Le elezioni presidenziali negli Stati Uniti sono sempre state un momento cruciale nella politica mondiale. Le prossime si terranno il 5 novembre 2024. A prima vista sembra che manchi ancora molto, e che sia inutile iniziare a parlarne ora.
La verità è però che la sfida è già pienamente in atto, come spesso accade in un Paese che è sempre più in uno stato di perenne campagna elettorale.
A differenza del passato, però, le prossime elezioni si terranno in un contesto di sempre più estrema polarizzazione politica, in cui la maggioranza degli elettori esprime oggi opinioni decisamente negative verso i due probabili contendenti e si dice molto preoccupata per il futuro degli Stati Uniti.
Da cittadino americano all'estero, condivido queste preoccupazioni. Seguo le elezioni negli Stati Uniti da oltre 20 anni e mai come ora sono preoccupato per le prospettive del Paese in cui sono nato.
Le prime elezioni a cui ho partecipato in qualità di elettore sono state le presidenziali del 2004.
Nonostante fosse già evidente, in quel momento, il disastro iracheno per le conseguenze della controversa decisione di invadere quel Paese, Bush venne rieletto presidente sfruttando l’onda lunga della sua popolarità a seguito degli attentati dell’11 settembre.
Personalmente sentivo che fosse mio dovere fare tutto ciò che potevo per fare in modo che venisse posto fine a questa aggressione militare (che ancora oggi considero una guerra criminale).
Decisi di navigare tra le complesse regole elettorali e registrarmi nelle liste degli elettori dello Stato Washington, il mio Stato natale, per votare dall'estero ed esprimere nero su bianco la mia netta opposizione a quella guerra.
La rielezione di Bush fu determinata sostanzialmente dal risultato dell’Ohio. Qui i democratici denunciarono tentativi di soppressione del voto verso le minoranze afroamericane.
Sebbene il candidato democratico alla presidenza, John Kerry, avesse deciso di riconoscere la vittoria di Bush nonostante questi dubbi, alcuni esponenti democratici decisero comunque di contestare il risultato elettorale in Ohio al Congresso, durante la sessione di ratifica del voto del 6 gennaio 2005.
Il tentativo, costituzionalmente previsto, venne bocciato in aula, ed il Congresso ratificò velocemente la rielezione di Bush lo stesso giorno.
Non ci furono proteste né sommosse popolari e Bush governò per altri 4 anni senza che nessun altro mettesse in dubbio la sua legittimità come presidente. Ma era un altro pianeta rispetto ad oggi.
Esattamente 16 anni dopo, un altro presidente in carica repubblicano perderà la campagna per la sua rielezione. Deciderà di contestare apertamente il risultato elettorale che lo aveva visto sconfitto di poche migliaia di voti in diversi Stati. Ma, soprattutto, diversamente da allora, lo scontro si sposterà anche nelle piazze.
Il 6 gennaio 2021, mentre il Congresso ratificava la vittoria di Biden, il Campidoglio fu assaltato per diverse ore da violenti supporter dell’allora presidente.
La fallita insurrezione, così come è stata definita dalla stampa, ha causato la morte di 5 persone, una direttamente (Ashli Babbit, una rivoltosa uccisa da una guardia del Campidoglio mentre cercava di accedere all’ufficio dell’allora Speaker della Camera, Nancy Pelosi), ed altre 4 indirettamente per le conseguenze dell’attacco.
L’indagine che ne seguirà diventerà presto la più grande della storia americana: oltre un migliaio di persone incriminate tra cui, proprio di recente, anche l’ex presidente degli Stati Uniti.
Tuttavia, questo gravissimo episodio non ha impedito che il Partito Repubblicano si spostasse sempre di più su posizioni estremiste: stando ai sondaggi più aggiornati, il 69% dei repubblicani pensa ancora oggi che Biden abbia vinto le elezioni grazie ai trucchi, sebbene non vi sia nessuna concreta prova a supporto di queste affermazioni e che tutti i tentativi giudiziari per contestare il risultato del voto siano falliti miseramente.
Ad oggi la situazione è dunque questa: l’ex presidente Trump è stato già incriminato per quattro vicende diverse ultima delle quali, recentissima, relativa alla sconfitta elettorale in Georgia alle presidenziali 2020.
Ciò nonostante, è ancora ampiamente considerato come il front-runner per la nomination presidenziale dei repubblicani, sebbene rischi concretamente di finire in galera nel bel mezzo della campagna elettorale.
Ma come è stato possibile arrivare a questo punto? Facciamo un passo indietro.
L’elezione di Obama e la reazione dell’America bianca conservatrice
Il 4 novembre 2008, Barack Hussein Obama, allora senatore, è stato eletto presidente degli Stati Uniti con circa il 53% dei voti, ottenendo 365 Grandi Elettori. Negli USA, infatti, è il Collegio Elettorale, composto dai Grandi Elettori nominati sulla base del risultato del voto popolare per singolo Stato, ad eleggere il presidente.
Il suo rivale, il senatore repubblicano John McCain, riconosce immediatamente la storica vittoria di Obama non appena la sua vittoria è stata ufficializzata dai media americani, con una telefonata diventata famosa in cui congratula con lui per essere entrato nella storia come il primo presidente afroamericano della storia.
Sembrava l’inizio di una nuova era per gli Stati Uniti, ed in effetti così è stato, ma non necessariamente nel modo sperato da chi aveva votato per Obama nutrendo così tante speranze.
