Nelle mie precedenti analisi sulla situazione sul campo in Ucraina, ho più volte concluso affermando che il vero tallone di Achille per Kyiv è la sua dipendenza dagli aiuti occidentali, e che questa sta diventando sempre di più una guerra ibrida di Mosca contro l’Occidente, dove alla fine vincerà chi sarà in grado di resistere maggiormente rispetto all’altro.
Ciò è diventato ancora più vero adesso che Mosca sembra essere disposta disposta ad usare, costi quel che costi, la sua arma finale: ovvero tagliare le forniture del gas ai Paesi europei, per obbligare i Paesi occidentali a cambiare atteggiamento verso la Russia e soprattutto porre fine al loro supporto verso l’Ucraina.
Si tratta a tutti gli effetti di una “guerra ibrida” scatenata dalla Federazione Russa contro l’Occidente, progettata per erodere la fiducia delle opinioni pubbliche nei propri governi, scatenare rivolte sociali a causa del caro prezzi e cercare così di indebolire e dividere l’Alleanza Atlantica e l’Unione Europea che finora si sono dimostrate straordinariamente unite nel proprio supporto verso Kyiv.
La Russia si sente in guerra contro l’Occidente
Prima di entrare nel dettaglio, occorre analizzare il modo in cui l’élite russa e soprattutto il presidente Vladimir Putin percepiscono l’andamento di questa guerra.
Incapace di comprendere come la resistenza ucraina possa aver fermato la possente armata russa invece di accogliere i russi con i fiori come liberatori, Putin e la sua armata di propagandisti in Russia hanno spiegato che il motivo di questo “temporaneo” rallentamento è l’interferenza occidentale in Ucraina, ma promettendo che comunque alla fine la Russia otterrà i suoi obiettivi.
Putin ha persino coniato un termine, quello di “Occidente collettivo”, per designare ciò che considera il vero nemico della Federazione Russa in questo scontro epocale che ha sempre più i toni di una nuova “grande guerra patriottica”, così come i russi definiscono la Seconda guerra mondiale e la lotta contro il nazismo.
Per Putin, l’Occidente collettivo e soprattutto quello che ne definisce il Paese egemone, gli Stati Uniti, sono impegnati in uno scontro aperto contro la Russia atto ad impedire a questa ultima di adempiere al suo ruolo di grande potenza, e contestualmente difendere l’egemonia occidentale sempre più in declino in tutto il mondo.
I recenti movimenti americani nel Pacifico con la creazione di un blocco in funzione anticinese (AUKUS) e la visita di Pelosi a Taiwan, agli occhi del Cremlino, sono ulteriori conferma della “strategia voluta degli Stati Uniti per destabilizzare e creare caos in questa regione e nel mondo” e della “mancanza di rispetto da parte di Washington per la sovranità degli altri Paesi ed i propri obblighi internazionali”.
In questo contesto, secondo Putin, “la situazione in Ucraina mostra chiaramente come gli Stati Uniti intendano portare avanti il conflitto il più possibile” a scapito della stessa popolazione ucraina, o come dicono i propagandisti russi, “combattendo fino all’ultimo ucraino”.
A supporto di tale affermazione, Mosca punta il dito sugli aiuti militari forniti a Kyiv sotto forma di armi avanzate da parte dell’Occidente, in particolare gli HIMARS che hanno permesso all’Ucraina di fermare l’avanzata russa nel Donbass e creare una situazione di stallo che va avanti ormai da almeno due mesi.
Proprio in questi giorni, il Viceministro degli Esteri russo, Sergey Ryabkov, ha alzato i toni della retorica sostenendo che "ormai c'è solo una sottilissima linea a separare gli Stati Uniti dal diventare una parte in conflitto" a tutti gli effetti e che “nulla rimarrà immutato” nei rapporti tra le due potenze.
È quindi sempre più evidente che Mosca consideri la sua “operazione militare speciale” in Ucraina come proxy di una guerra contro l’Occidente che non può essere combattuta a tutti gli effetti solo perché si trasformerebbe in un Olocausto nucleare dove nessuna delle due parti ne uscirebbe vincitore.
Ne consegue che il campo di battaglia di questa guerra sta diventando sempre di più quello economico e sociale, ed il fattore chiave la capacità di resistenza delle due parti in causa.
