La legge sugli aiuti all’estero da 95,3 miliardi di dollari, prima approvata dal Congresso americano e poi firmata dal presidente statunitense Joe Biden, palesa i nodi irrisolti della politica estera americana i quali, soprattutto in piena campagna elettorale, irrompono al centro del dibattito tanto nei palazzi dell’establishment quanto nelle piazze del paese.
A differenza di quanto dichiarato da Biden – secondo cui con la convalida del pacchetto di aiuti a Ucraina, Israele e Taiwan gli Stati Uniti sarebbero riusciti a “mandare un messaggio al mondo sulla leadership americana” – la logica e le dinamiche che ne hanno permesso il varo non provano la ricomposizione delle faglie incuneate fra le sensibilità dello spettro politico americano sul diverso ruolo che l’America dovrebbe assumere nel mondo. Né sanciscono la vittoria di un ritrovato consenso bipartisan sulla necessità di sostenere la difesa del territorio ucraino dall’offensiva russa. In realtà, e a ragion veduta, solo il supporto militare a Taiwan e al contenimento della Cina nella regione dell’Indo-Pacifico resta condiviso.
Per il resto, la politica americana rimane profondamente incerta e internamente spaccata su quale debba essere la gerarchia fra le priorità strategiche emerse coi passati, presenti e potenziali teatri di crisi aperti almeno dal 24 febbraio 2022.
Anzitutto, va chiarito che è la questione sul proseguo degli aiuti all’Ucraina che ha fatto da padrona nell’impasse che per mesi ha alimentato i timori occidentali e di Kiev sulla reale volontà e capacità americana di continuare a supportare lo sforzo militare dell’Ucraina contro l’invasione russa. L’amministrazione Biden ha scommesso molto della propria credibilità sul sostegno alla causa ucraina “finché sarà necessario”. Un appoggio che però è andato fiaccandosi al fallimento comprovato della controffensiva ucraina, quando i mezzi e l’equipaggiamento militari a disposizione dell’esercito ucraino erano molto di più di quelli attuali.
Dopo oltre due anni di retorica basata sulla necessità di contenere le mire neo-imperialiste del Cremlino mascherata da lotta fra democrazia e autocrazia, non varare altri aiuti avrebbe palesato il declino di quell’idea di America desiderosa e capace di difendere la propria egemonia nella sfera di influenza per eccellenza, l’Europa, nonché di irradiare un soft power ancora attraente per gli alleati, già sempre più scettici sul futuro del rapporto privilegiato con Washington. Trovare una soluzione per la Casa Bianca, insomma, era d’obbligo.
Ma è anche questo il punto dirimente: gli americani sono indecisi su quali siano i loro principali interessi di sicurezza e di alleanze all’estero. Lo dimostra la diversificazione delle varie maggioranze che alla Camera dei Rappresentanti hanno votato quattro diverse misure: una per allocare 60,8 miliardi di dollari all’Ucraina, una per 26,4 miliardi a Israele, una per 8,1 miliardi per la regione dell’Indo-Pacifico e un’altra che include diverse disposizioni sul sequestro di beni russi, sulla lotta al traffico di Fentanyl e sul disinvestimento da TikTok.
Di fronte alle distinte basi di opposizione ai diversi elementi della legislazione che minacciavano di far fallire il pacchetto nel suo complesso, lo Speaker della Camera, il repubblicano Mike Johnson, d’accordo con la Casa Bianca, ha presentato una legislazione “spacchettata” in varie componenti al fine di catturare diverse coalizioni di sostegno fra i deputati del Partito Democratico e di quello Repubblicano (Grand Old Party, GOP) senza permettere che l’opposizione a una singola misura vanificasse l’intera legge. Nelle misure approvate assieme agli aiuti figura anche la legge per obbligare l’azienda cinese ByteDance a vendere la piattaforma social TikTok, che altrimenti sarà esclusa dal territorio nazionale. Quest’ultima misura che risponde a una richiesta repubblicana e che è stata aggiunta per volontà di Johnson, è stata definita “edulcorante” dalla stampa americana, ovvero volta ad addolcire e a ottenere maggiori consensi proprio tra i repubblicani riottosi a fornire ulteriori aiuti a Kiev. Le frizioni più gravi sul futuro dell’America nel mondo, infatti, abitano in seno al GOP, un partito in profonda trasformazione identitaria.
La corrente dei repubblicani contrari agli aiuti all’Ucraina, dapprima definita dei cosiddetti “ribelli trumpiani”, proviene dall’ala più isolazionista e nazionalista del GOP. In altre parole, è quella dell’America First, quella che negli ultimi anni è passata da una posizione marginale a una visione sempre più partecipata, anche per via della probabilità sempre crescente poi divenuta certezza, che sarà Donald Trump il candidato repubblicano per le presidenziali del prossimo novembre.
