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Perché l’economia russa andrà in recessione nel giro di sei mesi: l’analisi dell’economista russo Isakov

L’aumento dei tassi “sosterrà il rublo”. Con effetti peggiori della malattia. Le sanzioni “puniscono fortemente il fatturato petrolifero”. Ma “per almeno due anni, nessuna difficoltà a spendere per la guerra in Ucraina”. L’intervista di Fanpage.it a Alex Isakov di Bloomberg Economics.
A cura di Riccardo Amati
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“Non è solo una toppa”: l’aumento del tasso d’interesse di riferimento di 3,5 punti base fino al 12% “potrà sostenere il rublo anche oltre il breve termine”. Ma entro sei mesi “la crescita economica della Russia rallenterà fino a quasi fermarsi”, per il venir meno del boom creditizio che favoriva l’import”. Alex Isakov di Banca di Russia se ne intende parecchio: ci ha lavorato. È poi stato il capo-economista di VTB Capital a Mosca. “Un’era geologica fa”, spiega. Ma era solo l’anno scorso. Come tanti giovani professionisti, ha preferito lasciare il suo Paese dopo che Vladimir Putin ha ordinato l’invasione dell’Ucraina. Oggi è il responsabile delle analisi economiche sulla Russia per Bloomberg Economics. “Il Cremlino può contare su risorse finanziarie sufficienti a sostenere questa guerra senza problemi per almeno altri due anni”, spiega. “Ma la guerra finirà, e le ripercussioni economiche per i russi saranno dolorose”. Isakov parla con Fanpage.it via WhatsApp da Dubai, sua attuale sede di lavoro.

Riunione d’emergenza, aumento dei tassi di dimensioni pazzesche, almeno rispetto ai parametri occidentali: sembra una mossa quasi disperata, quella della banca centrale russa per salvare il rublo. Significa che le sanzioni funzionano

Le sanzioni sugli idrocarburi puniscono severamente gli introiti dell’export energetico russo. In pratica hanno efficacemente ridotto i prezzi a cui la Russia vendeva petrolio e affini di circa 15/20 dollari il barile. Qualsiasi sia il corso mondiale dei prezzi petroliferi, Mosca è costretta a “scontarli” forzatamente di 15/20 dollari.

E sappiamo che le entrate dalla vendita di gas e petrolio contano per circa il 50% del bilancio federale. È questo che pesa sul rublo?

Il deprezzamento del rublo è dovuto solo in parte dal tracollo del fatturato per il gas e il greggio venduto all’estero. A prevalere, e di molto, sono le cause interne. Per un buon 80% ne è responsabile la politica monetaria condotta dalla banca centrale nello scorso anno, quando ha ridotto i tassi d’interesse di riferimento a una velocità inusitata, dal 20% fino al 7,5% (dopo averli portati al 20% subito dopo l’invasione per evitare la fuga dei capitali, ndr). Ciò ha innescato un boom del credito in Russia. Se si guarda solo ai prestiti alle aziende, la crescita tendenziale è arrivata al 20%, mentre i prestiti ai privati sono cresciuti del 17%, anno su anno. E questo significa che le banche, ‘generano rubli’, per così dire: creano una forte domanda. Anche di importazioni. In un momento, però, in cui il fatturato petrolifero è in crisi. In poche parole: export drasticamente ridotto a fronte di un import è tornato ai livelli visti al tempo del boom dei consumi nel 2012. Poca domanda di moneta russa, presente in abbondanza sul mercato, e tanta di divise estere. Una situazione chiaramente insostenibile esplicitata nel crollo del rublo.

E quindi la Banca di Russia ci ha messo una toppa. Terrà oltre il breve termine?

La mossa della banca centrale non è solo una toppa. Vista l’entità della misura, non avrà solo conseguenze di breve termine: è una soluzione assai più sostenibile di quanto in molti ritengano.

Una stretta creditizia così importante però non può non avere dei costi, per l’economia. Quali sono i maggiori?

Con questa sua azione la Banca di Russia impartisce lo stop al ciclo del credito nell’economia, e la spinge verso la recessione, in cui probabilmente entrerà entro sei mesi. Le condizioni creditizie sono adesso terribilmente irrigidite. Il boom del credito aveva aiutato la Russia a compensare almeno in parte l’effetto negativo delle sanzioni. Ma ora si è tornati vicini al livello di restringimento creditizio che caratterizzò la metà del 2022. Probabilmente funzionerà, per sostenere il rublo. Ma è altrettanto probabile che ci sarà un effetto recessivo.

Alex Isakov
Alex Isakov

Cosa si aspetta per l’economia russa nel 2024, anno di elezioni presidenziali?

Sul fronte dell’inflazione, la nostra previsione è che — in seguito all’attuale politica monetaria fortemente restrittiva — sarà contenuta intorno al 5% (attualmente è intorno al 6/7%; il target della banca centrale è del 4%, ndr). La vera sfida sarà sulla crescita: che, se ci sarà non supererà l’1% o più probabilmente lo 0,5% (nel secondo trimestre la crescita tendenziale è stata del 4,9% e ha superato ogni previsione, ndr) . Sarà il costo da pagare per la stabilizzazione dell’Inflazione. Quindi: crescita bassa, tassi d’interesse alti e inflazione inferiore a quella attuale ma non di molto.

