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Conflitto Israele-Palestina e in Medio Oriente

Perché il piano di Trump di deportare i palestinesi da Gaza avrebbe conseguenze su tutto il Medioriente

Il piano annunciato da Trump per Gaza dimostra che il presidente Usa vuole assicurare carta bianca al premier israeliano Benjamin Netanyahu dopo l’entrata in vigore del cessate il fuoco nella Striscia: ecco perché potrebbe avere conseguenze per tutta la Regione.
A cura di Giuseppe Acconcia
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Le bellissime immagini dei palestinesi che finalmente stanno tornando nel Nord della Striscia confermano che la tregua tra Israele e Hamas, raggiunta con grande fatica lo scorso 19 gennaio, sta finalmente funzionando. Non solo, l'accordo e la graduale consegna degli ostaggi israeliani ha dimostrato che Hamas continua a esistere nella Striscia di Gaza, a rafforzarsi con nuovi reclutamenti e non è stata smantellata come avrebbe voluto il premier israeliano Benjamin Netanyahu.

A rovinare il clima di rinnovata speranza, sono arrivate però le parole del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump che ha proposto, facendo eco alla destra sionista israeliana, di “ripulire” Gaza spostando i palestinesi in Egitto e Giordania. La proposta ha subito trovato il plauso delle autorità israeliane, mentre Netanyahu volerà a Washington la prossima settimana. Ma anche la levata di scudi dei paesi arabi vicini. In particolare, il ministro degli Esteri egiziano ha rispedito la proposta di Trump al mittente “sia che avvenga con la costruzione di colonie o con l'annessione di territorio, deportando i palestinesi o incoraggiando l'emigrazione, sia se fosse in via temporanea o permanente”.

Trump aveva esacerbato lo scontro tra israeliani e palestinesi già durante il suo primo mandato (2017-2021) con lo spostamento dell'ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme e riconoscendo le rivendicazioni territoriali di Israele sulle Alture del Golan, annesse unilateralmente nel 1967. Già in campagna elettorale il presidente Usa aveva tuonato contro Hamas ribadendo che se non avesse accettato tutte le condizioni, il movimento avrebbe “sofferto le pene dell'inferno”. E in riferimento a Gaza aveva parlato di una sorta di paradiso delle vacanze perché è “sul mare, con un bel clima, dove è possibile fare cose fantastiche”. E ha ribadito tutte queste sue idee che implicano la pulizia etnica dei palestinesi, già da decenni perpetrata da Israele, in questo contesto, proprio mentre, se la tregua andasse avanti, dovrà aprirsi la terza fase di ricostruzione per la Striscia.

La zona cuscinetto in Egitto

In Egitto, i profughi palestinesi dovrebbero essere accolti nel Sinai. Da anni, su richiesta israeliana, l’esercito egiziano ha distrutto oltre 12mila case ad al-Arish nel Sinai e ha espropriato 6mila ettari di terreno, per la costruzione di due possibili zone cuscinetto nelle città di al-Arish e a Rafah. E così, quando l'esercito israeliano (Idf) è entrato a Rafah lo scorso maggio, tutti hanno temuto che fosse arrivato il momento di usare quest'area con lo scopo di creare nuovi campi profughi.

Nonostante le dichiarazioni ufficiali di politici e diplomatici fossero contrarie allo spostamento di massa dei palestinesi nel Sinai, per mesi sono andate avanti le manovre egiziane al confine con Israele. Vari approfondimenti della Bbc avevano rivelato, a partire dal 2023, la costruzione di un'area recintata al confine tra Egitto e Israele, proprio nelle zone dove erano avvenuti gli espropri in precedenza. I media egiziani si sono subito affrettati a definirla semplicemente una zona di parcheggio per i mezzi coinvolti negli aiuti umanitari, ma in realtà per settimane si è pensato che l'area avrebbe potuto accogliere i rifugiati di Gaza. In parallello, mentre il conflitto è andato avanti per ben 15 mesi, è andata anche crescendo l'organizzazione del business dell'accoglienza. Per migliaia di dollari, i più abbienti tra i palestinesi di Gaza, hanno superato il valico di Rafah, che è rimasto sigillato per volontà delle autorità egiziane, e sono fuggiti verso Il Cairo, lasciando al loro destino feriti e rifugiati.