Se, infatti, molti a sinistra hanno celebrato questa pietra miliare come una testimonianza del progresso della nazione sulle questioni razziali, altrettanti a destra si sono sentiti disorientati o minacciati dai rapidi cambiamenti culturali e demografici, percepiti come rappresentati dalla vittoria di Obama.
Per l’ala più conservatrice dei repubblicani, in particolare, l’ingresso di Obama alla Casa Bianca ha rappresentato un vero e proprio shock, a cui in molti hanno iniziato a rispondere esprimendo idee sempre più reazionarie, se non apertamente razziste ed autoritarie.
A questo si aggiungano le conseguenze della crisi finanziaria del 2008 che hanno particolarmente colpito le regioni afflitte dal declino della produzione e dagli effetti negativi della globalizzazione. Tutto ciò ha creato un terreno fertile per i portatori di sentimenti populisti.
Il malcontento non poteva rimanere inascoltato per troppo tempo. Infatti, è in questo clima di crescente scontento e richiesta di un ritorno ai valori conservatori tradizionali che il movimento del Tea Party ha trovato il suo impulso e ha iniziato a guadagnare trazione tra gli elettori.
Il movimento ha così ottenuto una grande vittoria alle elezioni di metà mandato del novembre 2010, sostenendo una piattaforma politica basata su un governo limitato e sul taglio delle tasse. Ciò ha permesso al Partito Repubblicano di ottenere il miglior risultato alla Camera da molto tempo a quella parte.
Nel 2009, il reporter CNBC Rick Santelli suggerì di organizzare un "tea party" come risposta alle politiche economiche di Obama, dando così origine al nome cui avrebbe preso riferimento il movimento conservatore in fase di creazione.
Si riferiva ovviamente al famoso atto di protesta del 1773, poco prima della Rivoluzione Americana, avvenuto nel porto di Boston, quando, in risposta al continuo innalzamento delle tasse promosso dal governo coloniale britannico, un gruppo di giovani indipendentisti, appartenenti al movimento clandestino dei Sons of Liberty si era imbarcato a bordo delle navi inglesi ancorate nel porto di Boston per poi gettare in mare le casse di tè da queste trasportate.
Nel 2013, si stimava che poco più del 10% degli americani si identificasse come parte del movimento “Tea Party”, dimostrando così la sua influenza e portata in quel momento.
Con l’andare del tempo, però, buona parte delle tematiche principali del “Tea Party” più vicine al conservatorismo storico americano, come l’odio contro le tasse e la richiesta di un governo minimale ridotto all’osso, sono state messe da parte a favore di altre priorità dell’elettorato repubblicano.
Cresceva sempre di più la pressione per un conservatorismo focalizzato su temi sociali come l'aborto e le armi. Allo stesso tempo i sentimenti anti-establishment, anche nei confronti dei leader del Partito Repubblicano, che si rafforzarono in particolare dopo la rielezione di Obama nel 2012, avevano ormai bisogno di una nuova valvola di sfogo.
L’ascesa di Trump
La presidenza di Obama ha coinciso con significativi cambiamenti culturali negli Stati Uniti, tra cui il mutamento di atteggiamento nei confronti di questioni come il matrimonio omosessuale, l’immigrazione e la giustizia razziale.
Questi cambiamenti sono stati visti da molti conservatori come un pericoloso allontanamento dai valori tradizionali: ben presto però, questi avrebbero trovato il loro campione.
Alle elezioni del 2016 Donald J. Trump si è proposto, infatti, proprio come il paladino di coloro che si sono sentiti trascurati nell'era Obama e dalle Amministrazioni precedenti, promettendo di "rendere di nuovo grande l'America”.
Prima di scendere in politica, Trump era già una figura pubblica nota, sia come imprenditore del settore edilizio che, come presentatore del reality show “The Apprentice”.
Sebbene non avesse esperienza politica, Trump aveva in precedenza donato a entrambi i partiti. Tuttavia, dopo l'elezione di Obama, si è avvicinato definitivamente alle idee repubblicane, diventando ben presto una figura di spicco tra i più conservatori, in parte grazie alle sue opinioni controverse espresse apertamente su Twitter.
Una delle sue affermazioni più discusse riguardava sicuramente il ‘birtherism', un movimento complottista di stampo razzista che metteva in dubbio la legittimità della presidenza di Obama perché affermava che l’ex presidente in realtà era nato in Kenya.
Secondo gli aderenti a questo movimento, Obama, quindi, non era “americano dalla nascita” come prevede la Costituzione per i candidati alla presidenza e non avrebbe potuto essere eletto presidente, il che renderebbe, ovviamente, la sua elezione illegittima.
Nonostante Obama avesse rilasciato il suo certificato di nascita per smentire una volta e per tutte questa teoria cospirativa, Trump ha continuato a sollevare dubbi su questo argomento fino al 2016 quando ormai era già diventato candidato repubblicano alla presidenza.
Quando il 16 giugno 2015 Trump ha annunciato la sua candidatura alla presidenza dalla Trump Tower, era stato accolto dallo scherno dei media mainstream americani che pensavano si trattasse di una boutade pubblicitaria.
