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Conflitto Israele-Palestina e in Medio Oriente

Perché contro la guerra a Gaza serve una mobilitazione globale senza precedenti

L’intervista alla docente italo-palestinese di Antropologia dell’Università di Bologna, Ruba Salih, sui temi delle mobilitazioni studentesche per il conflitto a Gaza, del boicottaggio accademico delle università israeliane, le dinamiche geopolitiche che sottendono al conflitto, le possibilità di un cessate il fuoco.
Intervista a Ruba Salih
docente italo-palestinese di Antropologia dell'Università di Bologna
A cura di Giuseppe Acconcia
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Abbiamo intervistato la docente italo-palestinese di Antropologia dell'Università di Bologna, Ruba Salih, sui temi delle mobilitazioni studentesche per il conflitto a Gaza, del boicottaggio accademico delle università israeliane, le dinamiche geopolitiche che sottendono al conflitto, le possibilità di un cessate il fuoco.

Ruba Salih
Ruba Salih

L'attacco all'ong World Central Kitchen che ha causato la morte di sette operatori umanitari di varie nazionalità può indicare che tutta la macchina degli aiuti a Gaza è sotto attacco?

Certo è cosi, anche se proprio in seguito agli attacchi deliberati a WCK, Israele è stato obbligato a fare entrare maggiori aiuti. C'era stato un coordinamento tra esercito israeliano e lo staff di WCK. Gli spari sono avvenuti in maniera consecutiva e un'inchiesta di al-Jazeera ha sconfessato l'esercito israeliano che parlava di “tragico incidente”. In altre parole, l'esercito israeliano ha mirato ai tre convogli e ha continuato a sparare, uno dopo l'altro, anche contro i superstiti. È chiaro che questo attacco aveva come obiettivo l'effetto di paralizzare le organizzazioni umanitarie che con enorme difficoltà distribuiscono aiuti alimentari alla popolazione civile di Gaza, dopo che Israele ne blocca da mesi l'ingresso. WCK ha sospeso le attività finché non sarà garantita la sicurezza degli operatori. Questo rende sempre più difficile la sopravvivenza della popolazione e significa sostanzialmente continuare nell'indiscriminata politica di violazione del diritto umanitario internazionale e che centinaia di migliaia di persone a Gaza stanno soffrendo la fame.

Non solo sono 138 i giornalisti uccisi fin qui a Gaza ma il parlamento israeliano ha approvato il bando della tv del Qatar al-Jazeera, tra le ultime presenti nella Striscia, in Israele. Come valuta questa strategia israeliana di mettere a tacere l'informazione sul campo?

Credo che al-Jazeera sia uno strumento di informazione di grande importanza e i tanti giornalisti palestinesi di questa testata che sono stati uccisi deliberatamente dall'esercito israeliano ne sono una testimonianza. I giornalisti palestinesi tutti i giorni rischiano la loro vita per raccontare il genocidio,
esponendosi fisicamente e psicologicamente per narrare il bollettino dell'orrore. Cimiteri divelti, corpi sepolti con e sotto le macerie e lasciati a marcire dall'esercito israeliano, a volte i giornalisti e le giornaliste palestinesi hanno scoperto in diretta che i morti e i feriti erano i loro familiari. D'altra parte, i giornalisti della carta stampata a Gaza sanno di essere nel mirino e lavorano con pseudonimi, temono che la loro vera identità venga a galla e di essere uccisi con le loro famiglie, come è successo ai loro colleghi e anche a docenti universitari. Tuttavia, è evidente che Israele non è in grado di censurare l'informazione su ciò che avviene realmente a Gaza. Tentano in tutti i modi, tagliando elettricità e wi-fi, ma senza successo.