L’intento del Cremlino sta diventando sempre di più quello di trasformare questa guerra in un lungo scontro contro l’Occidente, contando sul fatto che, messi con le spalle al muro dalla crisi energetica, l’alta inflazione e la crisi economica, i governi occidentali saranno alla fine costretti a fare un passo indietro e fare pressioni su Kyiv affinché accetti una pace alle condizioni di Mosca, per evitare rivolte di piazza.
In sintesi, quindi, la strategia russa è quella di cercare di vincere altrove una guerra che non si è più in grado di vincere militarmente sul campo, contando sul collasso economico dell’avversario, e sulla propria innata capacità di sopportazione. Ma proprio per questo, rappresenta un ricatto a cui bisogna opporsi a tutti i costi.
Le sanzioni contro la Russia sono efficaci?
Una delle falsità che si sentono spesso dire in giro è che le sanzioni imposte dall’Occidente contro la Russia non stiano ottenendo alcun effetto. Questa frase è ripetuta sempre più spesso da coloro che chiedono di porre fine al supporto occidentale verso l’Ucraina e di aprire trattative con Mosca.
Ma quanto c’è di vero in queste affermazioni? La Russia ha sicuramente dimostrato una capacità di assorbimento delle sanzioni maggiore di quella che molti esperti occidentali ritenevano inizialmente. Ciò è stato dovuto anche alla loro preparazione – è almeno dal 2014, ovvero dall’annessione della Crimea, che le autorità russe si preparavano a questa eventualità.
In particolare, Mosca è stata aiutata dal fatto che i prezzi dell’energia al momento restano così elevati, permettono loro di continuare ad ottenere ricavi sostanziali (con cui finanziare in parte le maggiori spese militari dovute alla guerra in Ucraina) nonostante gli effetti delle sanzioni.
Inoltre, il rublo russo, che nei primi giorni di guerra era crollato ai minimi, si è poi ripreso fortemente fino a raggiungere un tasso di cambio verso il dollaro e l’euro che non si vedeva da anni, grazie ad una intelligente politica monetaria portata avanti dalla Banca Centrale russa. Questi risultati sono stati propagandati in continuazione come la prova del “fallimento del blitz” economico occidentale contro la Russia.
Ma se si analizzano le cose più in profondità, si può notare come l’economia russa stia in realtà soffrendo lo stesso pesanti conseguenze dalle sanzioni e soprattutto che la situazione non farà altro che peggiorare nel tempo.
Ormai non passa un giorno prima che qualche grande azienda internazionale non annunci il suo abbandono dal mercato russo. Alcune multinazionali occidentali sono state persino disposte a svalutazioni drammatiche delle proprie partecipazioni pur di liberarsi il prima possibile delle proprie attività in Russia, tanto tossica la presenza nel mercato è diventata per la loro immagine e per il proprio business.
Tutto ciò sta necessariamente comportando effetti collaterali come il taglio degli investimenti e dei posti di lavoro in Russia. Nonostante il tasso di disoccupazione ufficiale sia fermo al 3,9%, il numero di russi che si trovano in aspettativa è in costante aumento. Ed i disoccupati hanno già raggiunto la ragguardevole cifra di 3 milioni di persone.
L’industria automobilistica, a lungo un simbolo del successo russo, è stata quella maggiormente colpita: le grandi aziende internazionali (Volkswagen, Nissan, Hyundai, Stellantis, Mitsubishi e Volvo) hanno sospeso le proprie attività in Russia (ed in alcuni casi stanno pensando di ritirarsi definitivamente) mettendo in aspettativa più di 14 mila lavoratori qualificati.
Una delle principali aziende automobilistiche russe, Avotvaz, ha visto le sue vendite crollare del 63% nei primi 7 mesi dell’anno ed è costretta ora a costruire nuove auto senza aria condizionata, ABS, controllo elettronico della stabilità e airbag per via della carenza di componenti e materie prime a causa delle sanzioni decise dall’Occidente
Non va certo meglio per il settore aeronautico che, in mancanza della fornitura di pezzi di ricambio dall’estero, è costretta di fatto a “cannibalizzare” le proprie flotte aeree per compiere la manutenzione necessaria per far volare in sicurezza i propri aerei.
A tutto questo occorre aggiungere anche il fatto che a causa delle sanzioni Mosca ha perso anche l’accesso a fondamentali forniture di chip e sistemi tecnologici che impattano direttamente la capacità russa di rifornire le truppe in battaglia al fronte di sistemi militari avanzati.