Molti credevano, infatti, che la sua candidatura fosse una manovra di public relations piuttosto che una seria ambizione politica. Ma si sarebbero sbagliati amaramente: contro ogni aspettativa, il Partito Repubblicano lo ha sostenuto, portandolo infine alla Casa Bianca.
La vittoria elettorale a sorpresa alle elezioni 2016
La vittoria di Trump nel 2016 ha indubbiamente sorpreso molti osservatori. Ma cosa ha portato a questo risultato così inaspettato?
Sebbene sia difficile individuare tutti i motivi alla base di questo risultato, i cinque seguenti sono spesso citati come i fattori chiave della vittoria di Trump:
Scontento economico per la globalizzazione: la “Rust Belt”, comprendente Stati del Midwest come Michigan, Wisconsin e Pennsylvania, che avevano tradizionalmente votato democratico, ha giocato un ruolo cruciale nella vittoria di Trump, poiché molti elettori di questi Stati si sentivano trascurati dai politici tradizionali di fronte al declino industriale e manifatturiero, dovuto alla globalizzazione.
Le promesse di Trump di riportare i posti di lavoro a casa e di rinegoziare gli accordi commerciali “rendendo nuovamente grande l’America che per troppo tempo era stata bistrattata”, hanno avuto decisamente una forte risonanza in questa fascia di elettori.
La forza del messaggio populista di Trump: oltre alle questioni economiche, anche il messaggio politico stesso di Trump ha avuto un ruolo cruciale. Durante tutta la sua campagna elettorale Trump si è, infatti, posizionato come candidato outsider e anti-establishment che avrebbe "prosciugato la palude" di Washington, D.C.
Questo messaggio si è rivolto con successo a molti degli elettori disillusi dai politici tradizionali di entrambi i Partiti e che ritenevano che l'élite politica non fosse più in contatto con gli americani comuni.
Copertura mediatica: l'approccio anticonvenzionale di Trump e l'uso abile di Twitter gli hanno garantito una costante attenzione mediatica, permettendogli di comunicare direttamente con i suoi elettori ed allo stesso tempo di mantenere una presenza dominante nel ciclo delle notizie.La polarizzazione politica e l'appello ai valori conservatori: La campagna di Trump ha attinto alle profonde divisioni culturali e politiche del Paese, sfruttandole a pieno. Per la prima volta nella storia recente americana la divisione politica è diventata una agenda ufficiale di un candidato alla presidenza.
Mentre in passato i candidati presidente hanno predicato la necessità di unione e di solidarietà tra tutti i cittadini americani a prescindere dalle proprie posizioni politiche, Trump non ha fatto mistero di considerare i suoi rivali come nemici da sconfiggere anche dal punto di vista culturale.
Per questo motivo non ha avuto timore di prendere posizioni forti e controverse su questioni come l'immigrazione, il diritto alle armi e la Corte Suprema, galvanizzando gli elettori conservatori e garantendo un'alta affluenza da parte della sua base elettorale.
Debolezza dei democratici: Hillary Clinton, la candidata democratica alla presidenza nel 2016 era alla sua seconda campagna elettorale dopo quella persa contro Obama nel 2007 ed ha dovuto affrontare una serie di sfide a cui era mal preparata.
Tra queste, la più importante è stata la controversia sull'uso di un server di posta elettronica privato quando era Segretaria di Stato, che ha creato uno scandalo che i repubblicani hanno sapientemente usato per danneggiare la sua immagine durante tutta la campagna elettorale.
Alcuni elettori hanno anche avvertito l'insoddisfazione residua a seguito delle controverse primarie democratiche tra Clinton e Bernie Sanders, dove il candidato auto definitosi come “socialista” ha ottenuto oltre il 40% dei voti a sorpresa, in un segnale di profonda insoddisfazione tra i democratici che non è stato ben colto dalla campagna di Clinton.
Infine, anche sua decisione di non visitare alcuni Stati chiave della Rust Belt negli ultimi strategici giorni di campagna elettorale ha influenzato in maniera per lei negativa il risultato delle elezioni.
Sebbene ci siano molte altre variabili che hanno influenzato l'esito delle elezioni del 2016, queste appena descritte offrono comunque già una chiara panoramica del contesto in cui Trump è stato eletto alla presidenza.
Q-Anon e le milizie di estrema destra
Il mandato di Donald Trump alla Casa Bianca ha rappresentato, senza dubbio, un nuovo periodo di profonda polarizzazione e cambiamento negli Stati Uniti.
Mentre il Paese affrontava una serie continua di sfide interne ed esterne, è emerso però un altro fenomeno inquietante in parallelo: l'ascesa delle teorie complottiste e delle milizie di estrema destra.
Questi gruppi, come i complottisti di Q-Anon e le milizie di estrema destra come gli Oath Keepers e i Proud Boys, che un tempo sarebbero stati relegati ai margini della società, hanno trovato una piattaforma e una voce senza precedenti durante gli anni di Trump, guadagnando forte notorietà anche grazie alla presenza sui social media.
Il movimento complottista Q-Anon è nato nel 2017 su un forum online, quando un utente anonimo chiamato "Q" ha iniziato a diffondere quelli che definiva essere presunti segreti governativi.
Gli aderenti di Q-Anon credono che esista una cospirazione globale di élite pedofile e sataniste che controllano il mondo e sono impegnate in attività criminali, tra cui il traffico di esseri umani.