Mai come in questo conflitto conosciamo tutti i crimini commessi da Israele…

I palestinesi, soprattutto di Gaza, dopo quasi 17 anni di assedio da parte di Israele, sono un popolo pieno di risorse e invettiva. Non si possono silenziare. Il genocidio, perché di questo si tratta, è raccontato e mostrato in tutta la sua feroce intensità. La popolazione usa i telefonini e sui social media – da X a Telegram e altro – ci sono i racconti e le immagini in tempo reale della ferocia israeliana. I crimini di guerra sono lì sotto gli occhi di tutti. Se Israele forse ha potere di manipolare i media mainstream come il New York Times o altri, non c’è modo di fermare l'informazione indipendente. Questo rappresenta un primo livello di sconfitta per Israele che ha dalla sua certamente un'enorme e violenta macchina da guerra ma non sta vincendo né sul piano della legittimità né sul piano politico. Israele sta perdendo anche la battaglia morale: anche l'impunità di cui ha goduto fino ad ora comincia a sgretolarsi grazie alle pressioni di milioni di persone che da mesi manifestano per le strade e le piazze di tutto il mondo, nelle università, insieme ai movimenti studenteschi, sindacali, ecologisti e anti-razzisti. I governi occidentali cercano di salvare il salvabile per la loro immagine, non perché all'improvviso abbiano scoperto di essere sensibili alle sofferenze
del popolo palestinese sottoposto a decenni di occupazione e colonialismo, ma perché non amano essere posizionati dalla parte del torto della loro ormai chiaramente solo presunta morale universale. I governi europei e gli Usa sono sempre più in difficoltà rispetto alla evidenza di questo televised genocide, su cui tutto il resto del mondo sta prendendo posizione in modo molto netto, come mai prima.

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C'è una dimensione di questo conflitto che noi non vediamo, che rientra nelle dinamiche geopolitiche che vogliono mettere in discussione il ruolo dell'Iran nella regione o legato agli interessi per lo sfruttamento delle risorse di gas nel Mediterraneo orientale?

Credo che la dimensione geopolitica e gli interessi economici siano sempre intrecciati a doppio filo alle ideologie nazionaliste e coloniali espansioniste. Questi interessi concorrono a fare sì che le guerre e la violenza continuino. Ci sono gli interessi delle grandi corporations, dalle industrie belliche a quelle che sfruttano le risorse naturali e dell'ambiente. E anche a Gaza è così, sappiamo che recentemente sono state scoperte ingenti fonti di gas naturale nel mare antistante la costa di Gaza dove già anche aziende italiane, come Eni, hanno firmato contratti con Israele per avviare l'esplorazione di questi giacimenti. Tutto questo è illegale per il diritto internazionale oltre che profondamente ingiusto perché quelle sono risorse che appartengono ai palestinesi. Sicuramente questi aspetti sono parte integrante del quadro in cui i palestinesi stanno venendo letteralmente non solo uccisi e menomati, ma anche soggetti a pulizia etnica, visto che l'80% della popolazione di Gaza è sfollata dalle proprie case e che oltre il 70% dell'habitat di Gaza è stato distrutto. Questo ricorda ciò che è stato fatto nel 1948, quando centinaia di villaggi palestinesi furono rasi al suolo per impedire il ritorno dei residenti, i cui discendenti peraltro sono finiti nei campi profughi di Gaza: Khan Younis, Jabalia tra gli altri.

Eppure centrale è sempre la natura ideologica del conflitto?

