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Opinioni

Perché la candidatura di Kamala Harris potrebbe essere una salvezza per le donne americane

Kamala Harris è la più quotata per sostituire Joe Biden nella corsa alla Casa Bianca contro Donald Trump. Ma proprio perché Trump ha vinto e vince grazie all’idea di mondo che propone, la sua candidatura acquista una valenza enorme.
A cura di Jennifer Guerra
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Anche se sarà la convention di Chicago del prossimo agosto a certificarne ufficialmente la candidatura, il nome di Kamala Harris è tra i più quotati dopo il ritiro di Biden. La vicepresidente ha infatti ricevuto non solo il suo endorsement, ma anche il sostegno di tanti altri importanti Democratici, come i Clinton, Elizabeth Warren e molti governatori. Harris ha già confermato la sua disponibilità a correre per la presidenza: “Farò tutto ciò che è in mio potere per unire il Partito democratico e unire la nostra nazione per sconfiggere Trump”, ha detto in una nota.

Tuttavia, la carriera di Harris nell’amministrazione non è stata facile. Dopo l’entusiasmo iniziale, anche dovuto al fatto che è la prima vicepresidente nera della storia americana, Harris non ha mai goduto di grande popolarità. La sua nomina nel 2020, sulla scia delle protese di Black Lives Matter, fu letta anche come un modo per accontentare i manifestanti che mettevano in luce il razzismo sistemico degli Stati Uniti, ma durante la sua carriera di procuratrice non sembrava aver avuto particolarmente a cuore le questioni razziali, rendendo la sua nomina un boomerang.

Harris è stata molto criticata dall’opinione e osteggiata all’interno della politica, ma ha anche dovuto gestire il dossier più delicato di Biden: quello sull’immigrazione al confine con il Messico, il tasto dolente dell’attuale presidenza, con cui Biden è riuscito a scontentare tutti, i conservatori che chiedevano regole più severe e i progressisti che spingevano per un trattamento più umano dei migranti.

La popolarità di Harris ha però subito un balzo in avanti dopo il ribaltamento della sentenza Roe v. Wade, quando si è schierata apertamente a favore del diritto di aborto, mentre Biden, un cattolico convinto, su questo tema ha mantenuto una linea più moderata. “Come osano dire a una donna cosa può o non può fare col suo corpo? Come osano cercare di fermarla nel determinare il suo stesso futuro? Come osano cercare di negare alle donne i loro diritti e la loro libertà?”, aveva detto la vicepresidente durante un evento organizzato da un’associazione femminista.

La questione dell’aborto è abbastanza importante per questa campagna elettorale. Grazie alle sue nomine alla Corte Suprema, Trump è stato di fatto l’artefice del ribaltamento della sentenza che ha portato al divieto di aborto in 14 stati. Anche se teoricamente non può intervenire oltre sulla questione e ha dichiarato di non voler introdurre un divieto a livello federale, il suo appoggio a Project 2025, un progetto ultraconservatore che prevede tra le altre cose un ulteriore restringimento dei diritti riproduttivi, sta riportando in auge il tema dell interruzioni di gravidanza. E non è un caso che Harris abbia detto di voler sconfiggere Trump e il suo “Project 2025 estremista” nella nota in cui accetta informalmente di candidarsi a presidente.

Alla convention dei Repubblicani che si è conclusa pochi giorni fa, l’aborto non è stato quasi mai nominato, a dimostrazione degli sforzi che il partito sta facendo per sviare l’attenzione su questo argomento. Ma Harris ha passato l’ultimo anno a insistere sul fatto che Trump rappresenta un pericolo per le donne, molto di più di quanto abbia fatto Biden. Secondo oltre la metà degli statunitensi, l’aborto è “molto importante” o “la cosa più importante” nelle proprie intenzioni di voto. Certo, Harris non potrà basare tutta la sua candidatura solo su questo, ma più volte ha fatto intendere che i per lei i diritti riproduttivi dipendono dal grado di democrazia di una nazione. Senza volerlo, Harris ha preparato il terreno per la sua proposta politica: se non garantiamo i diritti civili, la nostra non è una vera democrazia.

Proprio perché la carriera di Harris non è stata caratterizzata da alcun successo significativo, è probabile che la sua agenda si concentrerà sulle questioni identitarie: una donna giovane e nera contro un vecchio uomo bianco. È una mossa pericolosa, ma anche inevitabile: avrà poco più di 100 giorni per organizzare la sua campagna, lo farà contro un avversario estremista e irragionevole e partendo con una popolarità piuttosto bassa.

Un fenomeno piuttosto ricorrente nella politica recente di tutto il mondo è che le donne subentrano agli uomini di potere per ritrovarsi tra le mani le questioni più difficili. È successo in Francia con Élisabeth Borne o con Liz Truss nel Regno Unito. Spesso queste nomine sono radicate in pregiudizi di genere: si crede che le donne siano più portate a risolvere i conflitti e che, proprio per il fatto di essere donne, l’opinione pubblica sia più indulgente nei loro confronti. Quello che succede in realtà è che queste donne pagano lo scotto della storica assenza femminile in politica, e il giudizio nei loro confronti è ancora più severo, oltre al bagaglio che viene loro consegnato da chi le ha precedute. Kamala Harris rischia di trovarsi in questa posizione. Subentra a un uomo che non ha brillato per popolarità, in una situazione politica difficilissima.

Se, come è probabile che farà, insisterà sulla sua identità per un’eventuale campagna elettorale, dovrà stare attenta a valorizzare non solo il suo genere, ma il fatto che è una donna che lotta a fianco delle donne, un gruppo sociale che ha un ruolo decisivo nelle elezioni statunitensi.

Trump d’altronde ha nominato come suo vice una figura, J. D. Vance, che incarna le politiche identitarie fino in fondo, anche se di segno opposto a quelle che vengono solitamente recriminate ai progressisti. Sarebbe bello se queste elezioni si giocassero su proposte concrete e non soltanto sull’immaginario. Ma proprio perché Trump ha vinto e vince grazie all’idea di mondo che propone, non di certo per le politiche disastrose messe in atto tra il 2016 e il 2020, la sua degna avversaria può essere solo una donna che dimostra con la sua stessa esistenza che un altro mondo è possibile.

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Jennifer Guerra è nata nel 1995 in provincia di Brescia e oggi vive in provincia di Treviso. Giornalista professionista, i suoi scritti sono apparsi su L’Espresso, Sette, La Stampa e The Vision, dove ha lavorato come redattrice. Per questa testata ha curato anche il podcast a tema femminista AntiCorpi. Si interessa di tematiche di genere, femminismi e diritti LGBTQ+. Per Edizioni Tlon ha scritto Il corpo elettrico. Il desiderio nel femminismo che verrà (2020) e per Bompiani Il capitale amoroso. Manifesto per un Eros politico e rivoluzionario (2021). È una grande appassionata di Ernest Hemingway.
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