Credono anche che Donald Trump sia stato eletto presidente degli Stati Uniti per combattere questa cabala segreta, che si appoggi ad un gruppo di resistenti all’interno del governo e che la battaglia finirà solo quando Trump mostrerà al mondo l’esistenza di questa cabala.
Le informazioni su questa presunta cospirazione vengono rivelate attraverso gli enigmatici messaggi online di "Q", i cosiddetti "Q drops", che sono interpretati dai seguaci come indizi su eventi futuri o rivelazioni sulla cospirazione.
La presidenza Trump, caratterizzata da forti tensioni con istituzioni tradizionali come la stampa mainstream e continue accuse di "fake news", ha chiaramente fornito un terreno fertile per lo sviluppo di teorie cospirative violente come Q-Anon.
Oltre ai movimenti complottisti, durante la presidenza Trump, anche milizie di estrema destra come gli Oath Keepers e i Proud Boys hanno guadagnato notorietà.
Gli Oath Keepers, fondati nel 2009 da Stewart Rhodes, un ex paracadutista dell'esercito e laureato alla Yale Law School, sono composti principalmente da ex militari e forze dell'ordine. Si presentano come difensori della Costituzione, ma sono noti per le loro visioni antigovernative.
D'altro canto, i Proud Boys, fondati nel 2016 da Gavin McInnes, si descrivono come un club di ‘occidentali chauvinisti' ed antifemministi, con una struttura gerarchica basata su livelli di iniziazione.
Entrambi i gruppi sono diventati famosi per la loro retorica violenta e gli scontri con i manifestanti di sinistra, in particolare durante le proteste seguite all’uccisione di George Floyd.
Il rifiuto di Trump di condannare chiaramente questi gruppi violenti, come in uno dei dibattiti presidenziali con Biden quando ha detto ai Proud Boys di "fare un passo indietro e restare pronti", ha ulteriormente galvanizzato la loro causa.
Il 6 gennaio 2021, sia i seguaci di Q-Anon che gli esponenti di milizie di estrema destra come gli Oath Keepers ed i Proud Boys sono stati presenti e attivi durante la fallita insurrezione al Campidoglio.
Molti membri di questi gruppi sono stati identificati tra i rivoltosi e successivamente arrestati. Solo l’insurrezione del Campidoglio del 6 gennaio 2021 ha svelato al mondo intero l'entità, così come la determinazione di questi gruppi e la loro agenda sovversiva.
Mentre l'America si avvia verso le nuove elezioni, la sfida resta ora non solo quella di punire chi ha commesso questi crimini, ma anche quella di comprendere e affrontare le radici di queste ideologie e di fare in modo che la democrazia rimanga forte di fronte a tali minacce anche in futuro.
Per fare ciò, bisogna però anzitutto capire in quale clima si è arrivati alla fallita insurrezione al Campidoglio.
Il tentativo di ribaltare il risultato delle elezioni 2020
Nel recente atto di incriminazione da parte del procuratore speciale Jack Smith, è stato ricostruito dettagliatamente ciò che è successo subito dopo le elezioni del novembre 2020, ed in particolare nelle settimane precedenti il 6 gennaio 2021.
Per via del cosiddetto effetto “red mirage” dovuto all’uso massiccio del voto postale da parte dei democratici (conteggiato dopo in vari Stati), Trump ha chiuso la notte dell’Election Day apparentemente in vantaggio nel conteggio dei voti in diversi Stati chiave.
Una volta arrivati i voti via posta, però, la situazione è cambiata in maniera drastica: in poche ore Trump ha perso il Michigan ed il Wisconsin, due Stati chiave assegnati a Biden dalle televisioni americane la mattina del 4 novembre 2020.
Dopo qualche giorno di conteggio dei voti postali residui anche la Pennsylvania è stata assegnata a Biden che così, sabato 7 novembre 2020, è diventato ufficialmente il presidente eletto degli Stati Uniti secondo i media americani.
Trump ed i suoi legali, in primo luogo l’ex sindaco di New York City Rudy Giuliani, hanno subito annunciato la propria intenzione di dare battaglia, affermando che il voto postale era stato oggetto di brogli ed affermando che in realtà era stato lui a vincere le elezioni.
Giuliani, in particolare, ha annunciato l’intenzione di contestare il risultato del voto durante una surreale conferenza stampa tenuta in un parcheggio vicino ad un sexy shop al Four Seasons Total Landscaping di Philadelphia.
Nell’atto di incriminazione si afferma che Trump abbia fatto più volte accuse di frode che sapeva essere false ed abbia esercitato indebite pressioni su funzionari statali e federali al fine di far annullare il risultato delle elezioni sulla base di queste false accuse.
L’atto d’accusa afferma che a tale scopo Trump ed il suo team di legali hanno organizzato falsi gruppi di Grandi Elettori in 7 Stati in cui aveva perso le elezioni, affinché votassero a suo favore per far sì che il loro voto venisse poi conteggiato come ufficiale da parte del Congresso in fase di ratifica dei voti elettorali.
A questo periodo risale forse il più famoso dei tentativi di ribaltamento del voto, quello avvenuto in Georgia, per il quale Trump è stato appena incriminato: la telefonata del 2 gennaio 2021 al Segretario di Stato della Georgia, il repubblicano Brad Raffensperger, in cui Trump gli chiedeva apertamente di "trovare 11.780 voti", ovvero esattamente un voto in più di quanto avrebbe avuto bisogno per battere Biden in Georgia.
