L’inizio del secondo mandato di Donald Trump alla Casa Bianca si è aperto con una raffica di ordini esecutivi che mirano a smantellare, in modo rapido e spettacolare, molte delle politiche dell’era Biden, come promesso dal neopresidente in campagna elettorale.
Ma, se da un lato il clamore mediatico di tali iniziative trasmette un’idea di forza e urgenza, dall’altro all’osservatore attento risulta evidente come trasformare l’agenda di Trump in realtà sia un percorso più complicato del previsto.
Tra sfide legali, divergenze interne al Partito Repubblicano e procedure parlamentari complesse, il tutto in un contesto in cui la maggioranza di cui dispone il presidente al Congresso è molto più fragile di quanto appaia a prima vista, la strada per Trump è irta di ostacoli.
La battaglia sullo Ius Soli e i limiti degli ordini esecutivi
Uno dei casi più emblematici è quello che riguarda la cittadinanza automatica per nascita, il cosiddetto ius soli. Con un ordine esecutivo firmato nel suo primo giorno alla Casa Bianca, Trump intende negare la cittadinanza ai figli di immigrati irregolari nati in territorio statunitense, considerandolo un provvedimento necessario per arginare quella che definisce un’“immigrazione incontrollata”.
Tuttavia, negli Stati Uniti il diritto alla cittadinanza per nascita è storicamente tutelato dal XIV Emendamento della Costituzione, il cui testo — e la relativa giurisprudenza della Corte Suprema fin dal 1898 — stabiliscono che chiunque nasca sul suolo americano sia cittadino statunitense.
Non sorprende, quindi, che un vasto fronte di oppositori, tra cui associazioni per i diritti civili come l’ACLU e diversi procuratori generali di Stati a guida democratica, abbia già portato la questione davanti a una corte federale del New Hampshire.
Secondo molti costituzionalisti, è probabile che i giudici sospendano rapidamente l’ordine esecutivo, ritenendolo incompatibile con le garanzie costituzionali. Qualora la vicenda dovesse arrivare fino ai gradi più alti del sistema giudiziario e concludersi con una bocciatura definitiva, ciò evidenzierebbe la vulnerabilità degli ordini esecutivi stessi: strumenti potenti sul breve periodo, ma spesso facili da sospendere o ribaltare sul piano legale.
Per Trump si tratterebbe di un duro colpo, dal momento che uno dei punti centrali del suo programma — la stretta sull’immigrazione — rischierebbe di naufragare ancor prima di iniziare.
La vera battaglia in arrivo al Congresso
La verità è che, per meglio difendersi dalle sfide giudiziarie e trasformare in realtà i principali progetti annunciati in campagna elettorale — dalla riforma fiscale alla riorganizzazione delle agenzie federali, fino all’ulteriore irrigidimento delle politiche migratorie — Trump ha bisogno dell’approvazione di leggi federali.
Ed è proprio al Congresso, tra Camera e Senato, che la sua agenda rischia di impantanarsi.
Alla Camera dei Rappresentanti, i Repubblicani dispongono, infatti, di soli due seggi di vantaggio. In un contesto del genere, poche “defezioni” tra i deputati del Grand Old Party possono paralizzare qualsiasi disegno di legge.
Ciò nonostante, l’ala più conservatrice preme affinché si proceda con riforme il più possibile radicali, mentre i moderati temono di alienarsi l’elettorato indipendente, cruciale in vista della rielezione alle elezioni di midterm del 2026 (in cui si rinnova l’intera Camera e un terzo del Senato, oltre a molte cariche statali e locali).
Un primo assaggio di queste tensioni si è avuto nelle settimane precedenti all’insediamento, quando i Repubblicani non sono riusciti a trovare un accordo interno sull’aumento del tetto del debito per scongiurare un potenziale default.
La fazione più conservatrice esigeva imponenti tagli alla spesa pubblica come contropartita, mentre alcuni deputati moderati temevano le ripercussioni economiche e la sfiducia degli elettori di una decisione di questo tempo.
Ora che la scadenza per rivedere tale tetto si avvicina inesorabilmente, il GOP dovrà decidere se scendere a patti su questo argomento con i Democratici (accettando compromessi spesso invisi alla base trumpiana) o cercare faticosamente l’unità interna per evitare conseguenze finanziarie disastrose per gli Stati Uniti ed il mondo interno.
L’ostacolo del filibuster legislativo al Senato
Se la situazione appare delicata alla Camera, al Senato non è meno intricata: qui, il filibuster legislativo (un meccanismo che permette a una minoranza di senatori di prolungare il dibattito quasi all’infinito) rappresenta un vero ostacolo per l’approvazione di una legge da parte di qualsiasi forza politica che non disponga di 60 voti su 100.
Per approvare una legge e chiudere l’ostruzionismo (in termini tecnici, “cloture”), infatti, servono 60 senatori favorevoli; i Repubblicani ne hanno a disposizione soltanto 53, il che li obbliga a trovare difficili compromessi con i senatori democratici più centristi per superare questa soglia.