Ad esempio, a causa della mancanza di componenti di provenienza occidentale, di recente due dei principali stabilimenti di produzione di carri armati di ultima generazione – Uralvagonzavod Corporation e Chelyabinsk Tractor Plant – hanno dovuto sospendere temporaneamente le proprie attività.
Anche gli stabilimenti per la produzione di missili hanno problemi ad ottenere i chip necessari per i sistemi di guida satellitare: tutto questo significa che Mosca diventa sempre più dipendente dall’uso in battaglia di sistemi datati, oppure di provenienza cinese. Ma anche Pechino non è in grado di sostituire totalmente le forniture occidentali, a causa del rischio di sanzioni secondarie.
In questo contesto, anche le stime più ottimiste sull’andamento dell’economia russa nel 2022 parlano di una discesa del PIL di non meno di 6 punti percentuali, più pesante del crollo economico del 1998 che aveva portato la Russia di Boris Eltsin sull’orlo del default ed aperto la strada all’ascesa politica di Vladimir Putin al Cremlino.
Secondo diversi analisti il momento più difficile sarà il primo trimestre del 2023, e questa discesa sarà poi seguita da una lunga stagnazione, prima che la Russia possa tornare a crescere economicamente. Insomma, se tutto va bene si tratta di anni persi per un Paese che già non brillava economicamente in precedenza.
A controprova di tutto quanto appena detto, c’è l’atteggiamento stesso della leadership russa quando si parla di sanzioni: se da una parte si afferma ufficialmente che le sanzioni hanno fallito miseramente il proprio obiettivo, dall’altra parte ogni discorso è infarcito di accuse e minacce contro l’Occidente proprio a causa di queste ultime.
La domanda, dunque, sorge spontanea: per quale motivo la Russia spinge a tutti i costi per ottenere la cancellazione delle sanzioni se non hanno avuto alcun effetto, come Mosca ci vuole far credere?
Le sanzioni europee sull'energia
È arrivato il momento quindi di sfatare un mito: spesso si afferma che l’Europa si è voluta far male da sola imponendo delle sanzioni sul settore energetico che non è in grado di sostenere per i danni che hanno già causato alle proprie economie.
Non è così: anzitutto le sanzioni approvate sul settore energetico sono state limitate sul settore petrolifero e non su quello del gas che è molto più importante per l’Europa.
Inoltre, tali sanzioni entreranno in vigore solo nel mese di dicembre. Solo allora, infatti, l’Unione Europea bloccherà circa il 90% della propria importazione petrolifera dalla Russia, e questo causerà un taglio previsto della produzione petrolifera russa fino a 2,3 milioni di barili al giorno, un dato imponente per un Paese che dipende quasi interamente dalle sue esportazioni energetiche.
Prima della guerra, l’Europa era infatti il principale mercato per l’esportazione del petrolio russo: nel 2021 circa metà di tutte le esportazioni petrolifere e di prodotti derivati dal petrolio russo sono andate in Europa, contro il 31% in Cina e circa l’1% in India. Nel solo mese di gennaio 2022, l’ultimo prima della guerra, l’Europa da sola ha importato dalla Russia poco più di 4 milioni di barili di petrolio e prodotti petroliferi al giorno.
Non sarà facile per la Russia trovare delle alternative: le forniture verso il mercato asiatico, che sono aumentate drammaticamente rispetto allo scorso anno, si sono già ridotte rispetto ai primi mesi, e la mancanza di infrastrutture chiave come gli oleodotti verso questi Paesi non farà altro che peggiorare le cose.
Secondo una stima della società di analisi Rystad Energy, anche nel migliore dei casi la Russia sarà in grado di trovare acquirenti solo per 1 milione di barili al giorno, vale a dire meno della metà di quelli persi.. L'India e la Cina, i principali potenziali acquirenti alternativi di petrolio russo, hanno infatti altri fornitori in Medio Oriente e non possono ritirarsi da quei contratti facilmente.
Inoltre, le sanzioni imposte dall’Unione Europea e dal Regno Unito hanno come intento anche quello di colpire anche un altro elemento chiave del mercato petrolifero per danneggiare la Russia: è stato infatti imposto anche il divieto delle assicurazioni per le navi che trasportano petrolio russo via mare.