Nella telefonata, il cui contenuto è stato reso noto dai giornali americani pochi giorni dopo, Raffensperger e il suo legale hanno respinto le affermazioni di Trump, sottolineando che i risultati delle elezioni in Georgia erano accurati.
Raffensperger, in particolare, ha detto: "Il problema, signor presidente, è che i dati che lei ha sono sbagliati".
Quando il tentativo di certificare i voti elettorali espressi dai falsi Grandi Elettori è fallito per la strenua e coraggiosa resistenza dei funzionari locali, Trump ha deciso di cambiare strategia e di esercitare forti pressioni direttamente sul vicepresidente Mike Pence per non permettere la certificazione dell'elezione durante la sessione di ratifica del Congresso.
A Pence è stato chiesto, nello specifico, in qualità di presidente del Senato, di rifiutare i voti espressi dai legittimi Grandi Elettori espressi in questi Stati e rimandare la questione ai Parlamenti statali a maggioranza repubblicana che avrebbero potuto a quel punto, secondo l’idea dei legali di Trump, certificare il voto dei falsi Grandi Elettori pro-Trump.
Anche questo audace piano è fallito perché Pence si è rifiutato di procedere in questo modo affermando in maniera chiara, la mattina del 6 gennaio, che non aveva l’autorità costituzionale per farlo.
La conseguenza diretta del rifiuto di Pence è stato che qualche ora dopo, dal palco di fronte alla Casa Bianca, Trump ha chiesto ai suoi supporter che erano rimasti delusi ed arrabbiati dalla decisione di Pence, di marciare sul Campidoglio per “mostrare ai repubblicani cosa significa il coraggio”.
Molti di loro saranno poi ripresi mentre canteranno slogan come “impicchiamo Mike Pence” oltre che minacce nei confronti dell’allora vicepresidente. Per questo motivo, non appena iniziato l’attacco al palazzo del Campidoglio, il Secret Service dovette immediatamente intervenire per salvare Pence da un possibile linciaggio pubblico in quelle ore drammatiche.
L’atto di incriminazione di Smith non afferma che Trump abbia incitato la fallita insurrezione, come da più parti erroneamente affermato, ma piuttosto che l’ex presidente abbia approfittato del caos causato dai suoi supporter per continuare a far pressione sui suoi alleati e sui repubblicani più reticenti per bloccare la ratifica della vittoria di Biden.
Tuttavia, anche questo disperato tentativo è fallito: alle 3:41 del mattino, ora locale, del 7 gennaio 2021, dopo aver bocciato tutti i tentativi di contestare il voto da parte repubblicana, il Congresso ha ratificato una volta e per tutte la vittoria di Biden.
La presidenza Trump entrava così negli ultimi giorni della sua vita, con un presidente uscente che di lì a poco sarebbe stato messo sotto impeachment per la seconda volta, questa volta per aver istigato una insurrezione popolare.
Le violenze al Campidoglio del 6 gennaio 2021, descritte come un "attacco senza precedenti al cuore della democrazia americana" dal Procuratore Speciale Jack Smith, hanno indubbiamente evidenziato le profonde divisioni e tensioni presenti nella società americana, esacerbate dalle menzogne di Trump sui brogli elettorali.
Tuttavia, a distanza di più di due anni, oggi più che mai, dopo la nuova incriminazione di Trump, l’ombra di ciò che è successo il 6 gennaio continua ad oscurare la politica americana.
Il “culto di Trump” e la resilienza del movimento MAGA
Durante (e dopo) il fallito tentativo di ribaltare il risultato delle elezioni 2020, Trump ha portato avanti diverse teorie del complotto, tra cui false affermazioni su macchine del voto manipolate contro di lui, voti illegali e altre irregolarità.
Tutte queste affermazioni sono state puntualmente smentite da funzionari elettorali, giudici e da verifiche indipendenti. Ciò nonostante, l’ex presidente continua anche oggi a mettere al centro della sua agenda politica le accuse di brogli alle elezioni 2020.
Ad esempio, alle recenti elezioni di metà mandato del novembre 2022, Trump ha fatto valere la sua forte popolarità tra gli elettori repubblicani delle primarie per far eleggere a tutti i costi negazionisti delle elezioni 2020 come candidati per posizioni chiave del processo elettorale come governatori, Segretari di Stato, deputati e senatori federali e statali.
Il motivo principale di questa scelta è che per Trump la fedeltà nei suoi confronti, in particolare su questa vicenda che gli sta a cuore più di qualsiasi altra cosa, è la qualità principale che qualsiasi candidato debba avere per ottenere il suo supporto.
Tuttavia, nessuno di questi candidati è stato poi in grado di vincere una elezione generale in uno qualsiasi degli Stati chiave che si sono recati al voto alle elezioni di metà mandato di novembre 2022.
Ad aver perso le elezioni sono stati, ed esempio, i candidati alla posizione di Segretario di Stato in Nevada, Jim Marchant, in Michigan, Kristina Karamo, ed in Arizona, Mark Finchem. Si tratta di tutti Stati chiave in cui il Segretario di Stato ha un ruolo chiave nella certificazione del voto.
Anche alcuni candidati governatori, anche essi esponenti del movimento negazionista del risultato elettorale del 2020, hanno perso le proprie elezioni in Stati chiave: in particolare Doug Mastriano, in Pennsylvania, e soprattutto Kari Lake, in Arizona.
