Perché il caos della Siria e la caduta di Damasco mettono in crisi la Russia di Putin
La caduta di Damasco nelle mani dei ribelli jihadisti è un brutto colpo per Vladimir Putin. Che ha speso migliaia di vite umane e parecchi miliardi di rubli per difendere inutilmente il regime di Assad. E che ha così compromesso la sua reputazione di salvatore di ultima istanza per i colleghi dittatori, oltre a perdere, con ogni probabilità, le basi nel Mediterraneo. Le conseguenze sulla capacità della Russia di proiettare potenza nell’arena internazionale, sulla sua influenza nel Sud del mondo e sulla guerra in Ucraina possono essere decisive nel contesto del conflitto “ibrido” tra Mosca e l’Occidente.
Lo smacco
“È una sconfitta personale del presidente russo”, dice a Fanpage.it l’orientalista Ruslan Sulemaynov, ex corrispondente della Tass dal Medio Oriente. “Il Cremlino ha dimostrato di non essere più in grado di intervenire in aiuto dei suoi satelliti, come dieci anni fa”.
L’immagine della Russia come Paese che non lascia mai indietro gli alleati va a farsi benedire: “Gli eventi in Siria evidenziano che ci sono circostanze in cui Putin non può far proprio nulla per gli amici”, nota Nikolay Kozhanov, docente all’Università del Qatar e autore di Russia and the Syrian Conflict (Gerlach, 2016).
È difficile sottovalutare quanto l’orrore di Putin per rivoluzioni colorate e “primavere” come quella costata la pelle — e in che modo — a Muammar Gheddafi abbiano influito sulla spinta aggressiva nella politica della Russia. In quella interna, con la leggi per reprimere l’opposizione dopo le grandi manifestazioni del 2011 e 2012. E in quella estera, con il tentativo di fermare Euromaidan, l'occupazione della Crimea e il più o meno diretto intervento militare nel Donbass, nel 2014.
Alla paura di far la fine di Gheddafi dopo un’eventuale rivolta a Mosca si aggiungeva la volontà di fidelizzare, grazie alla certezza della protezione russa in caso di guai, piccoli e grandi autocrati di Paesi nella sfera di influenza del Cremlino. È il caso di Alexander Lukashenko in Bielorussia o del “leader nazionale” kazako Nursultan Nazarbayev.
Ma se questo fu uno dei motivi che portarono Putin, nel 2015, a intervenire a sostegno di Assad nella guerra civile siriana, il più importante fu il revisionismo nei confronti della predominanza Usa, con la rivendicazione del ruolo di superpotenza da parte della Russia.
La strategia siriana
La strategia siriana risultò vincente. Le operazioni contro l’Isis e i nemici di Assad stupirono per precisione ed efficienza. Come quando il 7 ottobre 2015, giorno del compleanno di Putin, missili da crociera Kalibr lanciati da due corvette della flottiglia del Mar Caspio centrarono obiettivi a 1000 chilometri di distanza. Una dimostrazione di potenza fine a sé stessa. Per lasciar di stucco i generali americani. Gli obiettivi potevano esser distrutti in modi meno vistosi e costosi.
In pochi mesi la Russia aveva attenuto “il ritorno del sistema internazionale a un sistema bipolare”, scrisse allora il commentatore di politica estera Fyodor Lukyanov. Chi sostiene Mosca in nome del multipolarismo farebbe bene a leggersi quell’articolo. La Russia aveva dimostrato di avere la “capability” di grande potenza. Per “capability” nelle relazioni internazionali si intendono capacità, risorse e forza militare unite alla volontà e alla reale possibilità di utilizzare.
Della capacità militare di Mosca era fino ad allora ragionevole dubitare. Nella breve guerra del 2008 contro la Georgia sette aerei con la stella rossa erano stati abbattuti e almeno altri quattro danneggiati nel corso di 17 missioni in tutto. Il riarmo di dimensioni sovietiche poi voluto da Putin aveva pagato. Nel 2016 il mondo doveva accettare che Mosca fosse in Medio Oriente per restarci, e che dicesse la sua sulle crisi nella regione e oltre.
Questione di “capability”
Simbolo della potenza russa divenne il sistema missilistico S-400/S1 Pantsir, che dalla base di Khmeimim creava una no-fly zone di 400 km, intimidendo persino gli F-16 USA in Turchia. Oggi gli S-400 sono regolarmente distrutti da ATACMS e droni nella guerra in Ucraina
Immagini satellitari di questi giorni hanno mostrato che il sistema missilistico in questione inizia ad essere smantellato, a Khmeimim. Registrati anche movimenti inconsueti nella base navale di Tartus, Mosca considera la Siria una causa definitivamente persa? “La Russia deve esser esser pessimista su tutta la situazione, e considerare le sue basi andate. Per sempre”, commenta l’analista Kozhanov a Fanpage.it.
Niente più presenza navale permanente nel Mediterraneo e meno capacità di proiettare influenza sui Paesi africani, per i quali Tartus è il perno logistico. Significherebbe dover dipendere dalla Turchia per ogni azione militare nelle “acque calde”. I Dardanelli tornerebbero ad essere l’unico accesso per le unità della marina russa. Si può sempre chiedere all’amico libico generale Haftar una base a Tobruk. Ma per posizione geografica e copertura politico-militare ogni confronto con Tartus è improponibile.