Ma la dimensione ideologica è fondamentale nello scenario che abbiamo di fronte. Questo è un governo israeliano di estrema destra, una miscela di fondamentalismo religioso e ideologia suprematista e coloniale. Politici come Itamar Ben Gvir, ministro del governo Netanyahu, e leader del partito di estrema destra Otzma Yehudit (Potere ebraico), affondano le loro idee nel sionismo religioso e fondamentalista e sono cresciuti nelle frange del terrorismo di destra e dei movimenti dei coloni. Loro credono di avere un diritto divino sulla terra dei palestinesi. C'è quindi uno scenario composito: un governo di destra e fondamentalista religioso, cospicui interessi geopolitici ed economici globali, e una ideologia nazionalista espansionista che da più di 80 anni procede nel progetto di graduale appropriazione della terra palestinese e di eliminazione della popolazione nativa, attraverso una molteplicità di strumenti: uccisioni, menomazioni, espropriazioni di terra, appropriazione culturale, distruzione dell'ambiente naturale palestinese, una necro-politica attuata da decenni. Tutto questo con l'obiettivo di sradicare l'indigeneità palestinese e imporsi come i nativi. L'idea che quello israelo-palestinese sia un conflitto tra due gruppi nazionalisti in lotta per la stessa terra è il prisma sbagliato. Lo stato di Israele è fin dall'inizio un progetto di colonialismo di insediamento che fa suoi certamente discorsi nazionalisti, ma dal punto di vista palestinese non è un progetto di liberazione nazionale. È il popolo palestinese che è stato colonizzato e da decenni tenta di liberarsi da questo assedio coloniale, come movimento di liberazione nazionale, alla stessa stregua di altri movimenti di liberazione nazionale che si sono liberati dal colonialismo europeo. La liberazione dal colonialismo è storicamente violenta e brutale. E qui vi è un altro aspetto drammatico. All'indomani della seconda guerra mondiale e in seguito alla fine del colonialismo il mondo si era in teoria dotato di strumenti quali il diritto internazionale che dovevano garantire pace e sicurezza per tutti i popoli. Eccetto in Palestina, dove il colonialismo e l'apartheid hanno continuato a proliferare sostenuti dalla “impunità” eccezionale dei successivi governi israeliani. Oggi si assiste a un rinnovato uso del discorso del diritto internazionale, così delegittimato in questi ultimi anni proprio perché soggetto ad un costante uso selettivo da parte delle potenze occidentali. Non c’è dubbio che questo stia sortendo degli effetti. Si stanno spostando alcune assi, ma non perché il diritto internazionale sia finalmente giunto ad avere effettiva valenza universale. Piuttosto, si sta mettendo a nudo proprio quel “bias” costitutivo del diritto internazionale. Le arringhe del team sudafricano alla Corte internazionale di Giustizia che hanno operato come atti performativi all'interno di un teatro, hanno avuto un effetto catartico perché hanno contribuito ad uno spostamento delle sensibilità e a mettere a nudo i due pesi e le due misure proprio del diritto internazionale. L'effetto sortito non è stato (purtroppo) l’applicazione del diritto (la violenza genocidaria ha continuato perfino anche dopo la risoluzione del cessate il fuoco del consiglio di sicurezza, la 2728 del 25 marzo scorso, una risoluzione storica) quanto l’aver esposto la natura ormai intollerabile dell'inutilità del diritto, per così dire, o della sua funzionalità meramente geopolitica. Israele ha perso o sta perdendo non tanto la partita del diritto ma quella della politica e della morale. Questo spiega anche le grandissime proteste dal sud globale. L'uomo bianco (o il Re) è stato messo a nudo.

Parliamo delle mobilitazioni accademiche, studentesche in tutta Italia e anche dell'idea di rivedere le collaborazioni con Israele sia da un punto di vista accademico ma più in generale del movimento di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS).

Mentre fino a pochi mesi fa la richiesta di sospendere relazioni con imprese ed istituzioni, anche accademiche, implicate nel complesso militare-industriale era stigmatizzata come violenta e facinorosa, (e perfino bandita in alcuni paesi!) è oggi sempre più evidente che strumenti politici che partono dalle società civili sono fondamentali: penso alla sospensione delle relazioni con realtà accademiche che producono ricerca con fini dual use, o che concorrono alla discriminazione e alla violazione dei diritti umani della popolazione palestinese. Embargo e sanzioni sono applicati spesso nei confronti di paesi occupanti, inclusa la Russia. Il disinvestimento da aziende del complesso militare-industriale e la sospensione delle relazioni con università che producono tecnologia e know-how per l'apparato miliare che in questi mesi (e da prima) sta annientando la popolazione palestinese è una delle forme più pacifiche per fare pressione sul governo israeliano e sui governi complici di questo genocidio. In atenei italiani e internazionali c'è stato un rilancio di questo strumento pacifico, dal basso, di pressione. La richiesta è chiara: interruzione dei rapporti finché Israele non rispetterà il diritto internazionale. Stiamo parlando di uno stato verso il quale sono state
emesse dozzine di risoluzioni mai rispettate e mai fatte rispettare, e che continua impunemente ad annichilire la popolazione palestinese, ponendola sotto assedio da decenni, e oggi affamando, distruggendo case, infrastrutture sanitarie, educative, religiose.