Mentre l'esercito israeliano (Idf) otteneva il pieno controllo del corridoio Philadelphia che separa Gaza dal Sinai, lungo i 13 km di confine tra i due paesi, è costantemente tornata al centro della diplomazia egiziana la questione, sollevata dal presidente egiziano al-Sisi, subito dopo gli attacchi del 7 ottobre 2023, in merito a dove sarebbero dovuti andare i rifugiati palestinesi. “Vadano nel deserto del Negev” e non nel Sinai, sono state le dure parole del presidente egiziano quando il conflitto tra Israele e Hamas era ancora agli inizi. Al-Sisi ha a più riprese chiesto alla comunità internazionale di “fermare ogni tentativo di costringere i palestinesi di lasciare la loro terra”.

Non solo, quando Idf ha confermato il pieno controllo di alcuni dei tunnel, controllati da Hamas, che uniscono il Sinai con Gaza, la televisione pubblica egiziana ha negato che quei tunnel servissero per rifornire il gruppo che governa la Striscia di Gaza di armi da usare nel conflitto. Secondo gli egiziani, questa narrativa sarebbe stata utile a Tel Aviv per giustificare le sue azioni militari sanguinose a Rafah. In particolare, i diplomatici egiziani hanno in più occasioni sostenuto di aver distrutto queste strutture transfrontaliere, spesso usate per il contrabbando di merci e prodotti alimentari.

I solidi rapporti tra Egitto e Israele

Tuttavia, i rapporti tra Egitto e Israele sono rimasti solidi nonostante la guerra a Gaza. Il Cairo ha ricoperto un ruolo secondario rispetto al Qatar nel lungo negoziato che ha portato al cessate il fuoco del 19 gennaio scorso, proprio perché eccessivamente appiattito su posizioni vicine a Tel Aviv. L'attendismo del Cairo nei colloqui, conclusisi a Doha in Qatar, ha confermato gli ottimi rapporti bilaterali che ci sono tra Egitto e Israele. Con la firma del Trattato di pace (1979) che segnò la fine politica per l'ex presidente, Anwar al-Sadat, l'Egitto è stato il primo paese arabo a ricoscere Israele. Cancellata la breve parentesi dell'ex presidente, Mohammed Morsi, che aveva dato diritto di cittadinanza ai rifugiati siriani e palestinesi in Egitto, dopo il golpe del 2013, al-Sisi ha posto al centro della sua politica estera, ancora una volta, l'alleanza con Tel Aviv.

Non solo, anche le continue scoperte di gas nel Mediterraneo orientale, al largo di Port Said, hanno reso eccellenti i rapporti tra i due paesi. E così nel gennaio 2020, Israele ha iniziato a esportare il suo gas in Egitto come parte di un accordo più generale che include la consegna di 85 miliardi di metri cubi di gas in 15 anni.

Tuttavia, in questi 15 mesi di guerra, non sono mancate le tensioni tra Egitto e Israele. In particolare quando nel maggio 2024, le autorità israeliane, archiviando qualsiasi possibilità di raggiungere un accordo con Hamas, hanno lanciato l'invasione di terra a Rafah che, secondo l'Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unrwa), ha spinto un milione di palestinesi a lasciare la città di confine. E così in un incidente, che ha coinvolto Idf e militari del Cairo, due soldati egiziani sono rimasti uccisi.

Una linea rossa per l'Egitto

Tuttavia, durante i 15 mesi di guerra, evitare spostamenti di massa di rifugiati palestinesi ha rappresentato l'unico vero paletto imposto dal presidente al-Sisi alla comunità internazionale per non alienarsi l'opinione pubblica egiziana che ha chiesto a gran voce la fine del conflitto. Se negli ultimi anni in Egitto ha pesato molto un crescente sentimento anti-Hamas, questo si può spiegare con gli iniziali legami tra il movimento palestinese e i Fratelli musulmani egiziani, ma individua anche una più diffusa xenofobia e profonda discriminazione da parte delle autorità egiziane che coinvolge rifugiati palestinesi e siriani.

Tuttavia, con il disastro umanitario in corso a Gaza, non sono mancate anche al Cairo mobilitazioni a favore della Palestina. E così, sebbene l'opinione pubblica egiziana, come quella saudita, abbia costantemente espresso il suo sostegno per la causa palestinese, le autorità del Cairo si sono dimostrate molto vicine a Israele. Così come Riyadh ha sostenuto la posizione israeliana nella regione a partire dagli Accordi di Abramo (2020) e solo tardivamente ha usato la parola “genocidio”, lo scorso novembre, per descrivere ciò che è avvenuto a Gaza.

