Perché la Cina non si sta preparando a invadere Taiwan (almeno a breve)
Durante l’audizione della Commissione per le forze armate del Senato svoltasi nel Campidoglio di Washington DC il 10 maggio, la direttrice dell’Intelligence nazionale Avril Haines ha dichiarato che, da qui al 2030, la minaccia della Cina su Taiwan è “acuta” e Pechino “sta lavorando sodo per mettersi nelle condizioni di riprendersi Taipei”. La notizia, tuttavia, è stata ripresa da diversi media nazionali e internazionali sottolineando il pericolo ma, in alcuni casi, omettendo il prosieguo dell’analisi o decontestualizzando la vicenda.
Invasione rimandata
Prima di tutto, la stessa Haines insieme al tenente generale Scott Berrier, hanno affermato che ancora non sappiamo effettivamente quali lezioni Xi Jinping stia apprendendo dal conflitto ucraino. Infatti, come è valso storicamente per Hong Kong (è stato appena eletto un leader pro-Pechino alla sua guida), gli stessi analisti dichiarano che i cinesi “preferirebbero evitare la forza, utilizzando manovre pacifiche nel lungo periodo”. Uno dei modi potrebbe essere procedere attraverso la creazione di una maggiore integrazione economica con l’implementazione di un’area di prosperità comune. Ne sono un esempio le 12 misure rilasciate dal Taiwan Affairs Office lo stesso 10 maggio e riguardanti lo sviluppo dello Zhejiang nei confronti dell’isola di Formosa.
Soprattutto, sabato scorso Bill Burns, direttore della CIA, ha affermato "non penso che quanto accade in Ucraina abbia minato la determinazione di Xi per Taiwan, ma penso abbia influenzato i suoi calcoli sul come e sul quando farlo” Infatti, il Presidente cinese avrebbe voluto realizzare la riunificazione entro il 2025, o per lo meno questa era la preoccupazione dell'intelligence americana e del Ministro della Difesa taiwnaese nell’ottobre 2021. C’era persino chi riteneva fosse pronto a farlo dopo il Congresso di fine anno. Adesso, invece, si parla di un periodo più esteso, entro il 2030.
L’isola che c’è e non c’è
Inoltre, come spiegato qui su Fanpage a più riprese, Taipei non è Kiev così come Xi non è Putin. Il contrasto tra Cina e Taiwan viene considerato una questione di politica interna e non estera dalla gran parte dei paesi e organizzazioni al mondo, inclusi Onu e Oms. Persino gli Usa – che la supportano così apertamente – non riconoscono ufficialmente lo stato insulare e sposano il principio dell’Unica Cina dal 1979, nonostante lo abbiano modificato qualche giorno fa, eliminando il passaggio in cui Washington dichiarava di non sostenerne l’indipendenza.
Allo stesso modo, la Russia rappresenta tutto ciò che la Cina non vorrebbe essere. Putin si è formato in un impero in decadenza, Xi in un impera in ascesa. Il primo mira a un ordine passato, il secondo a un ordine futuro. La loro “amicizia senza limiti” è stata più volte drammaticamente messa alla prova, così come la tanto millantata alleanza, valida più nelle parole che nei fatti e, soprattutto, limitata all’opposizione verso il patto atlantico più che da altri grandi interessi economici e politici comuni.
Fastidiosi equilibrismi
Tra Cina e Russia, inoltre, è diverso anche l'approccio filosofico e militare, dalla concezione di egemonia russa (Russkiy Mir) e cinese (Tianxia), alla propensione all’intervento bellico. La Cina si pone in una situazione di maggiore forza militare rispetto alle altre potenze nel Mar cinese, ma questo non significa che sia in grado di contrastarle, come esemplificato dal conflitto in corso in Europa. È bene però ricordare, nelle parole del diplomatico Liu Xiaoming, che Pechino non ha “mai invaso altri paesi o ingaggiato guerre per procura" e, a differenza di occidentali e russi, non ha esperienze recenti sul campo o generali avvezzi alla battaglia.
Come ribadito poi da Kung Chan, fondatore del think tank cinese Anbound, Putin ha lamentato pubblicamente la propria delusione per il gigante asiatico. La Cina prosegue nel suo equilibrismo, da una parte dando voce sulla Xinhua al Ministro degli esteri ucraino Kuleba, il quale ha spiegato le ragioni di Kiev nella principale agenzia di stampa mandarina. Dall’altra, votando contro al Consiglio sui diritti umani dell’Onu in cui si vagliava l’indagine sui crimini di guerra del Cremlino. Le due azioni possono essere interpretate come segnali contrastanti verso Occidente e Russia, o più semplicemente come una volontà di riaffermare quanto questa guerra sia stretta a Pechino al pari del concetto di diritti umani universali e dei doppi standard occidentali, pronti a condannare abusi umanitari e crimini di guerra solo al di fuori delle proprie case.
