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Opinioni

Perché il “grande scambio” dei prigionieri allontana sempre più la Russia dall’Europa

Il regime di Putin non ha più remore morali, e chi ha trattato l’operazione se ne è reso conto. “Navalny è stato ucciso perché ì’Occidente lo voleva nella lista dei dissidenti da rilasciare”, commenta a Fanpage.it l’intellettuale russo Sonin. “L’abbraccio al killer Krasikov dimostra che l’unica audience e gli unici ‘valori’ che contano sono quelli del vecchi Kgb e della contrapposizione Est-Ovest”.
A cura di Riccardo Amati
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Il più grande scambio di prigionieri dai tempi della Guerra Fredda è un successo di politica interna per Vladimir Putin. Gli permette di rafforzare oltremodo il consenso nella comunità dei suoi servizi di sicurezza. Contribuisce alla propaganda sul patriottismo belligerante russo e sulla presunta debolezza di Europa e Usa. Ed è un’implicita minaccia per i dissidenti in esilio.

Se da un lato le lunghe trattative sull’operazione del 1°agosto possono far sperare in sviluppi che portino a un processo di pace in Ucraina, dall’altro la morte di Navalny mentre quelle trattative erano in corso, e le modalità con cui il presidente russo ha accolto i suoi concittadini liberati evidenziano la sempre più ostentata contrapposizione di Mosca a quello che definisce “Occidente collettivo”. Una via che, al momento, appare senza ritorno.

Il bacio del killer

“Quando ha abbracciato il killer Vadim Krasikov all’aeroporto di Vnukovo su un tappeto rosso, a favore di telecamera e imbellettato dal trucco, Putin si rivolgeva soprattutto alla audience dell’Fsb e degli altri servizi di sicurezza russi”, dice a Fanpage.it Konstantin Sonin. Economista e giornalista cacciato per motivi politici nel 2014 dalla Hse, la “Bocconi” moscovita, di cui era il vice-preside, Sonin oggi insegna all’Università di Chicago.

"Sono rimasto sbalordito. Non si era mai vista una cosa simile. Nemmeno ai tempi dell’Unione Sovietica", racconta: "Ramon Mercader, (la spia di Stalin che aveva scontato 20 anni di galera in Messico per aver fracassato il cranio di Lev Trotsky a colpi di piccozza, ndr) al suo arrivo a Mosca fu accolto con tutti gli onori, premiato e gratificato. Ma in segreto. Non è mai stato popolare abbracciare gli assassini in pubblico".

È dall’inizio degli anni Sessanta che il Cremlino non ammetteva omicidi da parte dei suoi agenti. Al rientro in patria dopo un’operazione o in seguito a uno scambio, venivano riveriti in privato, gli si assicurava una buona vita e sparivano dietro le quinte.

Come la protagonista di “L’alternativa del diavolo”, forse la più bella spy story dello scrittore ed ex spia Frederick Forsyth. O come, nella realtà, “Anna la rossa”, l’affascinante agente tornata a casa dagli Usa nel 2010 proprio grazie a una permuta di spie.

O come la coppia del Gru — il servizio segreto militare russo — che cercò di uccidere col novichok il “traditore” Sergei Skripal a Salisbury, nel sud dell’Inghilterra. Fecero fuori una donna che non c’entrava niente e, smascherati senza ombra di dubbio da telecamere stradali e investigazioni concordanti dopo il loro rientro in Russia, furono fatti passare per due turisti gay dalla propaganda del Cremlino prima di far perdere ogni loro traccia.

Valori e disvalori

“Ormai — continua Sonin — a Putin interessa solo il gradimento delle sue spie. E questa è una pessima notizia per l’Occidente: al leader russo non importa più quale possano essere le reazioni occidentali agli omicidi che ordina e ai suoi abbracci con i killer. Credo proprio che nemmeno ci pensi”.

La cesura tra “noi” e “loro”, da strategica e politica è diventata culturale e morale, per la Russia. “Lo scambio di prigionieri è stato il contrario di una joint venture per un obiettivo comune”, secondo l’analista Tatiana Stanovaya, direttrice di R.Politik: “Si tratta piuttosto di un divorzio, con tanto di separazione dei beni”.

Putin pensa davvero che la Russia possa fare a meno dell’Europa e dei suoi valori. In teoria, di valori ne propone anche lui. E di quelli che da sempre affascinano le destre europee. Ma il suo regime non si fonda davvero su tradizione, religione, difesa della famiglia, contrasto alla cosiddetta “ideologia Lgbtq+ e via dicendo.