"La Cina è già al limite della capacità e non ci sono infrastrutture disponibili per trasportare li ulteriore petrolio. L'India ha già aumentato le sue importazioni a 1 milione di barili giornalieri. Il trasporto marittimo diventa essenziale in questo scenario, ed è per questo che le sanzioni diventano fondamentali per ridurre il reindirizzamento delle esportazioni di petrolio russo”, afferma Roger Diwan, viceresponsabile della ricerca e dell'analisi sull'upstream di S&P Global Commodity Insights.
È vero, la Russia può cercare di aggirare le sanzioni usando degli intermediari per mascherare il Paese di origine del greggio e dei prodotti petroliferi mescolandoli con petrolio di altri Paesi e dando alla miscela un nuovo nome.
Monitorare le potenziali elusioni dell'embargo non sarà facile. Ad esempio, il petrolio dei giacimenti kazaki esportato dal porto di Novorossijsk potrebbe essere facilmente mescolato con quello russo.
Un altro segnale che i fornitori stanno cercando di eludere le sanzioni in questo senso è l'enorme aumento di petroliere che trasportano petrolio russo e che negli ultimi mesi hanno spento i loro dispositivi di tracciamento.
Ma anche tutte queste scappatoie non basteranno, alla lunga, per evitare il pesante impatto di queste sanzioni sul bilancio russo. I proventi del petrolio e del gas restano infatti di gran lunga la principale fonte di reddito del bilancio federale della Russia.
Nonostante le numerose dichiarazioni delle autorità, Mosca non è riuscito a liberarsi dalla "dipendenza da petrolio" quando è iniziata la guerra delle sanzioni con l'Occidente.
Nel 2021, l'energia rappresentava il 49% di tutti i proventi delle esportazioni (243,8 miliardi di dollari) e le entrate da petrolio e gas rappresentavano il 36% del bilancio federale.
Nel 2022, la dipendenza del bilancio dalle esportazioni energetiche non ha fatto che aumentare, grazie al fatto che le entrate da petrolio e gas sono cresciute grazie agli alti prezzi del petrolio (nonostante il petrolio degli Urali sia più economico del Brent di 30-35 dollari al barile per tenere conto dei rischi delle sanzioni), ed al contemporaneo crollo delle altre fonti di ricavo a causa della situazione economica.
Ad aprile, i ricavi delle esportazioni di petrolio e gas hanno raggiunto 1,8 trilioni di rubli (29 miliardi di dollari) rispetto ai 1,2 trilioni di rubli (19,5 miliardi di dollari) di marzo, e la quota di ricavi sul bilancio federale è salita così al 63%.
Tutto questo espone ovviamente il bilancio russo a seri rischi di sostenibilità nel caso in cui i prezzi dell’energia dovessero scendere in futuro – ed i prezzi non potranno ovviamente continuare a restare così alti per sempre.
Infine, anche l'isolamento tecnologico dovuto alle sanzioni farà la sua parte: le aziende petrolifere russe saranno infatti sempre meno in grado di realizzare progetti complessi come l'estrazione di petrolio da riserve difficili da recuperare.
In assenza di investimenti e di tecnologia straniera, l'attività di perforazione diminuirà e la produzione di petrolio potrebbe calare fino al 17% già entro la fine del 2022, secondo alcune stime.
La guerra del gas
Uno dei motivi per il quale l’Europa ha imposto sanzioni sul settore petrolifero invece che sul gas è il fatto che la dipendenza della Russia dal gas è la metà di quella dal petrolio: nel 2021, le esportazioni di petrolio rappresentavano il 22,4% delle esportazioni totali del Paese in termini monetari; il gas naturale solo l'11,3%.
Viceversa, il gas naturale proveniente dalla Russia è di importanza cruciale per l’Europa: nel 2021, i Paesi dell'UE ne hanno acquistato 155 miliardi di metri cubi, pari al 45% del gas totale importato dall'Europa e a circa il 40% del suo consumo di gas.
Mosca lo sa benissimo ed infatti sin dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina ha giocato con le ansie europee sulle forniture di gas per fare pressioni sull’Unione Europea.
Si è iniziati subito in primavera con la decisione da parte di Mosca di imporre il pagamento delle forniture di gas in rubli, accettata obtorto collo dalle controparti europee dopo le minacce di Mosca, nonostante i dubbi sulla liceità contrattuale di tale richiesta. Poi in estate si è passati direttamente ai tagli alle forniture di gas.