La Tass sostiene che sia stata già garantita una trattativa con le forze ribelli siriane per “salvare” Tartus e Khmeimim e mantener la presenza russa in quelle aree, dove peraltro domina la minoranza alawita, che per oltre mezzo secolo ha sostenuto il potere della famiglia Assad nel crogiolo etnico-religioso siriano. Ma, mentre scriviamo, i blogger militari russi riferiscono di una situazione “caotica” intorno alle due basi.
Le basi perdute, o quasi
Intendiamoci: ancora non sembra in atto una vera e propria fuga da Tartus e Khmeimin. Molti degli asset restano nelle basi, rileva l’analista militare Dara Massicot, che monitora la situazione.
“Un accordo potrebbe essere possibile, sebbene improbabile, e richiederebbe il coinvolgimento della Turchia, interessata alla cooperazione russa su altre questioni”, spiega a Fanpage.it Aron Lund, analista dell’Agenzia svedese per la ricerca sulla Difesa (Foi). "Resta da vedere se Ankara voglia aiutare Mosca a mantenere una forza navale nel Mediterraneo orientale”, aggiunge.
Hayat Tahir al-Sham, (Hts) la fazione trionfatrice a Damasco, “potrebbe anche favorire il compromesso con Mosca, perché interessata al riconoscimento internazionale e alla rimozione dalla lista delle organizzazioni terroristiche”, secondo Lund.
All’ambasciata di Mosca è stata ammainata la vecchia bandiera siriana e issata quella dei ribelli. Secondo uno dei maggiori esperti mondiali della Russia di Putin, Mark Galeotti, l’approccio russo è quello del “business as usual”: “Al Cremlino hanno preso atto che uno Stato mal gestito è stato sconfitto da forze ribelli più efficienti. Prevale l’approccio pragmatico. Quindi, si tratta con Hts”, commenta lo studioso britannico a Fanpage.it.
Calo di prestigio
Intanto, Putin deve dare asilo al vassallo di cui non è riuscito a preservare il potere. Le contraddizioni delle posizioni assunte dalla Russia negli anni recenti sembrano ogni giorno più evidenti.
Lo zar ha distrutto il capolavoro diplomatico-militare costruito in Medio Oriente con l’iniziale successo dell’avventura militare in Siria e la tessitura di partnership su obiettivi specifici con tutte le parti in causa, anche quando tra loro nemiche.
Ma le batoste inflitte da Israele a Hezbollah hanno indebolito il principale partner della Russia, l’Iran. Per la prima volta dal 1967, truppe israeliane sono entrate nel Golan. La Turchia, parte di un’inedita intesa a tre che permetteva al Cremlino di gestire gli equilibri della guerra siriana, è ora diventata predominante nell’area, a scapito proprio di Teheran e di Mosca.
La guerra contro Kiev ha distolto attenzione e risorse da una strategia che aveva portato a risultati brillanti. “A causa dell’invasione dell’Ucraina, Mosca sta riducendo la sua presenza non solo in Medio Oriente, ma anche nel Caucaso meridionale, in Asia centrale e in altre regioni”, afferma l’orientalista russo Suleymanov. “Per Putin, la riduzione della presenza militare in Siria è particolarmente dolorosa, poiché in Medio Oriente conta solo la forza. Un Putin indebolito sarà sempre meno rispettato”.
Giorni difficili al Cremlino
Tutto questo potrebbe rendere Putin ancora più incattivito, e inflessibile rispetto alle prospettive di un compromesso per portare la pace in Ucraina, a cui sembra aprire Volodymyr Zelensky. O forse prevarrà il “business as usual”, come ritiene Galeotti.
Lo zar è sempre stato un tipo fortunato. Ma ultimamente mica tanto. Non dev’essere stato piacevole per lui vedere Donald Trump vestito dei colori della bandiera ucraina a braccetto con Zelensky ed Emmanuel Macron a Parigi, mentre Assad scappava da Damasco e la Corte costituzionale romena, prove dell’interferenza russa alla mano, annullava le elezioni vinte dal candidato del Cremlino. Per non parlare delle colossali proteste contro il governo filo-russo della Georgia.
Tutto questo mentre l’esercito russo perde migliaia di soldati ogni settimana per avanzare faticosamente nel Donbass e sul fronte interno l’inflazione raggiunge livelli stellari. Con la banca centrale che ha esplicitamente esaurito i mezzi per mettere toppe agli squilibri provocati dall’economia di guerra. E con le sanzioni dell’Occidente — in particolare quelle che hanno colpito la banca banca della Gazprom — che diventano gradualmente meno inutili.
“Quel che conta non sono i discorsi, ma il potenziale” diceva Otto Von Bismark. Un tempo Vladimir Putin lo citava spesso, forse perché qualche incauto lo aveva paragonato al celebre cancelliere prussiano. Con l’invasione dell’Ucraina il regime di Putin parte del potenziale che aveva sbandierato e continua sbandierare nei discorsi ufficiali se lo è giocato. La “capability” non è bastata nemmeno a mantenere al potere Assad. Forse lo zar ha avuto fretta nell’affermare il ritorno della Russia al ruolo di superpotenza. C’è solo da sperare che non ricorra a decisioni irrazionali per dimostrare il contrario.