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Perché Harvard ha fatto causa alla Casa Bianca e oltre 100 università hanno firmato una lettera contro Trump

Oltre cento università americane, con in prima linea Harvard, si ribellano a quella che definiscono un’ “ingerenza politica” senza precedenti da parte del governo Trump. Accuse di antisemitismo, minacce di tagli ai fondi pubblici e tentativi di controllo esterno scatenano una reazione corale del mondo accademico che rivendica autonomia, libertà di insegnamento e difesa del Primo Emendamento.
A cura di Francesca Moriero
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Ci sono momenti in cui le università smettono di essere solo luoghi di studio e ricerca, e diventano campi di battaglia simbolici, spazi dove si misurano le tensioni più profonde di una società. È quello che sta accadendo negli Stati Uniti, dove oltre cento atenei, tra cui alcune delle istituzioni più prestigiose del Paese, hanno deciso di rompere il silenzio e prendere posizione contro quella che definiscono "una minaccia diretta alla loro autonomia". L'epicentro di questa frattura è Harvard, la più antica università americana, che ha scelto di trascinare l'amministrazione Trump in tribunale, accusandola di ingerenze politiche, tentativi di censura e pressioni economiche usate come arma per piegare la libertà accademica. Ma il caso di Harvard, per quanto emblematico, sarebbe solo la punta dell'iceberg di una questione più vasta: il conflitto crescente tra il mondo accademico e un potere politico sempre più deciso a dettare regole, contenuti, persino valori. Le accuse di antisemitismo rivolte ad alcuni campus, ufficialmente alla base degli interventi governativi, poi, si intrecciano a una dinamica ben più articolata, che affonda le radici in decenni di contrapposizioni culturali. E che oggi, con una lettera congiunta sottoscritta da decine di università, avrebbe trovato un punto di rottura: non si tratterebbe più di una polemica, infatti, ma di una battaglia aperta per "difendere l'indipendenza del sapere".

Il conflitto tra Harvard e l'amministrazione Trump

Tutto è iniziato ufficialmente con una causa legale, ma il conflitto tra Harvard e l'amministrazione di Donald Trump avrebbe radici ben più profonde, derivanti da mesi di crescente tensione. L'università ha deciso di intraprendere la via legale contro quella che considera una "campagna intimidatoria" da parte del governo federale. Al centro della disputa ci sarebbero misure che potrebbero minare l'autonomia accademica di Harvard, come il blocco di fondi federali e il controllo su programmi di studio e selezione dei docenti. Secondo i vertici dell'ateneo, queste azioni minacciano non solo i finanziamenti, ma anche il diritto dell'università di decidere autonomamente cosa insegnare, come farlo e con chi. Il presidente ad interim Alan Garber ha così parlato di un attacco diretto alla libertà accademica, sostenendo che il governo stia cercando di imporre una supervisione politica sull'università.

L'accusa di antisemitismo di Trump

L'amministrazione Trump ha giustificato il proprio intervento accusando Harvard di non aver affrontato in modo adeguato episodi di antisemitismo emersi durante le proteste contro la guerra nella Striscia di Gaza. Secondo il governo, per garantire un ambiente sicuro e tutelare i diritti degli studenti, è quindi necessario sospendere i finanziamenti federali agli atenei che non rispettano tali condizioni. Harvard, però, respinge le accuse e sostiene che l'amministrazione stia strumentalizzando la questione dell'antisemitismo per colpire le università che esprimono posizioni critiche nei suoi confronti. L'università denuncia inoltre come incostituzionali le richieste del governo, tra cui la revisione dei programmi accademici e l'imposizione di supervisori esterni, ritenendole una minaccia alla libertà di espressione e al pluralismo che dovrebbero essere alla base di ogni istituzione universitaria.