Usando come giustificazione l’impossibilità di ricevere le turbine riparate necessarie per il funzionamento del gasdotto Nord Stream 1 a causa delle sanzioni, la Russia ha gradualmente tagliato le forniture di questo gasdotto chiave per le forniture della Germania fino al 20% del totale della capacità, nonostante le proteste occidentali e la decisione di implementare un waiver alle sanzioni proprio per consentire la consegna di queste turbine.
L’ultima scusa trovata dai russi per azzerare del tutto l’invio di gas è stata quella di aver riscontrato alcune perdite di carburante in una turbina che renderebbe troppo rischioso il funzionamento delle turbine di pompaggio del gasdotto e comprometterebbe quindi il suo funzionamento, come ha affermato il gigante dell’industria del gas russo, Gazprom, in una dichiarazione pubblicata venerdì 2 settembre.
Siemens Energy AG, la società tedesca che si occupa della riparazione delle turbine di Nord Stream 1, ha subito risposto a Gazprom affermando che si tratta di problemi normali e che non vede alcun motivo valido per fermare l’invio del gas a tempo indeterminato in attesa che la perdita sia aggiustata. Stessa posizione è stata espressa dalle autorità federali tedesche.
Ma qualunque sia il reale motivo dell'ultima azione di Gazprom, ci sono pochi dubbi sul fatto che la guerra del gas sia diventata una proxy della guerra in Ucraina e del risentimento russo per le sanzioni imposte dall’Occidente ed i piani di eliminazione graduale delle importazioni di gas e petrolio russo.
Mosca sta approfittando della vulnerabilità attuale dell'Europa a causa della sua dipendenza dal gas naturale russo, per cercare di far salire il prezzo del combustibile a livelli estremamente elevati in tutta Europa e diffondere i timori di una crisi energetica generalizzata quest'inverno.
La Russia è talmente determinata su questo aspetto da aver deciso di bruciare, in tono di sfida, il proprio gas alla stazione di compressione di Portovaya, vicino al confine con la Finlandia, piuttosto che spedirlo ai propri clienti finali europei.
Citando le analisi di Rystad Energy, la BBC ha riferito che ogni giorno vengono bruciati circa 4,34 milioni di metri cubi di gas dalle torri di combustione che sono utilizzate per bruciare il gas infiammabile rilasciato dalle valvole di sicurezza durante la sovrapressione delle apparecchiature dell'impianto. Parliamo letteralmente di milioni di dollari in fiamme.
Perché la Russia è costretta a bruciare il gas?
Miguel Berger, ambasciatore tedesco nel Regno Unito, ha dichiarato di recente a BBC News che gli sforzi europei per ridurre la dipendenza dal gas russo stanno "avendo un forte effetto sull'economia russa" e punta alla decisione russa di bruciare il gas come prova delle sue affermazioni: “Non hanno altri posti dove vendere il gas; quindi, sono costretti a bruciarlo rilasciandolo nell’atmosfera”.
Tutto questo è vero. E per spiegarne il motivo è arrivato il momento di sfatare un secondo mito: a differenza di quanto si dice spesso, per la Russia è, infatti, enormemente complesso trovare nuovi mercati per il gas, una volta deciso di fermare la fornitura di gas all’Europa.
Anzitutto Mosca ha iniziato a fornire gas all'Asia solo nel 2009 e il mercato europeo rimane di gran lunga molto più grande e redditizio.
Ma soprattutto, c’è un grosso problema logistico da risolvere. A differenza del petrolio che si può trasportare in maniera relativamente semplice sulle petroliere via mare ed essere immediatamente utilizzabile a destinazione, il gas può essere trasportato a destinazione solo in due modi: via gasdotto oppure sottoforma di gas naturale liquefatto (GNL).
Ma l’utilizzo di GNL comporta la necessità che anche il Paese che lo riceve sia dotato della strumentazione adatta per trasformare nuovamente il gas naturale in stato gassoso: si tratta dei cosiddetti rigassificatori, di cui tanto si parla da noi ultimamente durante la campagna elettorale, e di cui non tutti i Paesi sono dotati in gran numero.
