Una rete di parlamentari europei di sinistra che prendeva soldi da Qatar e Marocco per parlar bene di un regime che ripudia i diritti umani e per fare accordi commerciali con un altro che opprime le minoranze, con corollario di valigie piene di denaro contante e organizzazioni non governative come “Fight impunity”, dai nomi che trasudano progressismo usate come scatole cinesi per incamerare finanziamenti illeciti. Il tutto, nel cuore di quell’Unione Europea faro dell’internazionalismo, della libertà di pensiero che oggi scopriamo essere una Tortuga popolata di affaristi senza scrupoli, del tutto nuda e inerme nel fronteggiarne le tentazioni.
Potete girarci intorno finché volete, nascondervi dietro tutti i muri di prudenza, garantismo e presunzione d’innocenza, far finta che si stia parlando di quattro mariuoli come Eva Kaili o Antonio Panzeri, o mele marce attorno alle quali è tutto puro e lindo. Potete, ma lo sapete benissimo che non è così. E basta anche solo fare due chiacchiere con qualche europarlamentare, presente o passato, per mettere nel cesto una collezione completa di “si sapeva”, “non sono i soli”, “così fan tutti”. Abbastanza per affermare, con ragionevole certezza, che quel che è stato sollevato dal Qatargate, o Maroccogate, non è che un lembo di un malaffare sistemico, multiforme, trasversale.
Certo, ogni storia ha i suoi colpevoli più colpevoli degli altri. E che questa volta faccia rumore l’albero che cade nella foresta della sinistra è quantomeno fisiologico. Per l’insopportabile puzza di doppia morale che la vicenda trasuda. Perché chi prendeva i soldi dal Qatar e dal Marocco faceva parte di quelle forze che, in teoria, avrebbero dovuto essere dalla parte degli ultimi, dei lavoratori, degli emarginati, dei perseguitati, delle fonti di energia rinnovabili. Perché quelle stesse forze politiche, senza un briciolo di vergogna, nascoste da un incredibile presunzione di impunità, puntavano il dito contro le destre sovraniste sospettate di intessere legami con la Russia di Vladimir Putin. O chiedevano che all’Ungheria Viktor Orban non ricevesse i fondi del Pnrr, a causa della corruzione del suo apparato politico.
Questa doppia morale, e la retorica che l’accompagna, indigna più delle valigie piene di denaro. Ma ancor di più imbarazza la quiescenza di chi per anni – decenni? – ha fatto finta di non vedere quel che stava succedendo. Ad esempio, che a Bruxelles e Strasburgo si decidesse tantissimo delle nostre vite – moltissime leggi che i Parlamenti nazionali devono semplicemente ratificare sono emanazione di direttive comunitarie – senza che vi fossero – e che ancora vi siano – processi democratici degni di tale responsabilità. Che la quantità di democrazia e di rappresentatività comunitaria sono inversamente proporzionali pure al numero abnorme di lobbisti e di gruppi di pressione politica che hanno messo le tende attorno ai palazzi del potere con la bandiera a 12 stelle.
Se questo vuol dire buttar via il bambino con l’acqua sporca e l’Europa così com’è non lo dobbiamo alla nostra indignazione, o al nostro giustizialismo sommario, ma al disastro che ha combinato chi aveva il compito di difendere questo esperimento politico. Detto in altre parole: oggi i sovranisti e i nazionalisti di tutto il continente si ritrovano a passeggiare tra le macerie dell’Unione Europea e dei partiti della sinistra socialista e democratica, senza aver nemmeno dovuto sprecare un bossolo.
Dire oggi che all’Unione Europea servano più democrazia, meccanismi di controllo più efficaci e un ritorno ai valori di Altero Spinelli, Konrad Adenauer, Jean Monnet, Altero Spinelli, Jacques Delors e chi più ne ha più ne metta nel Pantheon, è fuori tempo massimo e serve meno di zero. Perché sono cose che servivano anni e decenni fa, quando si andava avanti come se nulla fosse, fingendo di non vedere il marcio. Soprattutto, perché questa vicenda – se anche solo si fermasse a Kaili e Panzeri, sarà con ogni probabilità il viale lastricato su cui le destre marceranno verso il potere tra un paio d’anni scarsi, e le Nazioni si riprenderanno la sovranità perduta, e la competizione tra Paesi tornerà a prevalere sulla cooperazione internazionale.
Quanto questo possa far male a un Vecchio Continente stretto tra superpotenze, nel pieno dell’emergenza climatica e di un’epocale transizione tecnologica, con una guerra alle porte, e nuove ondate pandemiche all’orizzonte, ce lo racconteremo tra anni. Oggi tocca semplicemente prendere atto che qualunque fosse l’alternativa, non ce la siamo meritata abbastanza. E questo ci tocca.