Mentre ci avviciniamo alla terza settimana di guerra, le attenzioni europee sono comprensibilmente concentrate su Mariupol, Kiev, Chernihiv, sulle colonne di sfollati ai confini occidentali dell’Ucraina, sulle condizioni delle centrali nucleari. Ma se vogliamo capire come il conflitto in Ucraina stia incidendo sull’assetto geopolitico globale, è il caso di tenere un occhio anche 2000 chilometri più a nord, oltre il circolo polare artico, dove un equilibrio sorvegliato da trent’anni di laboriosa cooperazione internazionale sta mostrando le prime crepe.
Lo scorso 3 marzo, sette stati membri del Consiglio Artico, il forum intergovernativo creato per discutere delle problematiche relative ai territori artici, si sono autosospesi dichiarando che non parteciperanno ai lavori finché continuerà l’aggressione russa in Ucraina. Questo significa che, attualmente, l’unico membro attivo nel Consiglio rimane la Russia, che fino al 2023 ne detiene la Presidenza.
Sulla carta, la mossa di Danimarca, Svezia, Finlandia, Canada, Islanda, Norvegia e Danimarca, potrebbe risultare come un gesto simbolico, ma è sufficiente osservare come negli ultimi dieci anni le coste artiche siano state pesantemente militarizzate, per capire che questa landa dimenticata è già ora uno dei punti più caldi dello scacchiere geopolitico mondiale.
Uno scrigno di risorse naturali pronto a essere aperto
Siamo abituati, per ragioni storiche e culturali, a considerare l’Artico come una terra lontana ed esotica, sostanzialmente spopolata e sostanzialmente lontana da interessi economici o commerciali, uno sfondo monocromatico buono per i documentari sulla fauna polare e i thriller a basse temperature. In realtà si tratta di una delle zone più ricche di risorse dell’intero pianeta.
Stando ai calcoli più recenti dell’Istituto Geologico degli Stati Uniti, i ghiacci che (per ora) coprono una buona parte del territorio e dei fondali artici custodiscono 412 miliardi di barili di petrolio e gas fossile, praticamente il 22% delle riserve globali, per un valore totale di 28.000 miliardi di dollari (per capirci, il prodotto interno lordo degli Stati Uniti non supera i 21.000 miliardi).
Oltre ai combustibili fossili, le terre artiche ospitano enormi giacimenti minerari, in particolare bauxite, diamanti, ferro, oro, apatite e altri fosfati (fondamentali per la realizzazione di fertilizzanti). Inoltre, lo scioglimento dei ghiacci groenlandesi sta rivelando giacimenti di terre rare, che come sappiamo sono indispensabili per la costruzione di batterie, pannelli fotovoltaici e altre tecnologie indispensabili per la transizione ecologica.
Che l’Artico sia uno scrigno di risorse naturali è noto da tempo, fino a pochi anni fa però queste risorse erano virtualmente inaccessibili, principalmente perché l’estensione dei ghiacci per buona parte dell’anno rendeva impossibile raggiungere le zone di estrazione o anche solo trasportare quanto estratto. Negli ultimi due decenni la situazione è cambiata: il ghiaccio artico si sta sciogliendo rapidamente, basti pensare che ne perdiamo circa il 13% ogni decennio, e che solo negli ultimi 30 anni la porzione più spessa e antica della calotta polare si è ridotta del 90%.
Di questo passo, entro il 2040 il Mar Glaciale Artico sarà completamente privo di ghiaccio nei mesi estivi. Il che non significa soltanto che queste risorse diventeranno presto accessibili, ma che si apriranno nuove rotte commerciali che diverse nazioni non vedono l’ora di rivendicare. Fino a soltanto due anni fa, il passaggio a nord-est, ovvero la rotta navale che collega il Mare del Nord e l’Oceano Pacifico costeggiando l’intera Siberia, era sostanzialmente impraticabile nei mesi invernali.
