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Perché la tregua a Gaza non significherà la fine del conflitto israelo-palestinese

Israele e Hamas sono vicine, come mai prima d’ora, alla firma di un cessate il fuoco a Gaza nei colloqui in corso a Doha in Qatar. Cosa vuol dire e cosa succede adesso.
A cura di Giuseppe Acconcia
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Dopo 15 mesi di conflitto, Israele e Hamas sono vicine, come mai prima d'ora, alla firma di un cessate il fuoco a Gaza nei colloqui in corso a Doha in Qatar. La tregua significherà prima di tutto la fine delle operazioni militari israeliane a Gaza. Ma non solo, si avvierà una fase di scambio degli ostaggi israeliani, 61 dovrebbero essere ancora in vita dei 251 israeliani catturati da Hamas negli attacchi del 7 ottobre 2023.

La metà degli ostaggi israeliani era stata rilasciata nella prima tregua di 7 giorni, raggiunta tra il 24 e il 30 novembre 2023. In cambio le autorità di Tel Aviv rilasceranno mille prigionieri palestinesi, 250 dei quali saranno liberati in cambio di cinque soldatesse israeliane. Nella prima fase, i primi 60 giorni, 34 ostaggi verranno rilasciati mentre l'esercito israeliano (Idf) dovrebbe avviare il ritiro dal Nord della Striscia dove potrebbero rientrare i palestinesi che hanno trovato rifugio nel Sud di Gaza.

Dopo 16 giorni inizieranno i colloqui per definire la seconda fase della tregua in cui saranno rilasciati i rimanenti ostaggi, inclusi soldati, e saranno consegnati i corpi degli israeliani ancora presenti nella Striscia. Nella terza fase sarà avviata la ricostruzione di Gaza. Hamas avrebbe voluto il completo ritiro di Idf prima di acconsentire al rilascio degli ostaggi. Tra le condizioni poste dal gruppo che governa la Striscia c'è quella di visionare le mappe delle aree da cui Idf dovrebbe ritirarsi, incluso Netzarim, al centro di Gaza, il campo di Jabalia, il corridoio Philadelphi al confine con l'Egitto e Rafah. Le autorità israeliane avrebbero voluto invece la fine politica di Hamas prima di aderire alla tregua e in ogni caso non si ritireranno dalla Striscia prima della liberazione di tutti gli ostaggi.

Perché ora e il fattore Trump

Il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha più volte fatto saltare il tavolo negoziale. I politici israeliani conservatori temono che la fine delle ostilità possa esacerbare le divisioni interne e inasprire la crisi politica, segnata da mesi di proteste anti-governative. In particolare il ministro della Difesa, Itamar Ben- Gvir si è detto contrario a qualsiasi intesa con Hamas, mentre proseguono a Tel Aviv le proteste delle famiglie degli ostaggi e di chi ne chiede la liberazione. “Israele e Hamas non concordano su quello che vogliono al di là della tregua. Israele vuole un cessate il fuoco temporaneo che permetta il ritorno degli ostaggi. Ma non sono molto entusiasti su questo punto perché nello stesso momento in cui si raggiunge la tregua il governo israeliano può
cadere perché gli elementi più radicali potrebbero lasciare l'esecutivo”, ci ha spiegato lo storico dell'Università della California (Ucla), James Gelvin.

“E così gli israeliani non sono ansiosi di ottenere una tregua. Hamas vuole un cessate il fuoco che gli permetta di continuare ad esistere. Israele non lo permetterà. Quello che è cambiato nelle ultime settimane è l'elezione di Donald Trump negli Stati Uniti che sta avendo effetti molto significativi. Durante la guerra del Vietnam, con la presidenza di Richard Nixon, si parlava della ‘dottrina del folle'. Se i vietnamiti pensavano che avevano a che fare con qualcuno di completamente folle, che avrebbe fatto qualsiasi cosa per vincere la guerra, anche usare la bomba atomica, avrebbero voluto negoziare. In questo caso, Hamas vuole un cessate il fuoco ma Trump ha detto che se non accettano tutte le condizioni ‘soffriranno le pene dell'inferno'. Questo approccio non intimidisce Hamas più di tanto perché già ha visto fuoco e distruzione a Gaza. E così se ci sarà una tregua sarà perché Israele e Hamas realizzeranno che non avere il cessate il fuoco sarà più costoso che averlo”, ha concluso Gelvin.

A confermare che l'intesa sia ad un passo prima dell'insediamento di Trump alla Casa Bianca il prossimo 20 gennaio, sono arrivate le parole del Segretario di Stato Usa, Antony Blinken, al Consiglio Atlantico. Prima di essere interrotto da un contestatore che gli ha rimproverato che sarà ricordato come “il segretario del genocidio per il sangue versato di centinaia di persone innocenti”, Blinken ha sottolineato che Israele deve “abbandonare l'idea di un'annessione de facto” della Striscia sostenendo che è necessario che il Medio Oriente entri “in una nuova realtà” e che sia più stabile e integrato di come lo è stato fin qui. Blinken ha anche fatto riferimento alla possibilità che Gaza e la Cisgiordania siano governate da un'Autorità nazionale palestinese riformata. E all'eventualità di un dispiegamento di forze militari dei paesi arabi confinanti per garantire il rispetto dei termini dell'accordo.

Perché la tregua non significa la fine della guerra

La tregua a Gaza non significa la fine del conflitto israelo-palestinese. La guerra va avanti da quasi ottant'anni e non è iniziata il 7 ottobre 2023, come hanno tentato di far credere le autorità israeliane. La politica delle colonie in Cisgiordania impedisce la creazione di uno stato palestinese indipendente,
rendendo difficile l'attuazione della soluzione dei due stati, evocata da politici e diplomatici. Gaza continuerà ad essere sotto assedio e subirà la presenza permanente dei militari israeliani anche nella fase di ricostruzione.