La costruzione delle infrastrutture per il trasporto del gas non è un compito che può essere svolto da un giorno all'altro ed i gasdotti che la Russia dispone attualmente non hanno una capacità neanche lontanamente sufficiente per sostituire i volumi che il Paese vendeva all'Europa prima dell'invasione dell'Ucraina.
Questi sono i numeri in dettaglio: nel 2021 la Russia ha venduto circa 33 miliardi di metri cubi (bcm) di gas all'Asia, rispetto a un mercato europeo che di solito importa 160-200 bcm dalla Russia.
Due terzi del gas che la Russia ha inviato in Asia sono arrivati sotto forma di GNL: 14 miliardi di metri cubi dal progetto Sakhalin-2, destinati a Giappone, Corea, Taiwan e Cina, e 8,5 miliardi di metri cubi dal Yamal LNG, che serve soprattutto la Cina, ma anche Giappone, Corea, Taiwan e India (volumi minori sono stati destinati a Bangladesh, Indonesia e Singapore).
La Russia ha inoltre consegnato 10 miliardi di metri cubi alla Cina attraverso il gasdotto Power of Siberia, che è stato lanciato alla fine del 2019 e che a regime fornirà 38 miliardi di metri cubi all'anno.
Con le infrastrutture esistenti, dunque, al massimo la Russia potrebbe fornire 80 miliardi di metri cubi all'Asia, suddivisi tra gasdotti e GNL. Ma si tratta di volumi ancora lontani da quelli che la Russia esporta ogni anno in Europa.
Dovranno essere quindi costruiti nuovi gasdotti verso l'Asia per equiparare i volumi di gas venduti all'Europa, ma ci vorrà parecchio tempo.
La vera svolta per Mosca in questo sarebbe il gasdotto Power of Siberia 2 da 50 miliardi di bcm annuali, che, secondo il progetto, dovrebbe collegare i giacimenti della Siberia occidentale alla Cina. Sebbene la Russia promuova questo gasdotto da quasi un decennio, finora non è stato però firmato alcun contratto di fornitura con la Cina e la sua costruzione richiederebbe almeno 5 anni, secondo le migliori stime.
Nel migliore dei casi, dunque Power of Siberia 2 potrebbe entrare in funzione attorno al 2030, consentendo solo allora alle forniture di gas russo in Asia di avvicinarsi ai livelli del 2021 per l'UE.
Ma anche in questo caso, perdere il mercato europeo del gas rappresenterebbe un duro colpo per l’industria energetica russa. La Cina, infatti, già oggi tende a pagare il gas russo molto meno dell'Europa. Addirittura, tende a pagare meno la Russia che i fornitori dell'Asia centrale.
La Cina, inoltre, si è dimostrata meno disposta a permettere a Gazprom di costruire qualsiasi tipo di attività all'interno del Paese, a differenza dell'Europa dove Gazprom è riuscita nel tempo a creare una serie di joint venture.
Soprattutto, la quota di mercato della Russia in Asia resterà marginale anche in futuro. Persino quando Power of Siberia 2 raggiungerà la sua piena capacità, la Cina finirebbe per importare dalla Russia meno del 10% del suo fabbisogno di gas (la domanda cinese nel 2021 era di circa 367 miliardi di metri cubi e sta continuando a crescere rapidamente).
La Russia non avrà dunque mai ampio potere di mercato in Asia, certamente non al livello della sua posizione dominante attuale nel mercato europeo. Nel frattempo, non avendo accesso immediato a nessun mercato alternativo è costretta a bruciare milioni di metri cubi di gas ogni giorno.
La reazione occidentale: il tetto sui prezzi e il rischio di razionamenti
Nonostante i rischi a lungo termine per la Federazione Russa legati alla perdita del mercato europeo del gas appena esposti, se si guarda al breve termine per l’Unione Europea rinunciare al gas russo è un atto estremamente impegnativo e doloroso.
Stando alle stime rese note dal Fondo Monetario Internazionale, nel caso peggiore, l’impatto di un blocco totale delle forniture di gas russe potrebbe arrivare a raggiungere un drammatico crollo di 6 punti percentuali del PIL in alcuni Paesi dell'Europa centrale e orientale dove la dipendenza dal gas russo è elevata e le forniture alternative sono scarse, in particolare Ungheria, Repubblica Slovacca e Repubblica Ceca.