Tra il gennaio e il febbraio del 2021, la nave metaniera Christophe de Margerie ha completato un viaggio completo di andata e ritorno lungo questa tratta. Si è trattato di un evento epocale, che però è destinato a diventare la norma, se davvero, com’è probabile, i ghiacci artici continueranno a sciogliersi a questo ritmo. Non solo, di qui al 2030 ci si aspetta che l’assottigliarsi della calotta artica apra un tratto completamente nuovo, la cosiddetta rotta trans-polare, che consentirebbe di attraversare il Circolo Polare Artico tagliando direttamente per il polo.
Chi si prepara a rivendicare l’Artico
Nell’agosto del 2007 due sommergibili si sono spinti sotto la calotta polare, hanno raggiunto i fondali del Mar Glaciale Artico e hanno piantato una bandiera russa in corrispondenza del Polo Nord. Questa chiassosa spacconata arrivava dopo che la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare aveva bocciato la richiesta da parte della Russia di estendere del proprio dominio sulle acque artiche. Quella bandiera era sostanzialmente una dichiarazione d’intenti: la Russia si prepara ad accaparrarsi le risorse di buona parte del fondale artico, e a gestire una nuova rotta marina che consenta alle navi di raggiungere il Mediterraneo senza passare dal Canale di Suez.
Ad oggi, la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, firmata da 168 stati membri, stabilisce che solo 5 nazioni possano sfruttare le risorse dell’Artico, che poi sono quelle che hanno una costa affacciata sulle sue acque: Canada, Russia, Danimarca, Stati Uniti e Norvegia. Stando a questo documento, questi paesi possono rivendicare le zone di fondale in un raggio di 370 chilometri dalle proprie coste, una quota che può essere estesa a 560 chilometri per quelle aree che possono essere considerate parte della stessa piattaforma continentale.
Nei fatti, però, non c’è un vero accordo sui confini esatti di questa suddivisione. Il che è problematico; e lo è ancora di più se pensiamo che gli Stati Uniti non hanno ancora ratificato la Convenzione. In sostanza, mentre gli altri stati firmatari da tempo si stanno confrontando sui possibili confini delle rispettive competenze territoriali, gli USA siedono al tavolo delle trattative in silenzio. Alla luce di un assetto geopolitico sempre più teso, questo potrebbe portare a rendere nulli i (pochi) punti fermi segnati negli ultimi trent’anni, trasformando l’Artico nel tavolo di un pericoloso braccio di ferro.
Una guerra congelata (ancora per poco)
La bandiera russa piantata in fondo al Mar Glaciale Artico ha segnato l’inizio di un processo di militarizzazione delle coste artiche che dal 2007 non ha dato segni di rallentamento. Negli ultimi 15 anni la Russia ha riaperto diverse basi militari risalenti alla Guerra Fredda, ne ha create di nuove, ha costruito aeroporti e porti, ha reclutato due brigate artiche (9000 soldati in totale) e ha sancito l’indipendenza della Flotta Artica (240 navi, tra cui anche sottomarini nucleari) rispetto al resto del distretto militare settentrionale.
Questa corsa agli armamenti è particolarmente visibile nella penisola di Kola, unico territorio russo nella Fennoscandia, dove le immagini satellitari negli ultimi anni hanno rivelato un progressivo accumulo di bunker e strutture per l’alloggiamento di testate nucleari. Alcuni analisti sostengono che questa progressiva militarizzazione abbia principalmente uno scopo difensivo, il che avrebbe perfettamente senso, considerando che la costa artica russa è lunga 24.000 km (più di due terzi del perimetro dei territori russi affacciati sul mare) e che, con la crisi climatica, il rapido scioglimento della calotta polare la sta esponendo sempre di più a potenziali aggressioni. Ciò non toglie che la Russia abbia tutto l’interesse a instaurare un dominio nell’Artico.
Basti pensare che già oggi il 90% della sua produzione di gas e il 60% della produzione di greggio avviene in territorio artico, ed è qui che si trova il 60% delle riserve russe di idrocarburi. Insomma, l’Artico, con i suoi giacimenti, è cruciale per il tipo di orizzonte futuro a cui guarda Putin, ossia uno in cui la macchina produttiva russa e quella mondiale saranno ancora alimentate da combustibili fossili.
