Perché le sanzioni contro Mosca funzionano se si coinvolge il Sud del mondo, secondo Prokopenko
Un “nuovo e più ampio approccio” per il sistema delle sanzioni contro la Russia di Vladimir Putin “é necessario per rendere i provvedimenti realmente efficaci”. I Paesi del G7 devono puntare, in particolare, a “tamponare le falle che permettono triangolazioni e re-export”. E per farlo, “devono coinvolgere i Paesi del Sud globale”, ai quali Mosca si trova ormai a doversi affidare per la sua sopravvivenza economica. A parlare è la sociologa ed economista del think tank Carnegie Alexandra Prokopenko, che fino al marzo del 2022 ha lavorato per la banca centrale russa, prima di lasciare il suo Paese perché contraria all’invasione dell’Ucraina.
Paradossalmente, dice Prokopenko a Fanpage.it, “nel breve termine le sanzioni hanno creato una ‘fortress Russia’, impermeabile agli shock dell’economia globale”. Ma hanno anche provocato cambiamenti potenzialmente fatali nella politica economica di Mosca, “tornata a fondarsi solo sul commercio di idrocarburi e sull’industria militare”. Risultato: “la compromissione di ogni reale sviluppo futuro”.
Mentre i sette Paesi più industrializzati al vertice di Hiroshima decidevano sulle nuove sanzioni, abbiamo raggiunto la ex funzionaria della Banca di Russia con una videochiamata a Istanbul, dove si trova per una una conferenza.
Dottoressa Prokopenko, la Russia è il Paese più sanzionato del mondo ma la contrazione del suo Pil si è limitata al 2,1% nel 2022 e il Fondo monetario internazionale (Fmi) prevede una crescita in linea con quella italiana nel 2023. Quando Germania e Gran Bretagna saranno in rosso. L’Fmi da l’inizio della guerra ha migliorato le sue previsioni di oltre nove punti percentuali. Le sanzioni sono inefficaci?
Al momento il Cremlino ha qualche motivo per affermarlo. Ma è necessario dividere gli effetti economici sul breve termine da quelli sul lungo termine.
Prendiamo intanto il breve termine. Che si deve fare per farle funzionare?
Coinvolgere in qualche modo nel sistema delle sanzioni i Paesi del Sud globale, che la Russia si ritrova ad avere come partner e che permettono le triangolazioni grazie alle quali Mosca riesce comunque — anche se in modo più lento e complesso che nel passato — a importare quel che le serve e a esportare quanto basta per finanziare la guerra.
Quali sono comunque gli effetti a breve termine delle sanzioni?
Una delle conseguenze fin da ora evidenti è la tensione sui conti pubblici. Tra i motivi, il principale è la sostituzione forzata dell’import: la Russia deve importare tecnologia da Paesi diversi rispetto a quelli usali, a costi maggiori. Al contempo, sempre a causa delle sanzioni, esporta idrocarburi a sconto: la Cina è diventata il principale mercato, ma è un colosso che compra al suo prezzo. E si tratta di un prezzo stracciato.
Infatti le entrate dalle vendite di gas e petrolio, che nel 2022 contavano per circa la metà di tutte le entrate statali, nei primi quattro mesi del 2023 risultano diminuite del 52%, secondo i dati dello stesso governo russo. Ma non è solo questo il problema, diceva. Che altro?
L’altra causa della difficile situazione di bilancio è, ovviamente, la militarizzazione dell’economia, con un’enorme aumento della spesa per il settore difesa (cresciuta del 282% solo nei primi due mesi dell’anno, ndr) e per i sevizi di sicurezza.
Però la Russia ha grandi riserve finanziarie. In particolare, ha il Fondo di ricchezza nazionale (Nwf). È come se a questo conflitto si fosse preparata da tempo. Putin, da buon “survivalist”, come lo definisce una sua biografa, ha coltivato a lungo il suo orto di guerra. Basterà?