Con 33mila civili uccisi, e oltre 70mila feriti, e dozzine di risoluzioni disattese, che altro rimane da fare?

In molti atenei italiani stanno partendo interrogazioni di due diligence. Si tratta di avviare una ricognizione delle partnership esistenti sia con aziende che con università israeliane dove possono sussistere i rischi di ricerca e sviluppo che si prestino a fini militari e quindi anche in chiave di auto-protezione, dato che tutti gli stati membri devono contribuire a implementare le misure cautelari richieste dalla Corte internazionale di Giustizia nel rispetto della convenzione per il genocidio. Nelle prossime settimane avremo i risultati di queste ricognizioni. Voci critiche rispetto a questi strumenti fanno richiamo alla natura neutrale delle università e della ricerca scientifica. Ma tutto questo è anacronistico. Non è un segreto che molte università israeliane con cui i nostri atenei hanno partnerships attive sono direttamente o indirettamente implicate nel genocidio e nei bombardamenti dal 2008 fino ad oggi. È in istituti universitari come Technion, per esempio, che si sono messe a punto le tecnologie dei veicoli a controllo remoto responsabili della distruzione di più di 27mila case palestinesi. È qui, inoltre, che si formano i dirigenti delle grandi aziende di produzione di armi in Israele, e dove è messo a punto tutto l'apparato di sorveglianza cibernetica e di AI miranti a “guadagnare” tempo nella identificazione di target (si veda inchiesta su Lavender pubblicata su +972 magazine e sul Guardian). È qui che studenti e docenti che faranno parte del complesso militare industriale israeliano si formano e insegnano. Le università israeliane sono ben lungi dall'essere entità neutrali. Il boicottaggio avviato fin dalla metà degli anni 2000 ha già ottenuto numerosi successi, per esempio, negli Stati Uniti dove sindacati, chiese, società di assicurazioni, università hanno disinvestito o deciso di non attivare più relazioni con le università israeliane o con aziende che sono complici con l'occupazione. In Italia il percorso è alle prime armi e quindi tutto questo momento serve da processo di alfabetizzazione rispetto al grande problema che le università israeliane non sono luoghi neutrali ma di produzione, di ricerca, di capitale umano coinvolto nel genocidio e nei bombardamenti e nell'occupazione. Le università che decidono di chiudere gli occhi rispetto a tutto questo diventano indirettamente complici, piuttosto che neutrali.

Perché è così difficile arrivare a un cessate il fuoco?

Credo che al momento l'unica arma che si ha a disposizione sia la mobilitazione internazionale. Biden sta rischiando la sua rielezione su questo punto e così si spiegano i pochi passi che ha fatto, per quanto inaccettabili nella loro ipocrisia, dato che contemporaneamente continua a fornire supporto militare a Israele: per la prima volta gli Usa non hanno posto il veto alla risoluzione per il cessate il fuoco alle Nazioni Unite. Questo è un risultato ottenuto dalle mobilitazioni internazionali che sono da mesi estesissime, fondamentali, intense, senza precedenti, che forse hanno paralleli solo con le proteste contro la guerra in Iraq. La Palestina è una sorta di prisma per tantissimi giovani oggi, associazioni, soggetti della società civile, per tanti paesi del Sud globale, è un prisma del capitalismo razziale, della geopolitica neocoloniale, è un prisma delle dinamiche di appropriazione della terra, dell'ingiustizia globale. E quindi c'è qualcosa che va oltre il senso di oltraggio che si sente per la violenza a cui il popolo palestinese è sottoposto. Molti giovani stanno cavalcando queste proteste perché in questo vedono la possibilità di un futuro di giustizia sociale, ecologica, femminista, razziale globale. Su questa mobilitazione incredibile si stanno muovendo tante istanze
magari non enunciate in modo sempre chiaro ma sentite a livello di affettività politica. C'è un investimento politico enorme perché è chiamata in causa la possibilità di un futuro per tutti su questo pianeta.

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