Anche la nostra Italia subirebbe un impatto significativo a causa dell'elevata dipendenza dal gas nella produzione di elettricità. Insomma, un taglio netto alle forniture di gas è l'ultima cosa di cui l'Europa ha bisogno in vista dell'inverno, quando la domanda di energia aumenta.
L’Unione Europea è stata già in grado di rispondere parzialmente alla minaccia aumentando le importazioni da fornitori alternativi (in particolare Algeria ed Azerbaigian) e raggiungendo a fine agosto l’obiettivo del riempimento dell’80% dei depositi di stoccaggio (inizialmente previsto per novembre), ma un ulteriore calo delle forniture di gas russo rischia lo stesso di far salire ulteriormente i prezzi del gas all'ingrosso, che a loro volta alimentano quelli al dettaglio che ci impattano più da vicino.
L'inflazione dei prezzi al consumo nei 9 Paesi che utilizzano l'euro ha raggiunto il 9,1% il mese scorso – il livello più alto degli ultimi 25 anni – secondo le prime stime dell'ufficio statistico dell'UE. I prezzi dell'energia sono stati il principale fattore di inflazione, con un aumento del 38% nell'anno fino ad agosto.
Con l’inverno in arrivo, ed il rischio di ulteriori drammatici aumenti dei prezzi dell’energia, nella settimana appena trascorsa i Paesi del G7 hanno quindi annunciato un meccanismo per imporre un tetto globale al prezzo del petrolio russo, che prevede il divieto di trasporto del petrolio russo se acquistato a un prezzo superiore a una certa soglia fissata in precedenza.
L'obiettivo dell'iniziativa è ridurre le entrate della Russia e la sua capacità di finanziare la guerra in Ucraina, riducendo allo stesso tempo al minimo l'impatto negativo di queste restrizioni sui Paesi a basso e medio reddito, più esposti all’aumento dei prezzi dell’energia.
La dichiarazione dei Ministri delle Finanze dei paesi del G7 afferma, nello specifico, che è stato raggiunto un accordo politico sull'introduzione di un “prezzo massimo” per il petrolio russo, ma il diavolo è nei dettagli, che al momento ancora mancano in gran parte.
Sulla base di ciò che si sa, il tetto massimo dovrebbe essere introdotto in concomitanza con l'entrata in vigore degli embarghi previsti dall'UE sul petrolio russo – vale a dire il 5 dicembre per il greggio e il 5 febbraio per i prodotti raffinati, come il diesel.
Il futuro livello del tetto è tuttavia ancora in fase di discussione e dovrebbe essere fissato con la partecipazione di una "ampia coalizione di Paesi", con il livello iniziale calcolato sulla base di "una serie di indicatori tecnici". I valori a cui sarà fissato il massimale saranno comunque annunciati pubblicamente.
Ma al momento è difficile pensare che anche i Paesi asiatici, che sono i principali acquirenti alternativi di petrolio russo e lo acquistano già a prezzo di sconto, abbiano incentivo ad unirsi a questa proposta che rappresenta una sfida aperta a Mosca. Inoltre, il Cremlino ha già fatto sapere che, in caso di effettiva introduzione di un tetto ai prezzi dell'energia, la Russia fornirà petrolio solo ai Paesi "che agiranno in base alle condizioni di mercato".
Tutto ciò, secondo alcuni analisti, potrebbe causare un effetto boomerang: ovvero che la proposta di tetto dei prezzi finisca per portare invece ad un aumento incontrollato dei prezzi del petrolio fino a raggiungere livelli record.
Allo stesso tempo, comunque, anche l’Unione Europea si sta muovendo separatamente anche per imporre un tetto al prezzo del gas: “È giunto il momento per l'UE di imporre un tetto massimo di prezzo al gas proveniente dalla Russia”, ha affermato senza mezzi termini la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen.
La questione della limitazione dei prezzi sarà discussa il 9 settembre nei colloqui tra i Ministri dell'Energia dell'UE. Il punto chiave è come implementare questo tetto, a che livello impostarlo e come finanziare la differenza tra il prezzo di mercato e quello imposto come massimale.
Ma anche in questo caso non è mancata subito la risposta immediata di Mosca stavolta con le minacce espresse da Dmitry Medvedev, vicepresidente del Consiglio di sicurezza russo: “Vale la stessa cosa del petrolio. [Se approvano il tetto dei prezzi del gas], semplicemente non ci sarà più gas russo in Europa”.