Per adesso il Cremlino può permettersi di finanziare la spesa militare e il resto (con la conseguenza che nel 2024 il Nwf è previsto all’1,4 del Pil: mai così in basso da 20 anni a questa parte, ndr). Ma ogni shock esterno può mettere in seria crisi i conti pubblici.
Proprio le sanzioni hanno isolato il Paese dagli shock economici esterni. L’inflazione, gli aumenti del costo del denaro, il recente fallimento di tre banche americane fanno guai a Wall Street e a Francoforte, a Londra e a Parigi. Per non parlar di Milano. Ma non a Mosca.
Paradossalmente, è proprio così. Se però una recessione globale o qualche altro evento provocasse una caduta dei prezzi petroliferi sarebbero davvero guai, per Mosca. Questo è l’unico shock esterno che l’economia russa può oggi temere.
Ma il governo è davvero preoccupato dei conti pubblici? Per le armi continua a spendere e spandere.
Il governo russo sta cercando disperatamente di succhiare denaro dall’economia. Ne è una dimostrazione la tassa sulle aziende occidentali che lasciano il Paese (il contributo è pari al 10% del valore di mercato delle attività, e si aggiunge allo sconto del 50% da praticare d’ufficio agli eventuali compratori locali, ndr). E soprattutto lo dimostra l’imposta una tantum sugli extra profitti aziendali. Le autorità finanziarie stanno facendo di tutto per rimpinzare i conti pubblici.
Intanto, però, le organizzazioni internazionali continuano a rivedere al rialzo i dati sul prodotto interno lordo russo.
E influiscono anche gli interventi di politica fiscale di cui abbiamo appena parlato: avranno un effetto positivo sul Pil del 2023. Ma senza alzare il livello di benessere della popolazione. Servono solo a finanziare la guerra. E comunque appena questi interventi esauriranno la loro efficacia l’eventuale crescita si fermerà.
Quindi, si può dire che paradossalmente le sanzioni e la guerra spingono la crescita economica russa nel breve termine. Anche in conseguenza delle politiche fiscali. E nel lungo termine?
Nei tempi lunghi le sanzioni sono più efficaci. Soprattutto perché limitano la possibilità delle aziende di investire nell’innovazione, e questo a sua volta limita lo sviluppo economico in generale. Gli imprenditori russi si trovano a dover utilizzare tecnologie obsolete o non ideali. Quelle che possono trovare su un mercato non più aperto. Non c’è da aspettarsi niente di buono da un’industrializzazione negativa e dal ritorno a tecnologie superate.
Un’ipoteca sullo sviluppo economico, quindi. Ma la Russia ha sempre tanto gas e petrolio da vendere. Le entrate non mancheranno. Che importa il resto?
Un’economia condannata a contare solo sul commercio di materie prime non garantisce vero sviluppo. La guerra e le sanzioni hanno cambiato la politica economica russa, che bene o male lo sviluppo almeno fino a qualche tempo fa lo cercava. Ma che ora è tornata al secolo scorso: si fonda esclusivamente sulla vendita di idrocarburi e su un complesso industriale-militare ipertrofico. Il risultato potrebbe essere una totale inefficienza. Dello stesso tipo di quella per cui il Paese pagò un prezzo salatissimo negli anni ’90.
Ma ci sono tante falle nel sistema delle sanzioni. Alcuni esempi: solo in marzo il gruppo Danieli, ex-fornitore di macchinari high-tech per le acciaierie Severstal dell’oligarca Alexey Mordashov, ha annunciato l’uscita dal mercato russo; un’altra azienda italiana, Buzzi Unicem, ha dichiarato di aver interrotto soltanto a partire da maggio il “coinvolgimento operativo” con la sua sussidiaria russa. Le due società negano ogni illecito, né è stato loro contestato alcunché. Fare affari con la Russia in guerra non sempre è reato.
Sono falle che vanno tappate. Scappatoie legali da eliminare. Il commercio della Russia si sta spostando intanto verso nuovi Paesi. Soprattutto, Paesi del Sud del mondo. E instaurare rapporti con questi nuovi partner non sarà semplice. Ci vorrà tempo. Anche questo punirà l’economia di Mosca nel lungo termine.