Oltre 100 università Usa contro Trump

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La causa intentata da Harvard non è rimasta un gesto isolato, al contrario, ha catalizzato una risposta rapida e compatta da parte di gran parte del mondo accademico americano. In poco tempo, oltre cento università e college, inclusi nomi di primo piano come Yale, Brown, Princeton e il MIT, hanno infatti firmato una dichiarazione congiunta per esprimere la loro preoccupazione e la loro opposizione a quella che definiscono una "interferenza politica senza precedenti" da parte del governo federale. Nel documento, le università parlano con "una sola voce" contro quella che ritengono una deriva autoritaria: l'uso strumentale dei finanziamenti pubblici per condizionare le scelte interne degli atenei, e in particolare per esercitare pressioni su programmi legati alla diversità, alla giustizia sociale, agli studi di genere e ai diritti delle minoranze. La presa di posizione è netta, ma non totale. Non tutte le grandi università hanno infatti aderito: un caso che ha fatto discutere è quello della Columbia University, che non ha firmato la lettera collettiva. In parte, la decisione sembra legata al fatto che l'ateneo abbia già accettato alcune delle richieste provenienti dall'amministrazione Trump, tra cui la creazione di un controllo esterno sul proprio Dipartimento di Studi Mediorientali. Una scelta che, se da un lato ha probabilmente evitato lo scontro frontale con Washington, dall'altro ha suscitato critiche all'interno dello stesso mondo accademico, dove molti vedono il rischio di un precedente pericoloso: quello di istituzioni disposte a negoziare la propria autonomia in cambio di stabilità finanziaria. Nonostante queste differenze, il segnale lanciato dal fronte universitario è forte: il mondo accademico, nella sua larga maggioranza, si riconosce in un principio condiviso e non negoziabile, quello della libertà di insegnamento e della difesa dell'università come spazio indipendente da ogni potere politico.

Libertà sotto attacco: la Costituzione al centro del conflitto

Nel cuore di questa battaglia c'è un principio fondante della democrazia americana: la libertà di espressione. Harvard lo mette nero su bianco nella sua denuncia legale, affermando che le pressioni esercitate dal governo federale violano apertamente il Primo Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti, che tutela, tra le altre cose, proprio la libertà di parola, di pensiero e di insegnamento. Secondo l'università, non si tratta semplicemente di una controversia sui fondi o sulla gestione interna dei corsi; la posta in gioco è molto più alta: è il diritto stesso delle istituzioni accademiche a essere luoghi indipendenti, capaci di ospitare idee diverse, anche scomode, anche radicali, senza dover temere ripercussioni politiche. Nel testo depositato in tribunale, Harvard cita anche precedenti della Corte Suprema che definiscono l'università come un "mercato delle idee", un laboratorio intellettuale dove il pluralismo non solo è permesso, ma dovrebbe essere essenziale. Se il governo comincia a decidere cosa può essere insegnato o chi può parlare nei campus, quel mercato smette di essere libero e si trasforma in una vetrina controllata dall'alto. La scelta degli avvocati a cui Harvard ha affidato il caso non è poi casuale: si tratterebbe infatti di due legali che in passato hanno collaborato con la stessa amministrazione Trump. Un dettaglio che potrebbe rivelarsi cruciale, non solo per rafforzare la credibilità del ricorso, ma anche per affrontare una magistratura che, negli ultimi anni, ha invece mostrato una crescente polarizzazione politica. Intanto, dentro e fuori l'università, il sostegno alla causa è cresciuto rapidamente: oltre 800 docenti hanno firmato l'appello pubblico in difesa dell'autonomia accademica, mentre tra gli studenti si respira un clima di mobilitazione: "Questa non è solo una battaglia legale, è una battaglia per la dignità dell'università e per la democrazia stessa", ha dichiarato uno studente al New York Times. La speranza, per Harvard e per tutte le istituzioni che si sono schierate al suo fianco, è che la giustizia riconosca l'urgenza della situazione e intervenga con una pronuncia rapida. Ma indipendentemente dal verdetto, la frattura sembra ormai aperta.

Quello che era iniziato come uno scontro tra un'università e un'amministrazione, dunque, si è trasformato ora in un confronto nazionale, in cui si misura il valore stesso dell'autonomia culturale in una società democratica. In gioco non ci sarebbe dunque soltanto il futuro di Harvard, o della Ivy League. Ma il principio, fragile, ma fondamentale, secondo cui il sapere non deve mai piegarsi al potere.

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