Perché Donald Trump vuole Groenlandia, Panama e Canada: il predominio artico e il duello con la Cina
Negli ultimi giorni hanno fatto molto discutere alcune dichiarazioni del presidente eletto degli Stati Uniti Donald Trump su Panama, Groenlandia e Canada (dove martedì 7 gennaio il premier Justin Trudeau ha annunciato le dimissioni come capo del partito liberal e come primo ministro).
Durante una conferenza stampa a Mar-a-Lago il tycoon, che si insedierà ufficialmente il prossimo 20 gennaio, ha parlato in toni provocatori dell'eventuale riconquista del canale di Panama e dell'annessione della Groenlandia. Commentando le dimissioni di Trudeau, invece, Trump ha fatto allusioni sulla possibilità che il Canada diventi il 51esimo stato americano.
Per capire da dove nascano queste affermazioni e quali siano i reali obiettivi del presidente eletto Fanpage.it ha intervistato Mario Del Pero, professore di Storia Internazionale e Storia della Politica Estera Statunitense presso il SciencesPo di Parigi e Senior Research Fellow dell’ISPI.
Professore, che premesse vanno fatte rispetto a quanto detto da Donald Trump in questi giorni?
Credo ci siano delle considerazioni d'ordine strategico e geopolitico, soprattutto rispetto a Panama e alla Groenlandia, da fare. Sono aree di particolare importanza rispetto a quello che l'amministrazione entrante, ma anche quella uscente, per certi versi, considera come principale sfida per la politica estera degli Stati Uniti, ovvero la competizione di potenza con la Cina.
Panama ha ristabilito rapporti diplomatici con la Cina nel 2017. Da allora, come altre zone dell'America Latina, è stata teatro di investimenti infrastrutturali cinesi e questo preoccupa l'amministrazione Trump che ritiene che vada ripristinata una piena egemonia statunitense sulle Americhe. Anche perché il canale ha una valenza strategica commerciale significativa.
Quanto alla Groenlandia, rispetto a una sfida di potenza sull'Artico con la Russia e, di nuovo, con la Cina, ha visto la sua importanza strategica ulteriormente accresciuta. È sede di un'importante base americana, è ricca di materie prime e il cambiamento climatico ha reso le rotte navali artiche potenzialmente più rilevanti.
Rispetto al Canada, invece, ritengo si tratti proprio di una boutade per umiliare Justin Trudeau, i liberal canadesi e, di riflesso, i loro interlocutori statunitensi. E queste sono le premesse.
Quali sono gli obiettivi del presidente eletto?
Si tratta di pressioni con cui Trump spera di ottenere qualche cosa. Da Panama, per esempio, una maggiore attenzione agli accordi che stipula con la Cina o dei privilegi per le imbarcazioni statunitensi.
Vorrà negoziare anche con il governo danese e groenlandese per ottenere qualcosa di più rispetto a ciò che gli Stati Uniti già hanno. È irrealistico che si dia corso a propositi più radicali ed estremi, ma c'è sicuramente l'intenzione di capitalizzare su queste pressioni.
Queste esternazioni hanno anche una valenza ideologico-culturale?
Sicuramente, si tratta di affermazioni di un nazionalista alla guida della principale potenza mondiale che può permettersi di utilizzare questo tipo di retorica, aggressiva e, di fatto, neocolonialista. Queste riflettono la cultura politica di Trump che gratifica e soddisfa la sua base e il suo elettorato.
In politica internazionale per Trump tutto è transazionale, non ci sono alleanze permanenti, e questa dimensione non la sottovaluterei. Di tutti questi dossier, quello più significativo e riguardo al quale potrebbe accadere qualcosa, è quello dell'America Latina.
Perché?
Perché questo nazionalismo si mette in asse con il neoconservatorismo, chiamiamolo così, del suo Segretario di Stato, Marco Rubio, che da tempo invoca un'azione più aggressiva degli Usa in America Latina per limitare o rovesciare la presenza cinese e controregimi considerati ostili, come Cuba e il Venezuela.
E l'America Latina ha un significato politico e simbolico per la destra statunitense molto forte. Quando negli anni '70 si negoziò l'accordo per l'attribuzione della sovranità del canale a Panama, Kissinger ci rinunciò perché il costo politico era troppo alto. Lo fece Carter nel '77 con un accordo che gli costò tantissimo.
Passò al Senato con un solo voto in più rispetto alla maggioranza qualificata necessaria per ratificare i trattati. Quindi, l'idea che le Americhe siano dominio statunitense è abbastanza radicata nella destra statunitense.
Lei che Trump ha visto in questi mesi? Cosa dobbiamo aspettarci?
Ritengo che ci sia una sorta di assuefazione problematica a Trump, alle sue affermazioni e al suo lessico volgare e violento. E che questo, in una certa misura, lo abbia normalizzato. Tutto ciò, ovviamente, lo rende politicamente più forte.
Ci sono anche tanti punti domanda, per esempio, sulla tenuta del partito repubblicano che in queste settimane si è già diviso più volte. Trump ha vinto le elezioni, ma ci dimentichiamo che non lo hanno fatto i repubblicani che ora alla Camera hanno una maggioranza molto più esile di quella che hanno avuto nel 2023-2025.
L'impressione è di un Trump più "in sella", più in controllo rispetto a otto anni fa. Un pezzo d'America oggi è pienamente "trumpizzata" e questo credo gli dia una solidità politica maggiore.