Tel Aviv ha rimesso le mani sulle Alture del Golan, in parte rioccupate da Israele dopo la fine del regime di Bashar al-Assad in Siria lo scorso 8 dicembre, in violazione degli accordi del 1974. I palestinesi che nel 1948 hanno lasciato le loro case, in molti casi riparandosi in campi profughi che sono diventati veri e propri quartieri a Beirut e a Damasco per esempio, continuano a difendere il loro diritto per il ritorno. Lo status quo della moschea di al-Aqsa, luogo di preghiera per i musulmani e di visita per i non musulmani, continua ad essere messo in discussione così come lo status di Gerusalemme Est che dovrebbe essere la capitale di uno stato palestinese, estremamente frammentato in queste condizioni.

Non solo, le autorità israeliane dovranno rispondere delle accuse di genocidio che hanno innescato una mobilitazione internazionale a sostegno della causa palestinese senza precedenti. Lo scorso novembre, la Corte penale internazionale (Cpi) ha emesso mandati di arresto per il premier israeliano Benjamin
Netanyahu, il suo ex ministro della Difesa, Yoav Gallant, e per il capo militare di Hamas, Mohammed Deif, per “crimini contro l'umanità” commessi dopo gli attacchi del 7 ottobre 2023. Netanyahu e Gallant sono a rischio di arresto se si recano nei 125 paesi che hanno firmato il trattato di Roma che ha fatto nascere la Cpi.

La catastrofe umanitaria

Gli attacchi del 7 ottobre 2023, costati la vita a 1200 israeliani, hanno dato il via al genocidio in corso a Gaza con oltre 46mila morti, di cui oltre il 70% sono donne e bambini. Eppure secondo la rivista britannica The Lancet, i morti sarebbero il 40% in più e potrebbero toccare gli 80mila. A Gaza è in corso una catastrofe umanitaria che ha prodotto oltre 2 milioni di sfollati su una popolazione di 2,4 milioni di persone e la distruzione di oltre l'80% degli edifici della Striscia, incluse scuole e università. Anche gli ospedali, come al-Shifa, e i campi profughi, come quello di Khan Younis, sono stati presi di mira dall'esercito israeliano (Idf) con il pretesto che avrebbero ospitato terroristi. Non solo, con il passare del tempo i crimini di guerra commessi dall'Idf hanno coinvolto tutta la macchina degli aiuti umanitari. Per esempio questo è avvenuto nel caso dell'Ong World Central Kitchen (WCK). Sette lavoratori della Wck sono stati uccisi da un raid dell’esercito israeliano a Gaza dopo aver consegnato cento tonnellate di aiuti a Deir al-Balah.

Nella guerra hanno perso la vita circa 280 operatori umanitari molti dei quali lavoravano per le Nazioni Unite. La stessa agenzia Onu per i rifugiati (Unrwa) e il Segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, dichiarato da Tel Aviv “persona non grata”, sono stati presi di mira da Israele per i loro interventi a sostegno del popolo palestinese. Infine, la guerra è stata combattuta contro la libertà di stampa. Sono stati oltre 200 gli operatori dell'informazione uccisi fin qui nel conflitto.

I raid israeliani sono andati avanti anche nelle ultime ore nei campi di Balata e Jenin in Cisgiordania dove sono stati uccisi 8 civili, tra cui una donna ottantenne, e a Deir al-Balah e Khan Younis a Gaza dove sono state uccise 18 persone, tra cui 4 bambini. La tregua nella Striscia di Gaza aprirà una nuova fase del conflitto israelo-palestinese. In questo contesto, sarà necessario valutare quale sarà il futuro politico di Hamas, che sembra aver trovato una nuova guida nel fratello Mohammed del carismatico leader, Yahya Sinwar, ucciso nei raid israeliani dello scorso ottobre.

Eppure non è chiaro se Hamas potrà mantenere il controllo della Striscia o dovrà acconsentire a un accordo più ampio con l'Autorità nazionale palestinese, al potere in Cisgiordania. E poi è importante valutare se sarà rispettata la tregua in Libano, dopo la nomina del nuovo presidente, Joseph Aoun e del premier, Nawaf Salam. E come reagirà l'Asse della resistenza al possibile cessate il fuoco a Gaza, in seguito all'indebolimento del movimento sciita libanese Hezbollah, dopo l'uccisione di Hassan Nasrallah lo scorso settembre, e più in generale al ridimensionamento della rete sostenuta dall'Iran dopo la fine del regime di Bashar al-Assad in Siria.

Restano invece molto attive le altre milizie sciite presenti nella regione, a partire dagli Houthi in Yemen che continuano a colpire direttamente il territorio israeliano. Dal 7 ottobre 2023, il conflitto israelo-palestinese, dopo anni di oblio, è tornato al centro delle cronache e delle agende geopolitiche della diplomazia internazionale. E quindi, qualsiasi siano i risultati dei colloqui di Doha, la pace tra israeliani e palestinesi sarà in ogni caso centrale per il futuro del Medio Oriente.

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Giuseppe Acconcia è giornalista professionista e docente. Insegna Stato e Società in Nord Africa e Medio Oriente all’Università di Milano e Geopolitica del Medio Oriente all’Università di Padova. Dottore di ricerca in Scienze politiche all’Università di Londra (Goldsmiths), è autore tra gli altri de “Taccuino arabo” (Bordeaux, 2022), “Le primavere arabe” (Routledge, 2022), Migrazioni nel Mediterraneo (FrancoAngeli, 2019), Il grande Iran (Padova University Press, 2018).
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