Che tempra questi politici. Emmanuel Macron è volato a Mosca, si è fatto sette ore di trattative con Vladimir Putin, conferenza stampa, cena (storione, cervo e torta di pere) al Cremlino, un breve sonno e poi via a Kiev, per un altro lungo colloquio con il presidente ucraino Zelensky. Pranzo (menu ignoto, in questo caso) e poi via a Berlino per un incontro con il cancelliere tedesco Scholz e il presidente polacco Duda, infine indietro a Parigi. Nei due mesi abbondanti in cui ci siamo terrorizzati con la prospettiva di un’altra guerra mondiale, nessuno dei leader che contano, e che si scambiano ogni giorno insulti e minacce, aveva mai tentato un simile tour de force. Ora non resta che interrogarsi sui risultati e sui potenziali sviluppi.
Certo, nessuno poteva aspettarsi che di botto Putin e Zelensky si scambiassero baci e abbracci. Però una cosa importante Macron, che non è tipo da uscite avventate, l’ha detta. Lasciando Kiev, ha annunciato ai giornalisti al seguito: “Ho capito che non ci sarà alcuna escalation”. Il che, in parole povere, significa niente guerra. Noi, qui su Fanpage.it , l’avevamo detto già un mese e mezzo fa, ma sentirlo dal leader francese fa ovviamente un altro e più consolante effetto. Sarà un caso ma il giorno dopo la trasferta macroniana, Dmitrij Peskov, portavoce del Cremlino, si è affrettato a dire che le truppe russe ora ammassate in Bielorussia nell’area di Brest, cioè a 200 chilometri dalla capitale polacca Varsavia e a 500 dal grosso centro ucraino di L’viv (Leopoli), torneranno a casa alla fine delle esercitazioni congiunte con le forze armate bielorusse. Molti, in Occidente, temevano invece che fossero destinate a restare lì in permanenza, ipotesi (questa sì, dopo tante sciocchezze) da far tremare le vene ai polsi perché a un passo dalla Nato la Russia ha trasferito anche i bombardieri strategici e il sistema missilistico S-400. Le dichiarazioni di Peskov, quindi, sono un evidente segnale di buona volontà dopo la missione diplomatica di Macron.
Gli accordi di Minsk
Il presidente francese, però, ha detto anche un’altra cosa. E cioè che “gli Accordi di Minsk sono la migliore garanzia per l’integrità territoriale dell’Ucraina”. Considerato che domani, proprio a Berlino, si ritroveranno i consiglieri politici dei Paesi (Russia, Ucraina, Francia e Germania) che nel 2015 sottoscrissero tali Accordi, le parole di Macron sembrano l’indicazione precisa di una strada da seguire. Subito dopo “invasione russa”, in questi mesi la locuzione “Accordi di Minsk” è stata la più pronunciata. Anche nelle scorse ore. Da Putin per accusare l’Ucraina di averli firmati ma di non volerli rispettare. Da Oleksy Danilov, segretario del Consiglio di Sicurezza dell’Ucraina, per accusare la Russia di averli “imposti con la minaccia dei cannoni” e per dire che applicarli “significherebbe la fine del Paese”.
Come sempre c’è del vero e del falso nell’una come nell’altra affermazione. E per capirlo bisogna dare un’occhiata ai famosi Accordi, che furono abbozzati nel settembre 2014 e firmati nel febbraio del 2015 nella capitale bielorussa, con Francia e Germania come garanti. Partiamo dalla “minaccia dei cannoni”: in effetti, in quei mesi, con la Russia all’offensiva (si era appena ripresa la Crimea), le istituzioni sbandate dopo il cambio violento di Governo a Kiev e un esercito in crisi, l’Ucraina non era certo in una posizione di forza. Si capisce quindi perché gli Accordi del 2015, alla fin fine, chiedevano a lei lo sforzo maggiore: amnistia per tutti gli insorti filorussi del Donbass, riforma della Costituzione per concedere una larga autonomia alla regione, elezioni anticipate, con modalità da concordare con gli esponenti delle Repubbliche autoprocalamate di Donetsk e Lugansk, per scegliere i deputati locali. Alle due Repubbliche e alla Russia (che nega peraltro di essere militarmente presente nella regione), si chiedeva “solo” di cessare le ostilità, ritirare tutte le armi pesanti e rimettere sotto il controllo delle autorità ucraine il vecchio confine tra Ucraina e Russia.
Un compromesso possibile
In tutti questi anni Russia e Ucraina hanno fatto esattamente il contrario. La Russia ha continuato ad appoggiare Donetsk e Lugansk, ha concesso il passaporto russo ai loro abitanti (tramutando così in attacco a cittadini russi qualunque azione ostile contro il Donbass) e ha siglato con le due Repubbliche un accordo di libero scambio, anticamera del riconoscimento ufficiale, peraltro chiesto con una mozione al Parlamento dal Partito comunista di Russia. L’Ucraina, per parte sua, ha fatto lo stesso: complice la pressione russa, ha blandito gli umori estremi del nazionalismo, tenacemente ostile a qualunque compromesso, tanto che ora nessun politico, forse nemmeno il presidente Zelensky, può permettersi di andare contro quella corrente. In questo dice il vero Danilov, il segretario del Consiglio di Sicurezza: se uno, oggi, pensasse di applicare gli Accordi di Minsk così come furono concepiti nel 2015, l’Ucraina salterebbe per aria.
Eppure ha ragione Macron. Da lì bisogna ripartire, in qualche modo. Bisogna assolutamente trovare un compromesso. La Russia non può pensare di mettersi in urto con Europa e Usa a tempo indeterminato. E Russia e Ucraina, con quei 1600 chilometri di confine comune, sono troppo interconnesse per farsi la guerra. L’Ucraina, senza il Donbass e senza un confine aperto con la Russia, pur con tutto l’appoggio occidentale, resterebbe un Paese zoppo, con poco futuro. Lo dimostrano i 6 milioni di migranti economici che hanno lasciato il Paese. E lo dimostra un fatto cui pochi hanno prestato la dovuta attenzione: nel 2021, con tutto quello che è successo e sta succedendo, il commercio tra Russia e Ucraina è cresciuto del 23%. La geografia e la storia non mentono, insomma, e i politici, prima o poi, dovranno prenderne atto.