Nel caso di Lake questa sconfitta è stata particolarmente bruciante anche perché inattesa, visti i sondaggi della vigilia del voto.
Kari Lake ancora oggi non riconosce il risultato delle elezioni che hanno visto la vittoria della sua rivale democratica ed attuale governatrice Katie Hobbs. Tuttavia, tutti i suoi numerosi tentativi di ribaltare il risultato delle elezioni mediante esposti in tribunale sono falliti.
Ciò nonostante, la sua tenacia l’ha resa molto popolare a Mar-a-Lago, tra i supporter più ferventi dell’ex presidente Trump, alcuni dei quali ora sognano la sua possibile candidatura alla vicepresidenza o, in subordine, al Senato in Arizona, nonostante la dura sconfitta subita.
Tutto questo avviene mentre, nonostante i risultati più deludenti del previsto per i candidati supportati dall’ex presidente Trump, la stella dell’ex presidente sembra brillare più che mai tra gli elettori repubblicani durante le attuali primarie repubblicane per la presidenza 2024.
Dopo una partenza piuttosto sottotono poco dopo le elezioni di metà mandato, la campagna di Trump ha ripreso forza, sia grazie agli errori dei suoi rivali, in particolare il governatore della Florida Ron DeSantis, che alla notorietà mediatica improvvisamente ritrovata a causa delle diverse incriminazioni a suo carico.
Al momento in cui sto scrivendo questo articolo, il vantaggio di Trump sui suoi principali rivali delle primarie presidenziali repubblicane è, in media, di circa 40 punti percentuali nei sondaggi, un distacco che a questo punto della campagna elettorale sembra quasi impossibile da recuperare.
Tuttavia, un recente sondaggio Reuters/Ipsos sostiene anche che, sebbene la stragrande maggioranza dei repubblicani ritenga che Trump sia stato incriminato per motivazioni politiche, in caso di condanna Trump potrebbe comunque perdere una buona parte del proprio supporto:
Il 45% degli elettori repubblicani afferma, infatti, che non intenderebbe votare per Trump alle primarie nel caso in cui venisse condannato da una giuria (contro il 35% che continuerebbe a farlo). Il 52% degli elettori repubblicani afferma, inoltre, che non intenderebbe votare per Trump se nel frattempo finisse in carcere al momento delle elezioni (contro solo il 28% che afferma che sarebbe intenzionato a farlo comunque anche in quel caso)
In questo contesto, è da inserirsi la richiesta del procuratore speciale del Dipartimento di Giustizia, Jack Smith, che ha chiesto alla giudice Tanya Chutkan, colei che si occuperà di gestire il processo contro l’ex presidente per le accuse relative al tentativo di ribaltamento del voto, di dare il via al dibattimento in aula il 2 gennaio 2024.
L’intento è quello di arrivare ad una sentenza finale entro l’inizio di marzo: ciò significherebbe che una possibile condanna di Trump potrebbe arrivare in tempo per il “supermartedi”, ovvero il giorno chiave delle primarie quando si voterà in molti degli Stati più popolosi.
Questo è anche il motivo principale per cui i legali di Trump si oppongono e chiedono invece di posticipare la data di inizio di questo processo addirittura a dopo le elezioni presidenziali di novembre, una richiesta che molto probabilmente sarà bocciata dalla giudice Chutkan perché immotivata.
Tutto ciò significa che il risultato di questo processo potrebbe ancora avere l’effetto di un terremoto e ribaltare il risultato di primarie che al momento, almeno guardando ai sondaggi, sembrano avere un risultato già scritto sulla pietra.
Occorre anche tenere in considerazione il fatto che, successivamente, è già previsto l’inizio di altri due processi contro Trump: il primo è previsto per il 25 marzo 2024, e riguarda le accuse presentate dal procuratore distrettuale di Manhattan, Alvin Bragg, relativamente alla falsificazione di registri aziendali della Trump Organization per coprire il pagamento in nero avvenuto poco prima delle elezioni del 2016 a favore di una pornostar, Stormy Daniels, in cambio del suo silenzio su una precedente relazione extraconiugale con Trump; successivamente il 20 maggio 2024, a Fort Pence, in Florida, è previsto l’inizio del processo per le altre accuse presentate dal procuratore speciale Jack Smith, questa volta riguardanti la scorretta gestione dei documenti altamente riservati tenuti illegalmente da Trump (secondo l’accusa) nel suo club di Mar-a-Lago, potenzialmente compromettendo la sicurezza nazionale.
In entrambi i casi, potenziali condanne potrebbero arrivare poco dopo la fine della parte contestata delle primarie, ma quasi certamente prima della prossima Convention repubblicana che formalmente deciderà chi sarà il prossimo candidato repubblicano alla presidenza alle elezioni presidenziali del prossimo anno.
L’impopolarità di Biden e le preoccupazioni per la sua età
Se i repubblicani sembrano dunque, almeno per ora, intenzionati a riconfermare Trump come candidato alla presidenza a meno di sorprese nelle aule di tribunale, anche tra i democratici i giochi sembrano già essere fatti.
Nonostante il fatto che sia il presidente in carica in cerca della rielezione, Joe Biden affronta comunque problemi significativi in termini di bassa popolarità.