Questi elementi sono solo pezzi secondari di una raffazzonata ideologia tendente al messianismo, da sempre tipica dell’imperialismo russo. Anche ai tempi sovietici. L’unico vero pilastro dell’ideologia di Putin è la lotta contro il liberalismo occidentale. In particolare, l’anti-americanismo. Cosa che piace anche a qualche movimento di sinistra, dalle nostre parti.

In realtà, il potere di Putin è fondato solo sulla fedeltà agli interessi personali e ai valori — o disvalori, se preferite — dei suoi ex colleghi del Kgb. Gente che si è formata durante il crepuscolo dell’Urss ed è maturata frequentando i gangster della “Banditskiy Petersburg”, la San Pietroburgo banditesca dei caotici anni Novanta. Questi rapporti sono descritti in modo organico e documentati da Catherine Belton nel suo “Gli uomini di Putin”, (Milano, 2020). Per chi volesse approfondire.

Missione compiuta

Ci sono di mezzo patrimoni immensi da conservare e ampliare. Putin ne è l’unico garante. Il cinismo degli anni Novanta del secolo scorso, di cui il presidente russo si vanta di essere l’antidoto, continua a imperare, nei modi e anche nel linguaggio, ai vertici del regime, delle proprietà statali e dell’economia privata che al regime obbedisce, se vuol sopravvivere.

L’unico aspetto “ideale” che accomuna i “siloviki” — gli uomini dei servizi di sicurezza a cui Putin ha di fatto regalato la Russia — è il desiderio di vendetta contro la sconfitta nella Guerra Fredda e la dissoluzione dell’Urss. Ovvero contro gli Usa, che quella guerra l’hanno vinta e non hanno avuto alcun rispetto per il nemico sconfitto. E contro i liberali. Che — sostengono i “siloviki”— hanno provocato la più grande tragedia immaginabile: la fine dell’impero sovietico.

In questo senso, l’agente Vadim Krasikov, che ha ammazzato a sangue freddo un separatista ceceno in un parco di Berlino, è davvero un “patriota”, come lo definì lo stesso leader del Cremlino nell’intervista gentilmente concessa al presentatore televisivo americano Tucker Carlson, oggi “sceso in politica” con Donald Trump.

“Zadanie vipolmeno”: missione compiuta, ha voluto dire ai suoi compagni dei servizi il colonnello del Kgb Vladimir Putin baciando Krasikov di fronte alle telecamere all’aeroporto di Vnukovo dopo averlo fatto uscire dalla prigione tedesca dove scontava l’ergastolo.

Forse c’è anche altro. Secondo il Wall Street Journal, Krasikov era una guardia del corpo di Putin quando il futuro zar lavorava — negli  anni Novanta — per il sindaco di San Pietroburgo Anatoly Sobchak. E il presunto omicidio di Sobchak sarebbe proprio opera sua, ha scritto Bild.

Patriottismo, cameratismo e interessi personali inconfessabili sono un trio che va spesso a braccetto, nel sistema di valori attualmente alla base del potere in Russia.

Propagande

Intanto, la narrativa del regime ci marcia. Il programma domenicale del propagandista in capo Dmitry Kiselyov su Perviy Kanal — la Rai 1 russa — ha dedicato i primi 45 minuti al “grande scambio” dei prigionieri. “Il nostro presidente ha sconfitto l’Occidente collettivo”, ha detto Kiselyov: “Sono tornati in patria eroi russi che hanno vissuto per molti anni in Occidente sotto copertura e hanno lavorato per il bene della Russia”.

Secondo Sergei Davidis, avvocato e sociologo della Ong Memorial — Nobel per la pace 2022 —  la maggior parte dei russi non crede a Kisellyov. “Solo la minoranza che sostiene con convinzione l’invasione dell’ Ucraina e il regime di Putin ha gioito per il ritorno in patria di uno come Krasikov”, spiega a Fanpage.it. “Il resto della popolazione non vuol saperne nulla. Auspica la fine della guerra. Ma resta piegata dal conformismo tipico di ogni regime.

“Se Putin ha voluto fare del rientro dei prigionieri un evento mediatico — continua Davidis — è per due motivi: prima di tutto doveva giustificare il rilascio di prigionieri politici noti in Russia e farlo passare come una vittoria assoluta. E in secondo luogo, ogni occasione è buona se permette di glorificare presunti eroismi e di alimentare l’ideologia anti-Occidentale”.

