiamo tenere conto del fatto che le ondate di caldo, così come altre perturbazioni atmosferiche, sono oggi regolate dalle correnti a getto, ossia veloci flussi d’aria canalizzati che circondano il nostro pianeta scorrendo da ovest a est. La velocità di queste correnti influisce direttamente sulla capacità di questi sistemi ad alta pressione di rimanere a lungo in una stessa area: più è veloce la corrente a getto, meno è probabile che si formino questi blocchi. Il problema è che la velocità delle correnti a getto è direttamente proporzionale alla differenza di temperatura tra l’equatore e i poli, e siccome l’Artico si sta riscaldando a velocità doppia (se non tripla) rispetto all’equatore, la corrente a getto polare sta rallentando, rendendo così più facile la persistenza delle ondate di caldo.
È facile allora intuire che, se anche oggi le ricadute peggiori di questo fenomeno le stanno affrontando le popolazioni di India e Pakistan, questo non significa che il problema non riguardi anche il resto del mondo.
Perché un’India che brucia non ci preoccupa come dovrebbe
In questi due mesi, l’ondata di caldo epocale nel subcontinente indiano ha faticato a trovare spazio nei media occidentali, come nella nostra lista di preoccupazioni: questo per una serie di ragioni. Una è che siamo abituati a derubricare questi fenomeni come eventi eccezionali, osservando il nostro obbligatorio minuto di rammarico per persone che vivono in luoghi che consideriamo esotici e lontani. C’è del colonialismo introiettato, in questa cecità selettiva, ma anche una serie di limiti cognitivi del tutto umani.
Abbiamo la tendenza, ad esempio, a credere che il mondo in cui viviamo non possa cambiare più di tanto (bias di normalità), che se anche una catastrofe è possibile colpirà altri prima di noi (bias di ottimismo), e a peggiorare ulteriormente le cose c’è il fatto che, quando si tratta di valutare le ricadute del cambiamento climatico, tendiamo a essere temporalmente pessimisti e spazialmente ottimisti. Siamo cioè inclini a credere che le cose peggioreranno in futuro, ma anche che la situazione sarà nettamente più sicura nel posto in cui ci troviamo.
Un’altra ragione riguarda il modo in cui questi eventi ci vengono raccontati: parlare di “caldo eccezionale”, di “ondata record”, ponendo l’accento sulla straordinarietà di questi eventi e senza metterli in relazione al riscaldamento globale, non fa altro che rafforzare le barriere cognitive che ci impediscono di comprendere la portata della crisi climatica.
Il che è drammatico, considerando che un’altra ragione per cui il caldo disumano che ha messo in ginocchio Jacobabad non ci preoccupa così tanto ha a che fare con la nostra incapacità a considerare la questione climatica nella sua complessità: a differenza di tutte le problematiche che siamo abituati a gestire, la crisi climatica è sfaccettata, interconnessa, distribuita nello spazio e nel tempo, inoltre abbraccia ogni singolo aspetto della nostra esistenza. Non siamo in grado di inquadrarla in un solo sguardo, possiamo solo registrarne alcune manifestazioni, che sciaguratamente però ci appaiono come isolate. Facciamo una fatica tremenda, per dire, a mettere in relazione un’alluvione senza precedenti in Belgio, con un’ondata di calore in Turchia o con l’aumento degli incendi in Australia: ci appaiono tutti come eventi eccezionali e scollegati. Se riuscissimo a metterli automaticamente in relazione, ci risulterebbe molto più chiaro il guaio in cui ci troviamo.
Un’anticipazione di ciò che ci aspetta
Lo scorso 21 maggio, l’economista britannico Umair Haque ha pubblicato un pezzo intitolato “The age of extinction is here – some of us just don’t know it yet”, in cui spiegava come quanto sta accadendo in India e in Pakistan altro non è che un’anticipazione di ciò che avverrà in tutto il mondo: “Immaginate un buco nero, con l’umanità che ci marcia in fila davanti.” scrive Haque “Alcuni sono in testa alla fila e raggiungono l’altra parte per primi. Altri sono in coda alla fila, e ancora ridono, scherzano e fingono che tutto vada bene. Nessuno si accorge di chi è già passato dall’altra parte, perché è un buco nero, ciò che vi entra non fa rumore. Ma una volta oltrepassato, nulla sarà più come prima.”
È una metafora semplicistica e un po’ forzata, ma dà l’idea della situazione in cui ci troviamo. Perché è vero che abbiamo già oltrepassato un punto di non ritorno, e continueremo ad oltrepassarne negli anni a venire.
Una dimostrazione di ciò l’abbiamo avuta nell’agosto del 2021, quando un’ondata di caldo ha investito l’Europa creando condizioni non troppo lontane da quelle che stiamo osservando nel subcontinente indiano: in Grecia il termometro ha superato quota 48, mentre altre nazioni (come Cipro, l’Italia e la Finlandia) erano punteggiate da un numero record di incendi incontrollati. Non è detto che anche l’estate del 2022 sarà interessata da una cupola di calore analoga, quello che è certo è che ondate di caldo di questo tipo saranno sempre più probabili, così come lo saranno altri eventi estremi come le alluvioni. La situazione sarà particolarmente problematica nelle grandi città: come ha sottolineato un rapporto pubblicato a settembre dal Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici (CMCC), negli ultimi anni città come Milano, Roma, Torino, Napoli, Bologna e Venezia hanno registrato un aumento significativo della temperatura media, soprattutto a causa di un’eccessiva cementificazione che va a rendere difficile dissipare il calore accumulato; negli anni a venire la situazione è destinata a peggiorare.
Umair Haque, nel suo pezzo, annuncia che quanto sta accadendo ora in India si ripresenterà in futuro in tutto il resto del mondo. È una semplificazione un po’ rischiosa, perché le ricadute della crisi climatica seguiranno dinamiche diverse (seppur analoghe) nei vari luoghi del mondo. Però ha ragione quando dice che verso quel buco nero ci stiamo marciando tutti a velocità diverse. Per parafrasare William Gibson: “Il futuro è già qui, ma non è distribuito uniformemente.”