C’è sempre la Cina, che fornisce tecnologia e non è certo un mercato nuovo, per la Russia.
Ma molte importazioni arrivano ancora dall’Occidente dopo esser passate da Paesi come Kazakhstan, Armenia e Turchia: è il fenomeno del re-export. Finché le aziende, in particolare quelle europee, accetteranno questo giochino pur di far soldi, le sanzioni non funzioneranno come dovrebbero.
A proposito di triangolazioni, i derivati del petrolio russo continuano ad esser venduti anche in Occidente, dopo qualche passaggio.
E anche quI è importante il Sud del mondo, attraverso cui queste triangolazioni passano. L’Europa e i Paesi dell’Occidente dovrebbero darsi da fare per convincere Paesi come l’India a unirsi alle sanzioni, se vogliono davvero aumentare la pressione sulla Russia e rendere più difficile a Putin finanziare la sua guerra.
Il paradosso è che oggi — mi si dice da Mosca — per un normale cittadino rinnovare il passaporto in Russia è quasi impossibile perché mancano i chip necessari. Ma sui missili e i droni russi sparati sull’Ucraina i chip prodotti dalle aziende occidentali ci sono eccome.
È la dimostrazione che l’intero sistema delle sanzioni dovrebbe essere rivisto alla luce di un approccio più ampio, in grado di prevenire l’aggiramento dei divieti nei settori più delicati e più remunerativi.
Ma non è proprio il concetto delle sanzioni contro Mosca ad essere è sbagliato? La Russia non è Cuba né la Corea del Nord e neppure l’Iran, per far l’esempio di altri paesi sotto sanzioni. Ha undici fusi orari diversi e oltre 145 milioni di abitanti. È l’undicesima economia mondiale. E poi un regime semi-totalitario che invade un Paese vicino ha probabilmente un concetto non convenzionale della razionalità economica.
Forse. Ma una cosa che caratterizza la Russia di Putin è che il regime nonostante tutto lavora con tecnici finanziari estremamente ben preparati e orientati al mercato. Questa combinazione ha avuto successo, nella risposta alle sanzioni.
Ancora un paradosso: Putin isola il Paese e propaganda l’autarchia ma per rispondere alle sanzioni conta su economisti formatisi alla scuola liberale. Quali sono le decisioni vincenti prese da questi tecnici per far sopravvivere la Russia alle sanzioni?
La decisione della banca centrale di alzare i tassi d’interesse al 20% subito dopo l’invasione è stata davvero cruciale. La crescita dei tassi a breve e il divieto — subito seguito — di effettuare prelievi bancari di valuta straniera hanno fatto rientrare quasi tutti i capitali che nei primi giorni di guerra i russi avevano ritirato dalle banche. Il panico si è subito dissolto.
Non proprio una scelta “liberale”, quella del controllo sui capitali. La peggiore per gli investimenti di ogni tipo.
Infatti so per certo che la governatrice della Banca di Russia, Elvira Nabiullina, era in teoria assolutamente contraria. Ma in pratica era l’unico modo per evitare la fuga dei capitali e salvare sistema finanziario e stabilità. Quindi ha agito. D’altra parte, grazie anche alla pulizia intrapresa negli anni precedenti dalla Nebiullina in un sistema bancario davvero poco trasparente, l’economia russa era arrivata al febbraio 2022 in buone condizioni.
Brava Nebiullina e bravi economisti della banca centrale. Formati alla scuola di quel liberalismo che Putin tanto denigra. E con l’etica come la mettono?
L’etica la lasciano da parte e semplicemente applicano le regole economiche. Ma purtroppo le decisioni brillanti prese dalla Banca di Russia all’inizio del conflitto non hanno solo permesso la sopravvivenza dell’economia russa ma anche la mobilitazione della stessa al servizio della guerra. Nonché la mobilitazione, e qui il senso non è figurato, di tanti giovani mandati a combattere e a morire in Ucraina.