Vista la difficoltà di implementazione di tutte queste proposte e le minacce russe, le autorità europee si stanno muovendo contemporaneamente anche sulla riduzione dei consumi energetici.
Sono infatti sempre più le industrie, le autorità locali e statali che si stanno muovendo per implementare programmi di riduzione energetiche che vanno dalla riduzione degli orari di illuminazione alla riduzione delle temperature di riscaldamento.
Il tentativo è quello di evitare un pericoloso rischio di razionamento, che avrebbe impatti profondi anche sul tessuto industriale di diversi Paesi europei.
Ci sono comunque segnali positivi che indicano che l'Europa abbia già ridotto in parte la sua dipendenza da Putin. Anche se i flussi di Nord Stream fossero ripresi sabato, avrebbero raggiunto solo il 20% circa della capacità complessiva del gasdotto – lo stesso livello ridotto di forniture che va avanti dalla fine di luglio.
Il deficit di gas russo è stato in parte già compensato dalle importazioni di GNL trasportato via mare dagli Stati Uniti e da altri Paesi e dall'aumento dei flussi di gasdotti da produttori come la Norvegia e l'Azerbaigian. Il problema è che questi spostamenti hanno fatto salire nel tempo i prezzi del gas, dato che l'Europa si contende con l'Asia le limitate forniture di GNL.
Ciò nonostante, prima dell'ultimo annuncio di Gazprom, i prezzi dei futures del gas naturale di riferimento in Europa erano scesi di circa il 13% venerdì. Negli ultimi giorni i prezzi sono scesi di oltre un terzo, dato che i livelli complessivi degli impianti di stoccaggio del gas in Europa hanno raggiunto l'80% in anticipo.
Fino all'annuncio di venerdì, c'era quindi un crescente ottimismo sulla possibilità da parte europea di affrontare l'inverno con meno gas russo. Come riporta il New York Times, Wood Mackenzie, una società di ricerca sull'energia, ha di recente previsto che a questo ritmo le importazioni di gas russo via gasdotto diminuiranno costantemente, passando dal fornire più di un terzo della domanda europea negli ultimi anni a circa il 9% nel 2023.
Anche il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha dichiarato all'inizio di questa settimana che il suo Paese è "molto più preparato" a garantire una quantità di gas sufficiente per l'inverno di quanto si potesse immaginare fino a pochi mesi fa.
"Siamo in grado di affrontare abbastanza bene le minacce che ci arrivano dalla Russia", ha dichiarato Scholz.
Tuttavia, il dato di fatto immediato è che i prezzi del gas restano circa sette volte più alti rispetto a un anno fa, creando forti difficoltà alle famiglie e mettendo sotto pressione le imprese, in particolare quelle più energivore.
Di fronte a circostanze potenzialmente disastrose, i legislatori e le autorità di regolamentazione di tutto il continente stanno intervenendo sempre più spesso nei mercati energetici per proteggere i consumatori.
Anche se non semplice, questa è la strada che deve continuare ad essere intrapresa. Ci attendono sicuramente mesi difficili, ma con la giusta volontà politica l’Europa sarà sicuramente in grado di far fronte a qualsiasi scenario ed uscirne più unita e solidale, come avvenuto durante la pandemia.
L’Unione Europea, per sua fortuna, ha una struttura economica e sociale in grado di poter maggiormente resistere a questi shock rispetto alla Federazione Russa: in più, come visto in precedenza, la situazione a lungo andare è sempre più grigia per Mosca, che ne è pienamente cosciente, motivo per cui sta rischiando il tutto e per tutto ora che può ancora permetterselo.
Di fronte alle difficoltà ed alla sfida esistenziale posta da Putin al nostro sistema di valori, qualsiasi cosa accada nei prossimi mesi non bisogna mai dimenticare che ci sono delle cose che non possono essere negoziabili: a differenza del gas, la libertà non ha prezzo. L’Ucraina, con il suo sacrificio, di vite umane, ce lo sta dimostrando ogni giorno.
Il dittatore del Cremlino crede che siamo deboli, impauriti e disposti a tutto pur di non trovarci in difficoltà. È arrivato il momento di dimostrare che si sbaglia e che l’unica cosa che otterrà proseguendo su questa strada è quella portare il suo Paese al collasso ed all’irrilevanza politica.