L’ultima notizia arriva nel penultimo giorno del 2020. L’Unione Europea e la Repubblica Popolare Cinese hanno raggiunto un accordo politico sugli investimenti. L’Unione Europea, guidata da Angela Merkel e dal semestre di presidenza tedesco, ottiene la possibilità di investire nei servizi di trasporti aereo e automobilistico sanità e telecomunicazioni. La Cina ottiene la possibilità di entrare nel mercato energetico europeo, la sostanziale acquiescenza europea sul mancato rispetto dei diritti umano e l’inizio di una altra trattativa, molto più grossa, sul libero scambio tra due dei tre più grandi mercati del mondo.
Doveva essere l’anno della guerra commerciale tra Usa e Cina, dei dazi di Donald Trump contro Xi Jinping, della fine della globalizzazione, si azzardava a preconizzare qualcuno. È iniziato come l’anno del virus cinese e del lockdown di Wuhan. È finita con la Cina ferma a 87mila contagi e meno di 5mila morti, mentre gli Usa sono arrivati a 20 milioni di casi e a 1,8 milioni di morti. Con la Cina – unica grande economia al mondo – che stando ai dati del Fondo Monetario Internazionale crescerà del 1,9% a fine anno, mentre quella americana crollerà del 4,3%, quella tedesca del 6%, quella francese del 9,8%, quella italiana del 10,6%. Con il vaccino cinese sviluppato dalla Sinovac acquistato e adottato da Paesi come quelli del sudest asiatico, come Filippine, Malaysia, Cambogia, Laos, Myanmar, Thailandia e Vietnam, ma anche da Brasile, Cile, Indonesia, Turchia e Ucraina. Segnali, questi, di un soft power geopolitico in rapida ascesa.
“La Cina è l’unico Paese del mondo che ha un tasso di crescita positivo nel contesto della più grande crisi economica della storia recente, di sicuro dal 1870 a oggi. Le grandi crisi della globalizzazione hanno fatto segnare vittorie tattico-strategiche della Cina. È successo nel 2008 e sta succedendo adesso”, spiega il giornalista economico e vicedirettore del Corriere della Sera Federico Fubini, autore del saggio “Sul Vulcano. Come riprenderci il futuro in questa globalizzazione fragile” (Longanesi, 2020), che affronta il tema del futuro del mondo dopo la pandemia. Ed è un mondo, quello del post pandemia, che parla sempre più cinese.
La nuova via della Seta
Colpa del Covid-19? Secondo Fubini è un processo che parte da molto più lontano, in un contesto nel quale l’Occidente non è esente da responsabilità: “In questi anni siamo stati colonialisti assenti, convinti che quella della liberaldemocrazia fosse la direzione ineluttabile, che andasse in automatico – spiega Fubini -. Nel frattempo, un’altra potenza, dall’altra parte del mondo, si è data da fare attivamente affinché le cose non andassero così”.
Quel darsi da fare si chiama “One belt, one road”, un piano organico per i collegamenti terrestri e marittimi tra Cina, Medio Oriente, Europa e Africa annunciato dal presidente cinese Xi Jinping nel settembre 2013, che da noi è stato ribattezzato come “Nuova via della Seta”. Un accordo, spiega Fubini, “che la Cina ha stipulato con 68 Paesi, decine dei quali enormemente indebitati con la Cina”. Al pari di quanto fecero gli Stati Uniti d’America nel secondo Novecento, spiega Fubini, la Cina ha instaurato un rapporto di vassallaggio che ha cambiato i connotati alla globalizzazione: “Oggi nelle sedi istituzionali del governo della globalizzazione, nominalmente le agenzie delle Nazioni Unite la Cina influenza un numero di voti maggiore di quelli influenzati dalle cosiddette potenze occidentali”.
Il dominio cinese all’Onu
I numeri non mentono, in effetti. Nel 2020, la Cina contribuisce al budget dell’Onu per il 12%, contro il 22% degli Usa, e al 15% del budget per le operazioni di peacekeeping, contro il 27% americano. Non solo: oggi 4 agenzie dell’Onu su 15 sono guidate da un diplomatico cinese, tra cui la Fao e l’Ito, l’agenzia internazionale sulle telecomunicazioni, che decide gli standard in materia di videosorveglianza e 5G: “Solitamente i cinesi o piazzano i loro uomini cinesi, o ex governanti di Paesi indebitati verso la Cina, solitamente africani”, spiega Fubini.
