Perché Israele e Hamas hanno bisogno di una lunga tregua: l’analisi dell’esperto
Nella tarda serata di ieri la tregua tra Israele ed Hamas è stata prorogata per il settimo giorno consecutivo dopo i quattro inizialmente previsti: quando ormai sembrava imminente una ripresa dei combattimenti le due parti, e i relativi supporter in fase di negoziazione – USA e Qatar – hanno trovato un accordo in extremis di altre 24 ore alle stesse condizioni del passato. Entro oggi i miliziani libereranno dieci ostaggi israeliani sequestrati e trasportati nella Striscia di Gaza, mentre Tel Aviv scarcererà trenta prigionieri palestinesi, per lo più donne e adolescenti finora detenuti senza accusa e senza processo. Nel frattempo proseguirà l'arrivo di camion carichi di aiuti umanitari per la popolazione civile stremata da sette settimane di bombardamenti.
Fino ad oggi la tregua ha retto: salvo locali scaramucce, infatti, sia i soldati dell'IDF che i miliziani di Hamas hanno rispettato l'intesa siglata dai rispettivi leader. I militari israeliani, tuttavia, hanno condotto ieri una serie di raid a Jenin, in Cisgiordania, e ucciso due bambini arrestando decine di civili. In risposta, Hamas ha rivendicato l'attentato di questa mattina a Gerusalemme in cui sono morte tre persone, un evento che minaccia di riaccendere la miccia anche nella Striscia di Gaza.
Ma qual è stato il bilancio della prima settimana di tregua, sia dal punto di vista politico che da quello militare? E quanto sono le probabilità che si giunga a un cessate il fuoco di più lunga durata, come più volte chiesto dal segretario generale dell'Onu Antonio Guterres? Fanpage.it ha interpellato Lorenzo Trombetta, Analista di Limes, corrispondente Ansa e ricercatore con sede a Beirut.
È possibile tracciare un bilancio militare e politico di questa prima settimana di tregua tra Israele e Hamas?
Partiamo dall'aspetto militare: dopo sette settimane di conflitto nella Striscia di Gaza le parti hanno avuto modo di valutare il lavoro fatto finora, facendo un punto della situazione sulle perdite e i guadagni sia in termini umani, che di terreno conquistato (nel caso di Israele) o perso (nel caso di Hamas). Tel Aviv, in particolare, deve ora decidere se riprendere le operazioni oppure prolungare la tregua. Questa decisione spetta solo a Israele. Credo che se dovesse tornare ad attaccare la Striscia dovrà necessariamente aggiustare alcuni assetti operativi, in particolare tecniche di avanzamento nel ginepraio di Gaza, in quello che è diventato un vero e proprio Vietnam sia per la quantità delle perdite che per l'effetto negativo che l'avanzata di terra ha sull'opinione pubblica interna e in quella internazionale. Ricordiamo, infatti, che finora l'esercito israeliano è penetrato solo parzialmente nella Striscia e non riuscirà facilmente a spingersi nell'area centro-meridionale, dove oggi si concentra la stragrande maggioranza della popolazione palestinese.
Dopo il 7 ottobre Israele ha dichiarato che avrebbe distrutto Hamas. Ci sta riuscendo?
Pur avendo inflitto pesanti perdite ad Hamas l'esercito israeliano è ben lungi dal raggiungere l'obiettivo annunciato: non controlla ancora del tutto Gaza City, non ha neutralizzato le postazioni militari di Hamas e non sappiamo quanti dei tunnel siano stati effettivamente smantellati. Insomma, la cosiddetta "bonifica" di Gaza è appena all'inizio. In questo quadro, inoltre, non va dimenticato l'aspetto climatico: si va verso l'inverno, le tendopoli di profughi avranno bisogno di urgenti aiuti umanitari e di conseguenza aumenteranno le pressioni internazionali, soprattutto dagli Stati Uniti, affinché Israele non riprenda i bombardamenti su una popolazione già martoriata ed esposta al freddo e alle intemperie.
Dal punti di vista politico, invece, cosa ha ottenuto Israele in queste settimane?
Ha portato a casa un numero relativamente alto di ostaggi, e questo è un dato certamente positivo. In queste ore si starebbe discutendo dell'ipotesi di prolungare di due giorni alla volta la tregua e portare a casa altri prigionieri: se i combattimenti dovessero riprendere, infatti, a correre seri rischi non sarebbero solo i miliziani, ma anche gli israeliani nelle loro mani. Sappiamo già di ostaggi morti a causa dei bombardamenti o nella concitazione della battaglia. Credo, quindi, che a Israele convenga prolungare la tregua. Lo farebbe obtorto collo, ovviamente, perché ogni giorno di tregua in più allontana l'obiettivo sbandierato al mondo intero di distruggere Hamas.