La media attuale di FiveThirtyEight mostra una popolarità del presidente pericolosamente vicina ai minimi storici del 40%, vale a dire un netto negativo di -15 punti percentuali rispetto alle opinioni positive espresse nei suoi confronti.
Per fare un paragone, nello stesso periodo del suo mandato elettorale, Trump aveva su FiveThirtyEight un valore netto negativo nei sondaggi sulla popolarità pari a -12,7 ed alla fine, come abbiamo visto, ha perso la sua campagna per la rielezione.
L’alta impopolarità di Biden è da attribuirsi, secondo diversi esperti, principalmente a fattori come l'alta inflazione ed una situazione economica peggiore del previsto per la classe media americana.
Tuttavia, a preoccupare la Casa Bianca sono anche le riserve espresse nei sondaggi da molti elettori sulla sua capacità di governare per un altro mandato a causa della sua età avanzata.
In ogni caso, nonostante tutto questo, le prospettive per la rielezione di Biden non sono poi così negative: dopo l’annuncio della sua ricandidatura alla presidenza, solo alcuni candidati minori, come il candidato ‘no vax’ Robert F. Kennedy Jr. e la scrittrice Marianne Williamson, hanno deciso di sfidarlo.
Nessuno di questi, comunque, sembra poterlo impensierire seriamente alle primarie democratiche.
Inoltre, nonostante la sua impopolarità, Biden sembra ancora avere dalla sua alcuni vantaggi per le elezioni generali rispetto al suo probabile sfidante, Trump: prima di tutto il fatto che anche l’ex presidente è molto impopolare e secondo alcuni sondaggi anche più di Biden.
Inoltre, va tenuto presente i democratici hanno vinto quasi tutte le recenti elezioni speciali che si sono tenuto nel corso del 2023 grazie alla mobilitazione sempre maggiore dell'elettorato democratico su questioni come il ripristino del diritto all'aborto, che è diventato un vero e proprio cavallo di battaglia per i democratici dopo l’abolizione della sentenza Roe vs Wade.
Per tutti questi motivi, nei mercati online delle scommesse come PredictIt, la possibilità di vittoria della rielezione da parte di Biden viene quotata al momento attorno al 45% contro il 30% che scommette per la vittoria dell’ex presidente Trump.
È importante sottolineare, ovviamente, che sebbene le quote delle scommesse possano offrire una visione interessante sulle percezioni pubbliche, non si tratta di un indicatore affidabile o scientifico dell'esito delle elezioni.
Tuttavia, bisogna sempre tenere in considerazione che manca ancora moltissimo tempo rispetto al giorno delle elezioni e che nel frattempo, è molto probabile che anche il presidente Biden si troverà di fronte a nuove pesanti sfide legali e politiche.
I repubblicani alla Camera dei Rappresentanti hanno già promesso di avviare una procedura di impeachment contro il presidente per via degli affari della sua famiglia, in particolare di suo figlio Hunter Biden, sebbene al momento manchi una chiara prova che dimostri come il presidente in carica abbia potuto ottenere un qualsiasi vantaggio indebito da questi affari.
Inoltre, con l'ulteriore potere assegnato qualche giorno fa con la nomina a procuratore speciale di David Weiss, il procuratore del Delaware che sta indagando su Hunter Biden, c'è la possibilità concreta che il presidente possa affrontare la procedura di impeachment alla Camera, mentre contemporaneamente suo figlio sia sotto processo in tribunale per le accuse riguardanti l’evasione fiscale ed il possesso illegale di armi da fuoco.
In un ambiente politico così polarizzato, è comunque davvero difficile prevedere in che modo tutta questa complicata situazione possa influenzare le prossime elezioni, soprattutto considerando i tanti problemi legali cui si trova di fronte anche il suo probabile avversario.
Il panorama desolante delle prossime elezioni e la loro importanza
Arrivati a questo punto, è diventato evidente il motivo per il quale una netta maggioranza di americani afferma che preferirebbe non rivedere lo scontro tra Biden e Trump nel prossimo voto presidenziale.
Oggettivamente, non si è mai visto prima d’ora un duello tra due candidati alla Casa Bianca così impopolari nell’elettorato e che rischiano di passare buona parte della propria campagna elettorale impegnati in altre faccende più personali.
Questa situazione offre il potenziale per scene senza precedenti della politica americana, con i media divisi e pronti a seguire i processi che più li appassionano e con il risultato delle elezioni che rischia di essere più dipendente dalle scelte dei giurati nei processi che da quelle degli elettori.
Indubbiamente, non era questa la situazione a cui pensavano i Padri Fondatori quando hanno designato e scritto la Costituzione americana.
Tuttavia, bisogna anche essere in grado di accettare la dura realtà per ciò che è: vale a dire che è arduo immaginare un prossimo turno elettorale senza un nuovo duello tra Biden e Trump.
Per quanto desolante possa essere questa prospettiva, non bisogna assolutamente dimenticare che si tratterà, in ogni caso, della più importante elezione da molti decenni a questa parte.
In tanti temono, infatti, che una nuova vittoria di Trump possa portare a involuzioni autoritarie significative nella politica e nella società americana, anche se i suoi sostenitori vedono tutto questo come un necessario sviluppo del sistema americano.
Gli stessi sottolineano i successi economici durante il suo mandato o la sua audacia nel rinegoziare accordi internazionali come elementi positivi a favore di una presidenza forte.
