Giovedì 17 giugno, a Hong Kong, è successa una cosa molto importante. Oltre cinquecento agenti della polizia – cinquecento, provate a contarli uno a uno – hanno fatto irruzione negli uffici di un giornale che si chiama Apple Daily. Quando ne sono usciti, con loro c’erano anche il redattore capo Ryan Law, l'amministratore delegato Cheung Kim-hung, uno dei dirigenti Royston Chow, l'editore associato Chan Pui-man e il direttore della piattaforma Cheung Chi-wai. Erano tutti in manette. L’accusa con cui sono stati condotti in carcere è quella di "collusione con un Paese straniero che minaccia la sicurezza nazionale”.
La storia potrebbe finire qua, in effetti, e sarebbe già grave abbastanza. Il problema è che c’è molto di più. Perché Apple Daily, che ora rischia di chiudere, non è un giornale qualunque. Perché Jimmy Lai, il suo editore, attualmente pure lui in galera, non è un editore qualunque. Perché la battaglia per la democrazia a Hong Kong non è una battaglia qualunque. E perché la Cina, che quella battaglia la sta combattendo, contro Apple Daily, contro Jimmy Lai e contro la democrazia, non è un Paese qualunque.
Facciamo qualche passo indietro, però. È una storia, quella di Apple Daily che inizia nel 1995. Sono gli ultimi mesi prima del cosiddetto handover, il passaggio di sovranità sulla città del golfo delle perle dal Regno Unito, di cui Hong Kong era concessione, dopo esserne stata colonia, alla Repubblica popolare cinese. Un passaggio che sarebbe stato ratificato il 30 giugno 1997. In teoria, si sarebbe trattato di una transizione quasi indolore: stando agli accordi del 27 maggio 1985, le leggi della Repubblica Popolare Cinese non sarebbero state valide a Hong Kong per cinquant’anni, fino al 2047. One country, two systems – un Paese, due sistemi – è lo slogan che da allora ha accompagnato come un mantra questa lunga transizione.
Dopo il massacro di piazza Tien An Men, avvenuto nel 1989, gli abitanti Hong Kong sono molto preoccupati per l’imminente Handover, però. Decine di migliaia fanno di tutto per ottenere la cittadinanza britannica. Jimmy Lai, invece, decide di fondare un giornale. Nato quarantotto anni prima in Cina, a Guangzhou, Lai era entrato a Hong Kong nel 1959, a dodici anni, imbarcandosi da clandestino su una nave. Cattolico praticante, liberale, molto critico con il regime cinese, Lai era un imprenditore di successo – aveva fondato una casa di moda – con la passione dell’editoria. In particolare, gli piacevano i tabloid inglesi, quelli popolari, pieni di notizie, di inchieste, di scandali e di gossip.
Apple Daily nasce così, con 100 milioni di dollari messi sul tavolo da Jimmy Lai, e nel giro di due anni diventa il secondo giornale più diffuso a Hong Kong, con più di 400mila copie vendute. Sembra la storia di Quarto Potere: Lai e il suo giornale diventano il terrore delle celebrità e degli altri tycoon di Hong Kong, di cui svela le connivenze con il governo della città, sempre più filo cinese, col passare degli anni. E proprio i cinesi cominciano a osservare con preoccupazione e fastidio questo anziano miliardario un po’ matto. Per prima cosa, ovviamente, gli impediscono di pubblicare Apple Daily e tutti i periodici del suo gruppo editoriale in Cina. Poi spingono tutti i grandi imprenditori di Hong Kong a riempire di pubblicità tutti i giornali di Hong Kong tranne il suo. Poi provano a sfilargli il giornale di mano rastrellandone le azioni in borsa. Tentativi falliti.
Le cose cambiano radicalmente nel 2014, quando il governo di Pechino decide di cambiare il sistema elettorale di Hong Kong, sottoponendo tutti i candidati alla propria approvazione. A Hong Kong è l’inizio della rivoluzione degli ombrelli, un sit in pacifico a cui partecipano centinaia di migliaia di persone per diversi mesi. Jimmy Lai e Apple Daily sostengono la protesta, repressa dal governo cittadino a colpi di migliaia di arresti. È allora che cominciano le minacce, le bombe incendiarie davanti alla sua casa, gli incendi agli uffici del giornale, gli speronamenti in auto. Niente da fare: Apple Daily va avanti, sempre più critico. E Lai continua a finanziare il suo giornale.
Le cose cambiano ancora a partire dal 30 giugno del 2020, quando la municipalità di Hong Kong – ormai un’appendice del governo cinese – approva la nuova legge sulla sicurezza. In poche parole, è una legge che definisce il reato di secessione (di Hong Kong dalla Cina) come reato di pura opinione e che permette alla polizia di arrestare chiunque sia sospettato di perseguire quel reato, senza alcun controllo né alcuna autorizzazione. Migliaia di persone vengono arrestate anche solo con l’accusa di detenere una bandiera di Hong Kong o un ombrello giallo in casa. Tra loro c’è anche Jimmy Lai, che viene incarcerato quaranta giorni dopo, il 10 agosto, per una presunta collusione con “potenze straniere” (leggi: gli Stati Uniti d’America). Ancora una volta, non basta: l’11 agosto le azioni della Next Digital, la media company di Lai, salgono del 331% in un giorno solo. E Apple Daily, che esce con una copertina in cui annuncia che la battaglia continua, vende 500mila copie in un giorno, cinque volte tanto il giorno prima. Da quel giorno, Lai viene rilasciato per vizi di forma e assenza di prove, e arrestato immediatamente dopo con un’altra accusa diverse volte. L’ultima, il 28 maggio del 2021, poche settimane fa. Il resto è cronaca. Anzi, meglio: è una giornale tirato in 500mila copie, di nuovo, con le foto degli arrestati e un solo titolo: “We must press on”. Dobbiamo continuare a stampare. La battaglia di Hong Kong continua. Ma ogni giorno è sempre più dura.