Il nuovo leader della maggioranza repubblicana, John Thune, ha già ribadito che il filibuster “non si tocca”, considerandolo un pilastro istituzionale che tutela le minoranze.
Esiste tuttavia una scappatoia: la budget reconciliation, una procedura che consente di far passare con una maggioranza semplice (51 voti) i provvedimenti strettamente legati a tematiche di bilancio federale, come tasse e spesa pubblica.
Il problema è che la budget reconciliation è soggetta a regole rigide: se un punto della legge non impatta in modo diretto e sostanziale il bilancio, deve essere eliminato dal testo ed approvato a parte con la procedura ordinaria, soggetta al filibuster legislativo.
A vigilare sull’applicazione di queste regole è la Parliamentarian del Senato, Elizabeth MacDonough, un’alta funzionaria indipendente incaricata, tra le altre cose, proprio di stabilire se le proposte legislative siano conformi o meno alle procedure di budget reconciliation.
Durante l’Amministrazione Biden, MacDonough ha già respinto diversi emendamenti della sinistra democratica sull’immigrazione, poiché non strettamente collegati alle questioni fiscali. È probabile, dunque, che l’approccio resti lo stesso anche per eventuali misure dei repubblicani su immigrazione e altri temi non prettamente economici.
Ciò rende altamente complicato per Trump far passare alcune parti della propria ambiziosa agenda conservatrice puntando solo su questo strumento. Ciò nonostante, posto che alla Camera i repubblicani mantengano l'unità, Trump potrebbe in questo modo riuscire quantomeno ad ottenere dal Congresso l'estensione della riforma fiscale del 2017 e maggiori fondi per combattere l'immigrazione irregolare.
Tra lacerazioni interne e rischio paralisi
Il problema per Trump è che, con il passare dei mesi, e soprattutto con l’avvicinarsi inesorabile della campagna elettorale per le elezioni di midterm del 2026, la pressione su deputati e senatori repubblicani per approvare parti importanti dell’agenda di Trump crescerà sempre di più.
È uno scenario di tensione quasi inevitabile dove, da un lato, i moderati e coloro che sono più a rischio di rielezione cercheranno di allontanare i provvedimenti più estremi per evitare di perdere la fiducia di un elettorato poco ideologico; dall’altro, l’ala dura del partito pretenderà l’approvazione di misure forti per dimostrare di aver rispettato la volontà degli elettori che hanno scelto Trump come paladino di una rivoluzione conservatrice.
L’esito di questo scontro potrebbe essere una serie di stalli, con proposte di legge incagliate per mesi alla Camera per mancanza di voti e poi ulteriormente azzoppate al Senato per rispettare le rigide regole della budget reconciliation.
In tal caso, la “tempesta” di ordini esecutivi firmati nel Day One rischia di restare un fuoco di paglia isolato: provvedimenti a forte impatto mediatico, ma potenzialmente destinati a una rapida sospensione da parte dei tribunali o a una facile revoca da parte di qualsiasi futura Amministrazione di segno opposto, ben lungi dalla promessa di Trump dell'inizio di una vera rivoluzione conservatrice, mentre l’approvazione delle leggi langue al Congresso.
La vera partita della presidenza Trump
Nel sistema statunitense, il principio di separazione dei poteri e il meccanismo dei checks and balances (pesi e contrappesi) mirano ad impedire che il potere esecutivo assuma una posizione dominante senza controllo. Trump, già nel suo primo mandato, ha mostrato la volontà di spingere al limite l’autorità presidenziale, ritrovandosi però a fare i conti con l’opposizione dei giudici federali e di parte del Congresso.
Questa volta, determinato ad accelerare ulteriormente, il presidente spera di beneficiare di un ambiente politico più favorevole e di una Corte Suprema a maggioranza conservatrice. Eppure, come la storia insegna, neppure una Corte in linea con i Repubblicani è disposta a ratificare indiscriminatamente ogni iniziativa della Casa Bianca, specie quando ci si muove in zone d’ombra rispetto alle prerogative costituzionali.
Per ottenere cambiamenti durevoli e strutturali, Trump sarà dunque costretto trovare difficili compromessi al Congresso per evitare che i dissidi interni al Partito Repubblicano sfocino in rotture definitive.
La seconda presidenza Trump, inaugurata tra altisonanti ordini esecutivi e grandi promesse di “rivoluzione conservatrice”, si trova perciò da subito davanti a un percorso tutt’altro che privo di ostacoli.
Nel complesso, ciò che appare chiaro è che la “grande svolta” conservatrice trumpiana non potrà realizzarsi in modo rapido né scontato: in un clima di fortissima polarizzazione politica, la vera incognita non è solo l’approvazione dell’ambiziosa agenda di Trump, ma la tenuta stessa di un sistema istituzionale messo nuovamente alla prova.