A proposito di Hamas: la tregua ha dato modo ai miliziani palestinesi di prendere fiato, ma quali sono stati i risvolti politici?
La tregua è una vittoria di Hamas sotto tutti i fronti: militare e politico. Il fatto che Israele abbia dovuto interrompere i combattimenti, sedere a un tavolo e negoziare col nemico è un importante successo per l'organizzazione che amministra Gaza. Non dimentichiamo che Tel Aviv avrebbe la capacità bellica per distruggere la Striscia, eppure è stata costretta a intavolare una trattativa. Il fatto stesso che Hamas venga riconosciuto come un interlocutore ufficiale nei negoziati di questi giorni è un fatto di enorme importanza, perché era quello lo scopo politico dell'attacco del 7 ottobre: essere riconosciuto come il principale interlocutore palestinese, prima di tutti gli altri, in primis l'ANP.
In questa settimana sono stati liberati decine di ostaggi israeliani e centinaia di prigionieri palestinesi. Ma qual è la vera posta in gioco?
Dal punto di vista di Israele gli ostaggi sono un mezzo per ottenere un obiettivo politico: salvare il salvabile, permettere a Benjamin Netanyahu e ai suoi alleati di rimanere aggrappati al potere, almeno per un po'. La posta in gioco, dunque, non è solo la vita degli ostaggi ma lo stesso "disegno" politico e culturale del capo del governo israeliano. L'attacco del 7 ottobre ha sfidato frontalmente il progetto di Netanyahu, un progetto che prevedeva e prevede il saccheggio delle terre dei palestinesi a totale discapito dei loro diritti con la promessa di sicurezza e benessere. Ecco, quell'idea è fallita: Israele non è più sicura bensì molto più vulnerabile. Lo dimostra l'attentato di oggi a Gerusalemme, che costituisce la risposta dei palestinesi alla carne da macello che IDF e coloni stanno facendo nel campo profughi di Jenin e nel resto della Cisgiordania. Insomma, il progetto di Netanyahu non offre sicurezza né stabilità a Israele. Sarà interessante capire se e quale sarà il disegno alternativo quando l'attuale premier sarà costretto a farsi da parte. Credo che sia anche di questo che in questi giorni stanno discutendo i dirigenti politici israeliani di più alto rango.
E per Hamas qual è la vera posta in gioco, oltre la retorica di voler "distruggere Israele"?
Mostrarsi come l'interlocutore affidabile sia su scala interna che su scala regionale. Hamas lavora per diventare l'unico referente politico palestinese, prendersi in futuro anche la Cisgiordania e poter dialogare con altri attori dell'area, a partire dall'Iran. Ad Hamas non interessa la liberazione della Palestina, men che meno la distruzione di Israele, ma poter controllare un territorio e in questo quadro, in un futuro post bellico, riuscire a gestire i miliardi di dollari che pioveranno soprattutto dai paesi del Golfo per la ricostruzione della Striscia di Gaza. Dobbiamo pensare a un enorme "PNRR" da amministrare. La grande sfida per i dirigenti di Hamas sarà arrivare vivi a quel momento.
È possibile che la tregua temporanea diventi un "cessate il fuoco" di lunga durata, come chiesto ripetutamente dal segretario generale dell’ONU Guterres?
Credo di sì, perché in questo momento vi è una convergenza di interessi: Hamas non ha nessuna intenzione di riaccendere le polveri nel breve periodo ed ha la necessità di riorganizzarsi, mentre Israele vuole riportare a casa gli ostaggi ed evitare una mattanza di soldati senza raggiungere nessun obiettivo concreto. Tel Aviv dovrà ora trovare una formula che salvi la retorica aggressiva adottata in questi mesi ma al contempo ridurre perdite umane e costi economici della guerra. In questo senso le parole di Guterres sono un segnale chiaro. Da quello che mi risulta oggi nel governo israeliano ci sono due correnti di pensiero prevalenti: quella "massimalista", che intende andare avanti alzando ancora di più il livello delle violenze anche al rischio di uccidere gli ostaggi; e quella "pragmatica" che sta cercando di trovare una formula di medio termine, che permetta di essere muscolari ed aggressivi nelle retorica ma che nella realtà eviti un'immediata e nuova escalation della situazione. In un certo senso, se prevalesse questa seconda visione questo di Gaza costituirebbe l'ennesimo round di una lunga guerra, come ce ne sono stati altri. Un cessate il fuoco permetterebbe di restare fermi per un po', poi tornare all'attacco in primavera o estate. Non illudiamoci, però: una pace vera e propria è ancora molto lontana.