Cosa ha ancora a disposizione la Banca da Russia, nella sua “cassetta degli attrezzi” per intervenire?

Ha già utilizzato il controllo sui capitali. Prima di tutto, restringendo — praticamente impedendo — la possibilità di vendere asset finanziari russi detenuti all’estero: questa misura è ancora in opera e non può essere ripetuta. La banca centrale aveva inoltre, poco dopo l’inizio della guerra, limitato fortemente la possibilità per i cittadini russi di detenere asset finanziari all’estero o valuta straniera, ma poi ha allentato di parecchio, o cancellato del tutto, i vincoli introdotti. In teoria, quindi, questo è un mezzo ancora a disposizione per frenare la svalutazione del rublo. Ma proprio la libertà di questi flussi di capitale, legati al boom creditizio di cui si diceva, ha consentito di aggirare le sanzioni creando catene di importazione alternative grazie alle triangolazioni con stati terzi. Le aziende russe hanno potuto comprare in quantità beni altrimenti “proibiti”, da Paesi più o meno amici. Rendere meno elastici questi flussi servirebbe a sostenere il rublo ma distruggerebbe le attuali infrastrutture delle importazioni e creerebbe inflazione da deficit di prodotti importati. Un inflazione maggiore e più pericolosa di quella provocata dall’indebolimento del rublo.

E tutto questo come si connette con la politica fiscale espansiva del governo, che sta aumentando la spesa pubblica per finanziare l’industria militare a sostegno dell’invasione dell’Ucraina?

La connessione è molto stretta. I tagli eccessivi dei tassi d’interesse susseguitisi fino a pochi mesi fa e la spinta pari a circa il 4% impressa al prodotto interno lordo dalla forte spesa pubblica a servizio della guerra hanno finanziato la crescita della domanda di importazioni, che è alla radice della crisi del rublo. L’espansione fiscale, in termini quantitativi, è stata simile a quella vista durante la pandemia. Ma col covid l’economia soffrì di un aumento significativo della disoccupazione e di altri problemi che sono assenti oggi, quando la spesa pubblica è concentrata nel settore della Difesa. La disoccupazione è ai minimi storici.

Quindi, la Russia ha trovato il modo di aggirare le sanzioni e la spesa militare spinge il Pil, anche se la politica monetaria tornata severamente restrittiva minaccia in prospettiva la crescita. Tutto sommato, una posizione quasi invidiabile, come dicono anche dalle nostre parti molti amici del Cremlino. O no?

Certo, le previsioni secondo cui con la guerra e le sanzioni il Pil russo sarebbe sceso a picco erano sballate per molte ragioni. Ma è ragionevole anche fare una considerazione: secondo il consenso delle stime degli analisti, senza la guerra l’economia russa avrebbe potuto crescere di almeno il 2,5% ogni anno dal 2022 al 2024, soprattutto grazie agli investimenti provenienti dall’Europa adesso del tutto prosciugati e che erano vitali per il settore automobilistico e manifatturiero.

L’economia della Russia di Putin soffre da sempre di scarso sviluppo: è dipendente dalle esportazioni di gas e petrolio, non si è mai davvero diversificata. La spesa pubblica ora però spinge la produzione interna. Potrebbe essere addirittura un toccasana per risolvere questo problema strutturale?

Al contrario, la situazione attuale inibisce il trasferimento di tecnologia alla base di ogni sviluppo, e impedisce gli investimenti stranieri che dello sviluppo potrebbero essere il motore. E poi le risorse e la spesa si sono concentrate su un settore che a guerra finita — perché questa guerra finirà — rischia di diventare inutile o quasi.

Beh, ci sarà una riconversione dall’attuale economia di guerra a un’economia di pace…

E al momento della riconversione tutti i nodi verranno al pettine. Saranno dolori.

Quali sono in generale le conseguenze di questa situazione sulla vita dei russi?

Un indicatore che più di altri consente di misurare la qualità della vita, e il benessere di consumatori e delle famiglie, consiste nella percentuale dei soldi spesi per il cibo. Ebbene, in Russia oggi si spende in media circa il 38/40% del bilancio familiare in generi alimentari. Più o meno la stessa percentuale di sedici anni fa. Nonostante che il prodotto interno lordo sia nel frattempo cresciuto con regolarità, e a volte con notevole intensità, la ricchezza prodotta non si è trasferita alle famiglie. Il russo medio non ne ha davvero beneficiato. Gli standard di vita in quindici anni son rimasti più o meno gli stessi. Congelati. Una situazione che ora sarà ancora più difficile sbloccare.

Ma per quanto tempo può continuare il Cremlino a sostenere quel che spende per la guerra prima di prosciugare le casse?

Su questo fronte i limiti sono rappresentati dalla percentuale di interessi da pagare rispetto al Pil, o dal rapporto tra debito e Pil. E le soglie di costrizione finanziaria sono ancora lontane. Al momento la spesa diretta per la guerra, per i soldati e per gli armamenti, è pari al 3% del Prodotto interno lordo (nella Seconda guerra mondiale l’Urss arrivò a spendere il 61% del Pil, ndr). Per raggiungere la soglia critica del 30%, di questo passo ci vorranno almeno sei o sette anni. Anche con la politica restrittiva decisa dalla banca centrale, per almeno un paio d’anni al Cremlino non avranno di che preoccuparsi.

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