Come lo stesso Obama ha recentemente detto al presidente Biden, una nuova vittoria di Trump è tutt’altro che impossibile. Ma quanto avvenuto il 6 gennaio 2021, rappresenta una macchia indelebile sull’immagine dell’ex presidente.
Le sue recenti minacciose dichiarazioni sulla necessità di mettere il Dipartimento di Giustizia sotto il controllo diretto del presidente, così come le promesse di aprire indagini contro i propri oppositori politici e di ripulire il governo americano dal cosiddetto “Deep State”, non lasciano ben sperare per le prospettive di un secondo mandato presidenziale.
Inoltre, è oggettivamente difficile ipotizzare in che modo i democratici possano convivere con una nuova presidenza Trump, dopo che lui ha passato gli ultimi anni a non riconoscere come legittima la vittoria dei suoi rivali alle scorse elezioni.
Allo stesso tempo, anche una eventuale nuova sconfitta su misura di Trump potrebbe aiutare solo per riattizzare il fuoco della violenza politica, a cui alcuni degli esponenti repubblicani più estremisti, almeno a parole, si stanno apparentemente già preparando.
Nei giorni scorsi, due tra gli esponenti più vicino a Trump del Partito Repubblicano, hanno rilasciato dichiarazioni decisamente discutibili, che non hanno avuto la necessaria attenzione mediatica solo perché ormai sono diventate la “nuova normalità” politica (e questo, di per sé, già la dice tutta).
Su un palco di un town hall, la deputata della Georgia Marjorie Taylor Greene, si è detta a favore della proposta di uno dei partecipanti di “fucilare” gli esponenti del partito democratico in quanto “traditori del popolo americano”.
Pochi giorni dopo il deputato della Florida Matt Gaetz, presente sul palco della Fiera in Iowa di fianco all’ex presidente Trump, ha detto senza mezzi termini che “solo l’uso della forza” potrà porre fine alla corruzione di Washington, DC.
Si tratta di toni molto simili a quelli già sentiti prima del 6 gennaio. Già all’epoca, a chiunque mi chiedeva un commento, rispondevo: “se queste incitazioni alla violenza continueranno, ben presto la situazione potrebbe andare fuori controllo”.
Visto ciò che poi è accaduto il 6 gennaio (è brutto essere una Cassandra, ma avevo pienamente ragione), è concepibile il motivo per il quale anche oggi sono seriamente preoccupato per ciò che potrebbe accadere il prossimo anno nel caso di un’altra elezione contestata.
Va ricordato in ogni caso che ci sono stati anche molti altri esponenti repubblicani che hanno preso le distanze da dichiarazioni di questo tipo, sottolineando che non rappresentano la visione complessiva del Partito. Ahimè, per ora restano ancora troppo pochi.
Tuttavia, anche una forte vittoria da parte democratica non risolverebbe da sola tutti i problemi esistenti: la mancanza di un forte partito politico di opposizione che sia in grado di governare secondo le regole democratiche dell’alternanza politica senza il rischio di violenze e involuzioni autoritarie, rappresenta, infatti, di per sé, un problema estremamente serio per il futuro della democrazia americana.
Per il bene di questo Paese è dunque fondamentale che anche l’elettorato repubblicano, che oggi viene attratto così fortemente dalle sirene del populismo, sia in grado di rendersi conto il prima possibile che la strada che hanno deciso di intraprendere è molto pericolosa e che occorre fare retromarcia prima che sia troppo tardi.
Una cosa comunque è già certa: se la situazione negli USA dovesse peggiorare, i principali beneficiari sarebbero i suoi storici avversari, soprattutto la Russia di Putin, che non vedono l’ora di mostrare al mondo il fallimento del modello americano.
Man mano che le elezioni si avvicinano è probabile che la macchina propagandistica russa intensifichi il suo sostegno aperto a Trump, nella speranza di alimentare ulteriore caos e violenza.
Per questo motivo, è vitale più che mai che il governo americano faccia ancora una volta di tutto per proteggere il sistema elettorale americano dalle interferenze straniere e lasciare che gli elettori americani possano decidere liberamente del proprio futuro senza essere soggetti alla propaganda di Paesi ostili.
Tutto questo ci porta alla conclusione che in queste elezioni sarà in gioco anzitutto il ruolo degli Stati Uniti come baluardo della legge e dello Stato di diritto, proprio in un momento in cui tutto ciò (ed in generale la democrazia) è sempre più in erosione anche nel resto del mondo.
Queste elezioni rappresenteranno, perciò, un momento chiave nella battaglia in corso in tutto il mondo per difendere la libertà e la democrazia da coloro che vogliono minacciarla
“Nella lunga storia del mondo, solo a poche generazioni è stato concesso il ruolo di difendere la libertà nel momento di massimo pericolo. Non mi sottraggo a questa responsabilità, anzi la accolgo con piacere”, ha detto il compianto presidente John Fitzgerald Kennedy nel suo discorso inaugurale del 21 gennaio 1961.
Il prossimo novembre rappresenta il momento in cui sarà la nostra generazione ad indossare questo mantello e decidere cosa fare del proprio futuro, cosciente del fatto che non è più in gioco solo il destino di Trump, di Biden, ma il destino stesso degli Stati Uniti d’America e delle sue libertà. E stavolta, più che mai, questa non è una esagerazione.