Per quanto la situazione sul campo di battaglia sia in stallo, e non si intravedano spiragli negoziali concreti al netto di qualche timida apertura di facciata, abbiamo perlomeno capito che ci sono solo due modi in cui può finire la guerra in Ucraina. Il primo è quello che prevede una vittoria di Kiev, coi russi ricacciati al di là dei confini che hanno violato il 24 febbraio scorso. Il secondo è quello che prevede un cessate il fuoco coi russi ancora insediati nel Donbass e in alcune città dell’Ucraina meridionale come Kherson.
Sappiamo anche che la prima strada è quella che prevede un’inevitabile estensione del conflitto per i mesi o gli anni a venire, poiché nessuno dei due eserciti sembra avere la forza di prevalere sull’altro. Che è una strada che porterà numerose vittime civili, poiché la strategia della Russia – che ha perso decine di migliaia di soldati sul campo in meno di tre mesi – sembra essere quella di sparare missili sulle città. Che è una strada che prelude un progressivo inasprimento delle sanzioni economiche alla Russia, soprattutto sul versante dell’energia, con inevitabili conseguenze sulle economie globali. E che finirà per spingere inevitabilmente Mosca tra le braccia di Pechino, più di quanto non sia già avvenuto sinora.
La seconda strada non è meno irta di problemi, del resto. È la strada che porterebbe inevitabilmente a concedere a Vladimir Putin il controllo su pezzi di un Paese che ha invaso, e che pertanto legittimerebbe l’aggressione militare come strumento di conquista. Dando allo Zar di Mosca – e non solo a lui: le voci di una prossima invasione cinese di Taiwan si fanno sempre più insistenti – il viatico per riprovarci. È una strada, peraltro, che dopo la resa in Afghanistan, mostrerebbe plasticamente l’impotenza degli Stati Uniti e della Nato nell’esercitare il ruolo di grande potenza globale. È una strada, in ultimo, che sembra essere invisa – almeno per ora – alla classe politica e all’opinione pubblica ucraina, che almeno in teoria dovrebbero essere gli unici ad aver voce in capitolo su cosa fare. E che di fronte a una trattativa condotta sulla loro pelle, potrebbero legittimamente decidere di non starci, e continuare una guerra partigiana a bassa intensità che potrebbe riaccendersi da un momento all’altro.
Se si mettono sul piatto della bilancia le conseguenze delle due opzioni ben si capisce perché l’Occidente sia letteralmente spaccato in due. Da un lato l’Europa – soprattutto quella Occidentale – che ha un conflitto alle porte e ha paura di una sua estensione, che dipende dal gas russo e che vorrebbe evitare di ritrovarsi nella morsa letale di inflazione e recessione, dopo due devastanti anni di pandemia. Dall’altro lato gli Stati Uniti d’America, che vedono in Putin una minaccia alla loro supremazia e sono persuasi dall’idea che un regime change a Mosca riporterebbe la Russia nell’alveo dell’influenza Occidentale, evitando che si saldi l’asse di Mosca con Pechino.
Le recenti parole di Macron sulla necessità di non umiliare Putin – tradotto: col nemico bisogna trattare, non sconfiggerlo – cui ha fatto seguito, al netto delle dichiarazioni di facciata, il medesimo concetto espresso da Draghi in visita da Biden a Washington, sono la dimostrazione plastica di questa spaccatura. Una spaccatura che era nell’ordine delle cose già prima del 24 di febbraio, certo, ma che complica ulteriormente il quadro, perché manda segnali confusi e ambigui alle parti in causa impegnate nel conflitto. Mettetevi nei panni di Zelensky: deve scommettere su Biden che gli dona 40 di miliardi di dollari in armi – più del nostro budget di difesa annuale, tanto per essere chiari, che ammonta a 26 miliardi – o a Germania, Italia e Francia che provano in ogni modo a farlo sedere al tavolo con Putinprovano in ogni modo a farlo sedere al tavolo con Putin?
È evidente che sia proprio questa divisione ad aver generato l’attuale situazione di stallo. E che, salvo sconvolgimenti allo stato attuale difficilmente ipotizzabili sul campo di battaglia, questa situazione di stallo perdurerà fino a che Usa ed Europa non si metteranno d’accordo su quale sia la strada che l’Occidente deve perseguire. Se, in ultima istanza, prevarranno gli interessi americani o quelli europei. Fino ad allora, ogni giorno sarà uguale a quello precedente. E, comunque vada, non sarà un buon giorno.