Come se non bastasse, l'Egitto si è già fatto carico di accogliere, secondo i termini dell'accordo per il cessate il fuoco, alcuni tra i circa 2000, degli oltre 10mila, prigionieri politici palestinesi detenuti nelle carceri israeliane, liberati in cambio degli ostaggi nelle mani di Hamas. Dei primi 290 prigionieri rilasciati, 70, tra i condannati per le pene più gravi sono stati trasferiti proprio al Cairo. Tra loro Mohammed Aradeh, Mohammed Odeh, Wael Qassim, Wissam Abbasi e i fratelli Abu Hamid sono stati condannati all'ergastolo per terrorismo in Israele in relazione alle mobilitazioni della seconda Intifada all'inizio degli anni 2000.

I palestinesi in Giordania

Al contrario dell'Egitto, la Giordania ha una lunga tradizione di accoglienza dei rifugiati palestinesi. Secondo i dati dell'Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unrwa) sono circa 2,3 milioni i rifugiati palestinesi registrati nel paese. Con lo scoppio della guerra a Gaza il 7 ottobre 2023, in prima linea nelle proteste contro il conflitto per le strade di Amman hanno figurato gli islamisti e i partiti di sinistra locali. Come è accaduto in Arabia Saudita, le autorità giordane hanno reagito aumentando i controlli, soprattutto online, per limitare le mobilitazioni pro-Gaza allargando la definizione di crimini cybernetici alla “diffusione di notizie false” fino alle “minacce alla pace sociale” per impedire ulteriri proteste a sostegno della causa palestinese.

Se il governo di Amman aveva inizialmente manifestato una certa tolleranza per le proteste pro-Gaza, ha subito avviato una campagna di repressione del dissenso per gli attivisti critici dei legami diplomatici tra Amman e Tel Aviv. La Giordania ha rapporti diplomatici bilaterali con Israele dal 1994. I giordani si sono divisi, rispetto alla posizione da prendere nel conflitto, negli ultimi mesi, mentre le operazioni militati di Idf non accennavano a trovare una conclusione. In particolare le divisioni sono emerse in seguito alla risposta iraniana all'attacco israeliano contro il Consolato di Teheran a Damasco lo scorso aprile. In quell'occasione le autorità giordane hanno intercettato una parte dei missili e dei droni diretti verso Israele dall'Iran, alimentando non poche critiche.

Lo scorso settembre, il ministro degli Esteri giordano, Ayman Safadi, aveva assicurato che i paesi arabi avrebbero “garantito la sicurezza di Israele” a condizione che finisca l'occupazione israeliana con la creazione di uno stato palestinese.

Il piano annunciato da Trump per Gaza dimostra che il presidente Usa vuole assicurare carta bianca al premier israeliano Benjamin Netanyahu dopo l'entrata in vigore del cessate il fuoco nella Striscia. Le sue parole che ricalcano i piani di genocidio e pulizia etnica, teorizzati dalla destra israeliana, sono molto pericolose per gli equilibri regionali. Da una parte, implicano una visione del conflitto radicata nel colonialismo e che considera i palestinesi come cittadini di seconda classe. Dall'altra, è una proposta che contrasta completamente con la possibilità di una già difficile soluzione dei due stati per assenza di continuità territoriale per la creazione di uno stato palestinese. Non solo, flussi di massa di profughi palestinesi in Egitto e Giordania potrebbero mettere a dura prova la stabilità interna dei due paesi e aggravare il malcontento delle popolazioni locali, già fortemente critiche dopo 15 mesi di guerra.

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Giuseppe Acconcia è giornalista professionista e docente. Insegna Stato e Società in Nord Africa e Medio Oriente all’Università di Milano e Geopolitica del Medio Oriente all’Università di Padova. Dottore di ricerca in Scienze politiche all’Università di Londra (Goldsmiths), è autore tra gli altri de “Taccuino arabo” (Bordeaux, 2022), “Le primavere arabe” (Routledge, 2022), Migrazioni nel Mediterraneo (FrancoAngeli, 2019), Il grande Iran (Padova University Press, 2018).
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