Essa considera la Cina la minaccia strategica principale e ritiene che estendere gli impegni di sicurezza in Europa, continuando a occuparsi del contenimento di Mosca nel territorio ucraino, sottragga risorse alla costruzione del contenimento di Pechino in vista di un potenziale scontro diretto. Per questo preme affinché gli Stati europei si rendano se non indipendenti nelle loro capacità di difesa, almeno semi-autonomi. In altri termini, sebbene la gestione dell’ombrello atomico dell’Europa debba restare in mano all’America, i paesi del Vecchio Continente dovrebbero responsabilizzarsi di più, pagando per la propria difesa quanto raccomandato in seno alla NATO. Così, il pacchetto per l’Ucraina è passato perché votato da tutti i democratici (210) e 101 repubblicani, mentre 112 repubblicani hanno votato contro. La maggioranza dei repubblicani si è cioè opposta agli aiuti all’Ucraina.
Coloro che hanno votato a favore si sono definiti “repubblicani reaganiani”: di fatto sono i repubblicani di establishment che fanno capo a figure come la neocon Nikki Haley o lo stesso ex vicepresidente dell’amministrazione Trump Mike Pence. Questi aderiscono all’idea che gli Stati Uniti debbano mantenere un approccio internazionalista e di leadership nel mondo, ma ritengono anche che la difesa dell’egemonia americana inizi proprio dal mantenimento di un’Europa libera dal pericolo russo, anche perché infliggere una sconfitta a Mosca assesterebbe un colpo indiretto a Pechino stesso.
In questo senso, pochi giorni fa Pence ha rilasciato un’intervista a Euronews che offre una rappresentazione plastica di questa visione e della conseguente spaccatura interna al GOP: “Mi sono unito al Partito Repubblicano durante gli anni di Reagan. Credo (…) che l’America sia il leader del mondo libero. (…) Credo che nel mio partito ci sia una marea crescente di isolazionismo repubblicano. Mi sono espresso con coraggio contro di esso e continuerò a farlo. Coloro che credono che dobbiamo scegliere tra risolvere i nostri problemi interni, la crisi al confine meridionale, l’inflazione, la criminalità nelle nostre città, e essere leader del mondo libero, hanno una visione piuttosto limitata della più grande nazione del mondo. Ma credo che la maggioranza del popolo americano, in entrambi i partiti politici, sostenga i nostri alleati e la leadership americana in Europa orientale, in Medio Oriente e nell’Asia Pacifica (…) A breve termine, credo che l’aggressione russa rappresenti una minaccia molto concreta. A lungo termine non c’è dubbio, la Cina rappresenta la più grande minaccia strategica ed economica, non solo per gli Stati Uniti, ma anche per l’Occidente”.
Dal lato opposto, sugli aiuti a Israele, invece, la maggior parte dei repubblicani ha votato “sì”, mentre 37 democratici di sinistra hanno disertato il voto. Questi ultimi hanno dichiarato di essere contrari a rifornimenti militari illimitati e incondizionati a Tel Aviv che potrebbero essere utilizzati per l’ultima offensiva dell’esercito israeliano nella Striscia di Gaza, considerata da questi una campagna militare eccessivamente feroce degenerata in catastrofe umanitaria ai danni del popolo palestinese.
I 37 “no”, pur rappresentando una rottura rispetto al ferreo sostegno di Washington allo Stato Ebraico, non hanno raggiunto il blocco di opposizione che i più progressisti speravano di raccogliere. A differenza della dinamica intercorsa dentro il Partito Repubblicano, però, questa è un’opposizione che rappresenta ancora una minoranza dei democratici, sebbene anche in questo caso rifletta una divisione all’interno del partito fra le posizioni di establishment e quella più progressista rappresentata da figure come Bernie Sanders o Rashida Tlaib.
Lo storico rapporto fra USA e Israele non è infatti paragonabile a quello con l’Ucraina: il primo è un’alleanza strategica e in questo senso così “pura” da non poter essere rimessa in discussione nemmeno dal gelo personalistico fra il presidente americano e quello israeliano, Benjamin Netanyahu. La seconda no ed è funzionale all’ostilità imperitura fra le sfere di influenza dei due vecchi blocchi della Guerra Fredda. Di più. La massiccia diaspora ebraica e la sua pervasività nella vita politica, economica e culturale degli Stati Uniti la rende questione anche domestica fra le come dimostrano le recenti proteste nei campus universitari americani (non paragonabili a quelle nostrane).
Quello degli ultimi giorni, insomma, è stato un passaggio fondamentale nelle dinamiche parlamentari della politica americana perché svela la persistente incoerenza e diatriba intestina degli Stati Uniti nell’identificare e trovare un accordo sulle loro priorità in politica estera. Il volto della crisi americana che più ci interesserà direttamente nei prossimi anni.