Ma come abbiamo visto, non è solo una questione di idrocarburi: ci sono i giacimenti minerari e le terre rare; c’è il fatto che già oggi Mosca ricava il 30% del suo pesce dall’Artico, e punta ad approfittare dello scioglimento dei ghiacci per massimizzare la produzione ittica; ma soprattutto: c’è una questione commerciale. Le rotte marittime che emergeranno dallo scioglimento della calotta artica rappresentano un’allettante opportunità economica e commerciale non solo per la Russia ma anche per altre nazioni come l’Australia e, in particolar modo, la Cina, che già punta a includere la rotta polare nella sua Nuova via della Seta.
Che l’Artico rientri anche nelle mire di Pechino, del resto, non è un mistero per nessuno: nel 2012 il governo di Hu Jintao ha definito la Cina “uno stato quasi artico”, chiedendo che il paese fosse ammesso nel Consiglio Artico con il ruolo di osservatore. Non c’è da stupirsi allora se negli ultimi dieci anni Russia e Cina hanno sviluppato una collaborazione sempre più stretta nell’Artico, e ancora meno sorprende la posizione attendista della Cina nei confronti del conflitto in Ucraina.
Un nuovo teatro di guerra?
Nel frattempo, lo strappo nel Consiglio Artico è ancora lontano dall’essere ricucito. In seguito all’abbandono dei sette paesi membri, il delegato russo Nikolai Korchunov ha dichiarato che per la Russia non c’è alternativa allo sviluppo ininterrotto dei suoi territori artici e che l’attuale presidenza russa si concentrerà sulle necessità interne rispetto alla regione. Tecnicamente, il Consiglio Artico è nato per favorire la cooperazione dei governi artici su questioni scientifiche e sociali, oltre che per fornire una piattaforma di confronto alle popolazioni indigene che abitano quei territori; non dovrebbe quindi occuparsi di questioni geopolitiche.
La Dichiarazione di Ottawa, firmata nel 1996, del resto lo dice chiaramente: “Il Consiglio Artico non ha ruolo per quanto concerne problematiche di sicurezza militare.” Negli ultimi anni, però, le cose hanno cominciato a cambiare. Nel 2019, l’allora Segretario di Stato americano Mike Pompeo ha dichiarato che la regione artica è diventata “un’arena per il potere e la competizione,” e che “gli otto stati artici devono adattarsi questo nuovo futuro.” Dichiarazione che che guadagna peso specifico a fronte della progressiva militarizzazione, negli ultimi 10 anni, delle coste artiche americane e di altre nazioni NATO come la Norvegia e il Canada.
Nel marzo del 2021, l’esercito statunitense ha pubblicato un documento intitolato “Regaining Arctic Dominance”, in cui viene esplicitamente riconosciuta l’intenzione di aumentare l’investimento militare entro il circolo polare artico. In un famoso discorso tenuto a Murmansk nel 1987, Michail Gorbačëv lanciò un appello affinché l’Artico fosse custodito come un “polo di pace”, un modello di cooperazione internazionale per il mondo intero. E in effetti per decenni l’Artico ha mantenuto, almeno in apparenza, il ruolo di un territorio al riparo dai conflitti. Ma questo eccezionalismo sembra avere i giorni contati. Se davvero Svezia e Finlandia entreranno a far parte della NATO, la Russia rimarrebbe l’unica nazione non-NATO nel Consiglio Artico.
E se la scelta di alcune compagnie petrolifere occidentali di tagliare i ponti con Mosca spingesse ancora di più la Russia in un sodalizio duraturo con la Cina, si andrebbero profilando nell’Artico due fronti sempre più distinti. Nel maggio del 2021, quando pochi ancora riuscivano a immaginare una guerra entro i confini geografici europei e le prime pagine dei giornali erano ancora dominate dalla pandemia, l’analista slovacca Katarina Kertysova aveva lanciato un monito che oggi suona cupamente realistico: “In assenza di un dialogo sulla sicurezza militare o di una piattaforma adatta a discutere problematiche di questo tipo, l’eventualità che si verifichino incomprensioni o errori di calcolo, con conseguenti escalation, sta diventando sempre più probabile.”