Tensioni opinabili
La crescita delle tensioni tra Pechino e Taipei è perciò relativa. Come scritto su queste pagine il 26 aprile, i jet cinesi su Taiwan passano da anni e hanno raggiunto il picco delle incursioni mesi fa. Secondo i report taiwanesi, i database di Deutsche Welle e Agence France-Presse sono state 380 le incursioni nel 2020, oltre 700 nel 2021 e una quarantina tra gennaio e febbraio 2022. Quindi, per ora, la situazione ucraina ha effettivamente ridimensionato gli interventi. Secondo il William & Mary's Global Research Institute, l’invasione non sarà infatti imminente. L’analisi è tratta dal progetto Teaching, Research & International Policy (TRIP), il quale aggrega le opinioni di oltre 4500 studiosi di relazioni internazionali statunitensi. Questa stessa folla di ricercatori che ha previsto l’invasione russa in Ucraina un mese prima, ora per Taiwan prospetta l’abbandono da parte Usa della propria ambiguità strategica. Il 72% è convinto infatti che Washington interverrà militarmente in caso di attacco. Una scelta che rende le azioni di Xi molto più delicate rispetto a quelle di Putin, il quale non sta ingaggiando uno scontro diretto con Biden.
Di sicuro, nonostante le differenze, la situazione Ucraina è vissuta con una certa empatia dagli isolani, i quali – secondo i sondaggi del sito di informazione Formosa – percepiscono un pericolo maggiore rispetto al passato. Ad oggi, comunque, meno della metà dei taiwanesi (37%) crede che ci sarà un intervento militare e il 56% non ritiene che la guerra sia inevitabile nella risoluzione delle dispute tra Taipei e Pechino. Tuttavia, secondo una ricerca del Taiwanese Public Opinion Foundation, sempre più cittadini sono convinti che – complice anche la disfatta afghana – in caso di un’aggressione militare cinese nei loro confronti, saranno i giapponesi a intervenire e non gli Usa. The Economist ha invece sottolineato come prima che scoppiasse il conflitto ucraino i taiwanesi disposti a combattere fossero appena il 40% mentre ora sono 7 su 10, quasi il doppio. Sempre secondo il settimanale inglese, Taiwan “dovrebbe pensare di più alla difesa” aumentando la percentuale di Pil destinata agli armamenti. A oggi, spende il 2% mentre l’Ucraina nel 2020 investiva il 4,1%.
Rischi multipolari
Nonostante tutto ciò, diversi rischi permangono. Rispetto all’anno scorso la presenza cinese nel Mar cinese orientale è cresciuta con sette nuove navi e tre Type 055, cacciatorpedinieri lanciamissili anti-nave e anti-aereo. Due sono stati resi operativi negli ultimi giorni e sono classificati come incrociatori dal Pentagono per via della loro portata, equivalente a 112 missili. La vera incognita consiste nel fatto che qualora Xi Jinping dovesse essere percepito come fallimentare in politica estera (per via dell’amicizia Putin) e interna (per le conseguenze della politica Zero Covid) – danneggiando di conseguenza l’immagine e l’economia del Paese – potrebbe decidere di lanciare qualche segnale in vista della sua rielezione il prossimo autunno. Azioni volte ad appianare il fazionalismo interno e riconquistare la legittimazione dell'opinione pubblica, la quale sui social in gran parte considera la guerra ucraina come responsabilità della Nato. Questi possibili “segnali” tuttavia sono ancora indefiniti. La Cina continua a occupare e militarizzare isole nel Mar cinese e ce ne sono altre (come Kinmen e Matsu raccontate nella rubrica di Taiwan Files di Lorenzo Lamperti con reportage sul campo) appartenenti a Taipei ma di fatto molto più vicine al continente, che non si esclude possano avere un ruolo cruciale.
Asia-Pacifica?
Haines e Berrier affermano che “la Cina dovrebbe smettere di accrescere la tensione sullo stato insulare e che gli Usa stanno lavorando ad una soluzione pacifica”, quando è chiara, dall’altra parte, anche la responsabilità occidentale nella crescita della tensione. Questo però, come sopra citato, non significa che l’intervento sarà militare, anche perché con l’avvicinamento di Corea del Sud e Giappone alla Nato non si prospettano grandi spazi di manovra. Potrebbero anche essere questi due i paesi volti ad attuare il contenimento, in modo che lo scontro con gli Usa non sia diretto. Una situazione complessa che nel clima attuale inasprisce la gestione della sicurezza e della deterrenza. Giappone e Corea del Sud non sono potenze atomiche, ma sono prossime a Cina, Corea del Nord e Russia che invece lo sono tutte.
Bisogna però tenere a mente alcuni elementi. La chiusura della Cina, con annesse sanzioni ed eruzioni di filiere, non fa presagire bene per l’economia e quindi per un’eventuale spedizione militare. Attualmente, un quarto della popolazione è in lockdown totale o parziale, gravando sul 40% del Pil nazionale e ridimensionando le stime di crescita. Pechino prevede una riduzione al 5,5%, per il Fondo monetario internazionale è un punto percentuale in meno, mentre per altri economisti sarebbe addirittura al di sotto del 4%. Ciò rende Xi ancora più soggetto all’interdipendenza economica con l’Europa, continente a cui da tempo Pechino richiede una maggiore autonomia strategica dagli Stati Uniti. Un tema attualmente molto dibattuto anche all’interno delle nostre democrazie, sia in vista della possibile risoluzione del conflitto e sia per evitare che le ultime tracce di multilateralismo si disperdano nel tanto temuto clima multipolare. Quello che fu all’origine dei peggiori drammi della storia umana.