Non è come ai tempi del comunismo, quando il sistema di potere si fondava su un’ideologia precisa, non c’era bisogno di spiegare granché e bastava ripetere gli slogan. “L’ideologia putinista fino a pochi anni fa nemmeno esisteva”, nota Davidis. “È composta da un’accozzaglia di elementi, tra i quali il ritorno al ruolo di grande potenza e la contrapposizione a Washington è il principale. Deve essere ripetuto il più possibile”. E il più vendibile”. E qualcuno lo compra.

Navalny, il martire della trattativa

Se Putin non pensa più alla possibilità di un riavvicinamento all’Occidente, i governi occidentali che si sono impegnati nelle trattative per il “grande scambio” probabilmente non pensano più al riavvicinamento con Putin. Perché sanno bene che da parte russa il negoziato è stato improntato a un criminale cinismo. E che il più importante dei dissidenti russi ci ha rimesso la vita. Al di là di ogni argomento morale, non è un bel precedente per eventuali negoziati sulla pace in Ucraina e per una normalizzazione delle relazioni.

Quando le trattative sullo scambio di prigionieri si sono impantanate per la resistenza della Germania al rilascio dell’ergastolano Krasikov, il Cremlino ha alzato la posta. Rimpinzando la sua scorta di ostaggi. Tra gli altri, ha messo in galera il giornalista del Wall Street Journal Evan Gershkovich. La cosa ha avuto una risonanza mondiale. Giocare sporco spesso paga. Ma per sbloccare l’impasse tedesca c’è voluto un evento ancor più grave.

“La morte di Alexei Navalny ha contribuito a superare ogni barriera politica e legislativa”, secondo Tatiana Stanovaya. “Ha aumentato notevolmente il valore umanitario del futuro scambio. È diventato chiaro che un destino simile poteva toccare a molte altre persone finite nelle carceri russe”. La direttrice di R.Politik ritiene “del tutto possibile che i tedeschi cercassero la liberazione del maggior esponente dell’opposizione”. Ma Putin, pur volendo a tutti i costi o quasi il ritorno di Krasikov avrebbe mai lasciato in libertà la sua nemesi?

In un’intervista con il Guardian, il giornalista investigativo Christo Grozev — famoso per l’inchiesta sull’avvelenamento di Navalny e per molte altre — ha raccontato di come nelle trattative fosse coinvolto l’oligarca russo Roman Abramovich. L’ex proprietario del Chelsea, dopo aver detto che Putin non avrebbe mai liberato il dissidente, aveva parlato col presidente e, inaspettatamente, dato invece semaforo verde. Solo che quattro mesi dopo Alexei Navalny morì, in circostanze mai del tutto chiarite, nella peggior colonia penale della Siberia.

“L’ipotesi che il leader dell’opposizione russa sia stato ucciso in carcere su ordine di Putin perché non poteva non esser parte di uno scambio di prigionieri con l’Occidente è del tutto credibile”, ritiene Konstantin Sonin. “Il fatto è che Navalny per Putin era una vera e propria minaccia. Era popolare. Non solo tra i liberali. Il suo carisma e le sue idee su una nuova Russia — secondo l’intellettuale in esilio — avevano effetto anche sulle élite. Militari e ‘silovoki' inclusi. Dava la speranza di poter uscire dal disastro ucraino senza sentirsi colpevoli. Perché il colpevole era solo Putin, il falso zar”.

Fatto sta che con la morte di Navalny, e adesso con lo sfruttamento mediatico del ritorno a casa del killer Krasikov e degli altri agenti russi, il presidente può star tranquillo riguardo al seguito negli ambienti che più gli premono. Meno tranquilli devono stare i dissidenti rilasciati: il regime può tornare a colpirli in ogni momento con i suoi agenti. Sempre più fedeli a un capo che li lusinga, li protegge, va a riprenderseli se finiscono in galera nei Paesi in cui si trovano a operare. E li abbraccia in pubblico all’aeroporto di Vnukovo.

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Giornalista e broadcaster. Corrispondente da Mosca a mezzo servizio (L'Espresso, Lettera 43 e altri - prima di Fanpage). Quindici anni tra Londra e New York con Bloomberg News e Bloomberg Tv, che mi inviano a una serie infinita di G8, Consigli europei e Opec meeting, e mi fanno dirigere il servizio italiano. Da giovane studio la politica internazionale, poi mi occupo di mostri e della peggio nera per tivù e quotidiani locali toscani, mi auto-invio nella Bosnia in guerra e durante un periodo faccio un po' di tutto per l'Ansa di Firenze. Grande chitarrista jazz incompreso.
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