Come l’Organizzazione Mondiale della Sanità, il cui direttore generale si chiama Tedros Adhanom Ghebreyesus, ex funzionario e politico dell’Etiopia, testa di ponte della colonizzazione cinese dell’Africa, con 4 miliardi di investimenti diretti cinesi e un interscambio commerciale da 5,4 miliardi di dollari l’anno. Il 31 gennaio scorso dopo un incontro a Pechino con il presidente cinese Xi Jinping, Tedros Adhanom Ghebreyesus aveva dichiarato che “la Cina sta effettivamente definendo nuovi standard per la lotta alle epidemie”, e a metà febbraio gli esperti dell'Oms, reduci da un sopralluogo in Cina, avevano elogiato Pechino per aver “dispiegato il più ambizioso agile e aggressivo sforzo di contenimento della storia” di un’epidemia. Nonostante questo “ambizioso, agile e aggressivo sforzo”, l’11 marzo scorso, la stessa Oms è stata costretta a dichiarare lo stato di pandemia globale, poiché i contagi erano andati fuori controllo nel mondo. Il resto è Storia.
La Cina e l’era Biden
Il 2020 passerà alla storia anche per la sconfitta dell’acerrimo nemico della Cina, l’ormai ex presidente degli Stati Uniti d’America Donald Trump, che proprio in polemica con Ghebreyesus e con la sua acquiescenza nei confronti della gestione cinese della pandemia, a luglio 2020 aveva ritirato gli Usa dall'Organizzazione Mondiale della Sanità: “Molti soldi sono stati spesi da Cina, Iran, Russia e da gruppi di altri paesi specificamente a sostegno di un candidato o dell'altro, a seconda di come quel paese avrebbe beneficiato della politica estera di quel candidato”, ha spiegato a Fanpage.it Brittany Kaiser, che nel 2016 fu la talpa che scoperchiò le pratiche illegali di Cambridge Analytica nel profilare gli utenti di Facebook a sostegno dello stesso Trump: “La Russia – continua Kaiser – ha tratto vantaggio dal fatto che Trump fosse presidente e così i soldi che arrivano dalla Russia in generale sono a sostegno di Trump. Mentre alla Cina non è andata bene la presidenza Trump, ed è normale abbia diffuso informazioni contro Trump nella speranza di avere migliori relazioni commerciali con Joe Biden presidente”.
Sono solo supposizioni, ovviamente, anche se provengono da chi conosce bene cosa accade dietro le quinte della politica. Non è detto, tuttavia, che con Biden al posto di Trump la musica cambi, per Pechino. Sebbene sia opinione pressoché unanime che i rapporti tra Cina e Usa miglioreranno con Biden presidente, il Transition Team del neo presidente americano, qualche giorni prima della firma dell'accordo tra Bruxelles e Pechino, aveva espresso forti preoccupazioni sull’accordo sugli investimenti tra Ue e Cina. In particolare, che la conclusione di un accordo senza il contributo degli Stati Uniti possa mettere a repentaglio gli sforzi dell'Ue di collaborare con la nuova amministrazione Biden per affrontare la Cina sul tema dei diritti umani e degli standard tecnologici.
E noi?
In questa partita che ruolo gioca l’Italia, tradizionalmente fido alleato americano? Quando nel marzo del 2019, in occasione della visita del presidente Xi Jinping l’Italia firmò unilateralmente – senza cioè alcuna negoziazione con i partner europei – il memorandum per l’ingresso del nostro Paese nel progetto “One belt, one road”, si parlò di ambiguità italiana, nel contesto della guerra commerciale tra Cina e Usa: “Siamo il secondo paese europeo per numero di investimenti cinesi dopo l’Ungheria, il Paese europeo più compromesso con Pechino, – spiega ancora Fubini -. La fragilità della nostra economia e dei nostri conti pubblici aumenta la nostra ambiguità. E questo lo dimostriamo nei nostri voti all’Onu. Nel voto sulla Fao del 2019, ad esempio, noi siamo stati indecisi fino all’ultimo momento. Siamo il Paese occidentale più ambiguo, nei rapporti con la Cina”.
Dentro questa ambiguità emergono questioni aperte molto importanti. Questioni che ancora una volta riguardano il tema dei dati e della sorveglianza: “Operano sul nostro territorio numerose aziende di telecomunicazioni cinesi e sappiamo che le leggi di Pechino, sin dal 2017, obbligano le aziende cinesi a comunicare al loro governo i dati delle quali sono in possesso – spiega Fubini – Tra l’altro, questo è vero sia per le aziende cinesi come Huawei sia per le aziende basate a Hong Kong, visto che l’indipendenza di Hong Kong da Pechino ormai non esiste più.” Chissà se nell’accordo tra la Cina e l’Unione Europea si parla anche di questo. Chissà se nel 2021 se ne parlerà, perlomeno.